Ritorno al Giardino dell’Eden: una trilogia sovietica postuma

L’uomo non può fare a meno di sognare in grande, è insito nella propria natura che egli non smetta mai di desiderare di avere più di quello è già in suo possesso. Dalle origini dell’umanità fino ai giorni nostri, l’uomo non ha mai interrotto la sua ricerca di un futuro migliore. Anzi, potremmo affermare oltre ogni dubbio che è stata questa inestinguibile fiamma ad averlo accompagnato lungo il flusso storico-temporale, permettendogli di toccare tutte le varie tappe dell’evoluzione: la pietra, il fuoco, la ruota, la polvere da sparo, l’elettricità… Nel corso di qualche secolo l’uomo, da preda abituata a sopravvivere nell’oscurità delle caverne, si è trasformato in predatore, è uscito alla luce, ha conquistato la Terra e colonizzato i cieli. Dopodiché, affermatosi come specie animale più evoluta e intelligente, l’uomo ha iniziato a sognare un nuovo mondo, che non avrebbe più visto lotte di potere, che non avrebbe più dato vita a prede o predatori, che avrebbe assistito alla nascita di una società priva di classi sociali e ingiustizie umanitarie: un vero (anche se forse utopico) paradiso terrestre.

Alimentato dallo stesso spirito, il celebre Karl Marx inizia a immaginare lo stesso tipo di ordine sociale, e ne teorizza l’instaurazione attraverso un’ipotetica gloriosa Rivoluzione socialista condotta dal proletariato, ovvero l’insieme di operai e lavoratori che fino a quel momento hanno giocato il ruolo di prede in fuga dai capitalisti. Karl Marx sostiene che tale Rivoluzione sia possibile solo laddove l’industria e l’economia sono ben sviluppate, e l’evoluzione non sia una lontana prospettiva ma una realtà concreta. Di fatto, il filosofo tedesco si limita a volgere lo sguardo verso quelle nazioni europee (occidentali) che possono trarre beneficio dal recente progresso scientifico-tecnologico (quale la Gran Bretagna), e non prende in considerazione il fatto che al di là delle pianure orientali e dei Carpazi ― oltre le odierne Polonia e Romania ― esiste un popolo (che per comodità definiamo qui “russo”, ma ben consapevoli della moltitudine di etnie racchiuse in esso) che da secoli sopporta oppressioni, governi assolutisti, occupazioni straniere e ogni possibile forma di schiavismo. E per l’appunto, è l’insieme di queste componenti (non presenti in egual misura in Occidente) che portano allo scoppio della Rivoluzione socialista nell’Impero Russo, nonostante l’industria e l’economia locali siano ben altro che avanzate.

 

 

Sbarazzatisi della monarchia e sovvertito il vecchio ordine statale, i sovietici si preoccupano subito di come poter attuare nel concreto il socialismo marxista e avviare, in sostanza, l’edificazione del paradiso terrestre per il proletariato sovietico (solo ideologicamente: del mondo intero). Passo dopo passo, l’instancabile squadrone rosso del Cremlino riesce letteralmente a rivoluzionare lo status quo dell’ex Impero e, dopo qualche anno dalla Rivoluzione del 1917, nel 1922 il Sole sorge per la prima volta sull’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Tuttavia, i sovietici delle alte sfere comprendono ben presto che la neonata URSS, in verità, non ha nulla a che fare con il Paradiso in Terra che si aveva immaginato; anzi, l’instaurazione del vero socialismo marxista pare sempre più un obiettivo irraggiungibile, principalmente a causa delle precarie condizioni sociali ed economiche del Paese. Nella pratica, lo sforzo e il rendimento industriali richiesti dai diversi leader sovietici si rivelano subito esagerati per un popolo di tradizione prettamente agricola, il quale ― fra l’altro ― vede scarsi miglioramenti nella propria condizione sociale anche dopo lo scambio di potere. Il generale malcontento della popolazione nei confronti della politica socialista arriva fino alle porte del Cremlino che, prontamente, mette in atto una formidabile strategia di propaganda, le cui fondamenta poggiano sul concetto ideologico denominato “radioso avvenire” (cortesemente preso in prestito dal Cristianesimo). Molto banalmente: il governo tenta di placare l’ira del popolo inculcandogli che qualunque sacrificio sarà ripagato e che ora è assolutamente necessario per l’avvento di un futuro migliore ― ovviamente, sotto il vessillo del comunismo sovietico. È scontato, però, che una qualunque propaganda, seppur ben strutturata, non ha speranza di essere assimilata con pieno successo dall’individuo nella cui esistenza quotidiana non vi è un riscontro positivo tangibile. Di fatto, la propaganda sovietica non evita il nascere di attività di opposizione al regime comunista, e non rende l’intera popolazione schiava consenziente del Cremlino. Le sfere alte devono quindi trovare presto un metodo che permetta loro di mantenere il controllo, sia fisico che mentale, su coloro che non sono soggiogati alla propaganda. Fisico ― perché colui che è ritenuto “nemico dello Stato” non influenzi i devoti cittadini che gli abitano accanto; mentale ― perché egli perda qualunque capacità di pensare e reagire. Insomma, niente di meglio di un gulag.

Similmente ai Konzentrationsläger progettati dai nazionalsocialisti del Terzo Reich (si pensi ad Auschwitz, Birkenau, Bergen-Belsen, Mauthausen, Dachau, Monowitz, Theresienstadt ecc.), il gulag nasce teoricamente come punto di raccolta di tutti i cittadini che non mostrano una totale devozione alla causa sociale propugnata dalle alte sfere dello Stato e che dunque, secondo quest’ultimo, necessitano di un processo di “correzione”. Nella realtà, tutti i campi ― sovietici e tedeschi, senza distinzione ― costituiscono una prigione a cielo aperto, e il vero obiettivo dell’internamento non è correggere il cittadino per restituirlo alla società, bensì privarlo di qualunque bene materiale, renderlo schiavo di un senso di colpa (spesso inesistente) perché sia inoffensivo, e garantirgli un solo il biglietto d’entrata. Sebbene i gulag non siano dotati degli strumenti di sterminio di massa (camere a gas, forni crematori ecc.) per cui sono celebri i campi tedeschi, le possibilità e la speranza di sopravvivenza vengono ugualmente ridotte al nulla (o quasi) attraverso una serie di comportamenti e obblighi che vanno a minare la dignità del singolo individuo, portandolo, nella maggioranza dei casi, a desiderare la morte prematura. Di fatto, così come per l’Olocausto, anche nel caso dei gulag si assiste a un vero e proprio eccidio di massa, perpetrato attraverso metodi disumani, al quale pochi sono sopravvissuti per poterlo raccontare.

 

 

Fortunatamente, il panorama storico-letterario dell’Europa orientale offre comunque un gran numero di testimonianze, concernenti sia i crimini commessi dai nazionalsocialisti nei confronti dei sovietici durante il secondo conflitto mondiale (emblematico è Babij Jar di Anatolij Kuznecov) sia quelli commessi dai sovietici verso i propri concittadini, e qui, purtroppo, il numero di testimonianze aumenta esponenzialmente. Nel mondo accademico, per esempio, sia dentro che fuori i confini dell’URSS, hanno creato enorme scalpore le parole di figure letterarie come Aleksandr Solženicyn (sopravvissuto a due campi di prigionia nell’odierno Kazakistan, prima a Ekibastūz, poi a Kok Terek), Varlam Šalamov (sopravvissuto alle miniere di oro e carbone del Magadan) e il polacco Gustaw Herling-Grudziński (sopravvissuto al campo di Arcangelo). Tre personaggi che, avendo conosciuto di persona il terrore staliniano e toccato con mano il filo spinato dei gulag sovietici, costituiscono con i loro scritti quella che potremmo battezzare come una “trilogia sovietica postuma” degli orrori della vita del campo. Senza entrare nel dettaglio delle motivazioni per cui questi tre scrittori si sono ritrovati prigionieri nei gulag (in quel caso si dovrebbe affrontare un discorso principalmente socio-politico), è interessante comprendere quale impatto, da un punto di vista psicologico e morale, ha avuto su di loro l’internamento. Questo perché, sebbene la routine giornaliera non si differenzi più di tanto da un campo di prigionia all’altro, i tre scrittori maturano tre esperienze completamente differenti (ad eccezione della ritrovata libertà), le quali portano a loro volta a tre diverse rivalutazioni della condizione umana: si ha perciò l’uomo che riesce a conservare la propria anima persino nel più disumano dei contesti, l’uomo che ne viene sopraffatto completamente senza speranza di salvezza, e l’uomo che ― dopo aver ritrovato la capacità di amare ― decide volontariamente di dimenticare il dolore.

Per affrontare la lettura delle tre testimonianze in oggetto ― Una giornata di Ivan Denisovič, I racconti della Kolyma e Un mondo a parte ― è innanzitutto necessario comprendere le scelte compiute dagli autori in merito allo stile di scrittura dai punti di vista tecnico-strutturale, linguistico e contenutistico. All’interno di questa “trilogia”, Un mondo a parte risulta certamente l’opera più distante, ovvero quella che presenta maggiori diversità rispetto alle due rimanenti. Progettato come un’autobiografia romanzata, lo scritto di Herling-Grudziński appare relativamente sciolto e discorsivo, fatta eccezione per pochi tratti, e si concentra non tanto sulle personali vicissitudini legate alla detenzione, quanto sulla risposta morale e psicologica dell’individuo-tipo che viene catapultato all’interno di un campo di morte. Di fatto, trattandosi di un gulag sovietico, Herling-Grudziński concede molto spazio all’aspetto ideologico che la pena detentiva assume, così come al ruolo che la propaganda sovietica continua a giocare anche nel campo. Diversamente sono stati ideati Una giornata di Ivan Denisovič e I racconti della Kolyma, benché possano apparire abbastanza simili per quel che riguarda il contenuto. Entrambe le opere costituiscono infatti un diario (nel primo caso si tratta di una singola giornata, nel secondo di diversi episodi sparsi in un indeterminato lasso di tempo); in entrambe gli autori possono risultare assenti o estranei per la maggior parte della narrazione; entrambe si concentrano sulla ripetitiva quotidianità dei prigionieri (di cui vengono anche mostrate le singole attività inerenti al campo e ai lavori forzati); e per concludere ― entrambe “parlano” attraverso il “linguaggio del campo”, caratterizzato da terminologie tipiche dei gulag e da un registro linguistico tendente al volgare.

 

 

Compresa la struttura generica delle opere, passiamo ora al più delicato degli aspetti… Come anticipato, l’obiettivo principale dell’internamento nei gulag non è affatto la “correzione” del comportamento sociale di un individuo, seguita dal reintegro di questo nel proprio contesto d’origine. Il vero scopo, così come lo si evince direttamente dalle testimonianze, sono il graduale annientamento della dignità umana e l’azzeramento delle capacità cognitive dell’uomo, affinché egli perda il controllo sul proprio corpo e sulla mente, affinché perda qualsiasi capacità di resistenza, e decida di propria volontà di arrendersi all’avvenire impostogli dall’alto. In pratica, si tratta di una vera e propria violenza fisica e psichica, mirata alla trasformazione dell’essere umano in un fantasma. Immaginiamo per un momento Adamo ed Eva prima della fatidica cacciata dal Giardino dell’Eden: due esseri viventi privi di raziocinio, del libero arbitrio, incapaci di provare un qualunque sentimento, senza alcuna vergogna nella più completa nudità. Paradossalmente, almeno da un punto di vista psichico, i prigionieri dei gulag si ritrovano in un contesto molto simile, con la differenza che il “giardino” non è sotto la custodia di una schiera angelica, bensì di un’orda demoniaca.

Nel caso di Herling-Grudziński, l’alienazione dell’uomo avviene attraverso la manipolazione della mente, attuata da un’organizzatissima rete di tribunali responsabili di mantenere una parvenza di quiete nel mezzo della tempesta. I giudici istruttori, che assumono attraverso gli occhi di Herling-Grudziński le spoglie di esperti chirurghi, sono incaricati di scovare coloro che potrebbero minare le fondamenta della società sovietica, e sottoporli a un rigido interrogatorio, durante il quale deve essere irrimediabilmente provata la colpevolezza dell’indagato. Le minacce e le torture, come il più affilato dei bisturi, sono l’arma formidabile di cui il chirurgo si serve per esportare e trapiantare tessuti e organi. Al fine di questa delicata operazione, scaturita inevitabilmente da una delazione di amici o parenti, il paziente si risveglia privato dei ricordi, dei sentimenti e della propria umanità. Il prigioniero è quindi pronto a confessare crimini inesistenti, radicatisi nella memoria come parassiti; è pronto ad accettare la pena come rimedio al proprio tentativo di sabotaggio all’avvento del socialismo, e, laddove necessario, a denunciare il compagno di cella qualora questi non riesca a trattenersi dal sognare la vita precedente, al di là del filo spinato. L’«invincibile Unione Sovietica» si trasforma quindi nel mattatoio di coloro che osano aspirare alla libertà e all’autodeterminazione, e l’uomo diventa prima una cavia da laboratorio, poi un eterno paziente ambulante, solo semi-cosciente, incapace di reagire a qualunque stimolo. Solo alcuni, pochissimi, dopo aver conosciuto di persona il Diavolo che riposa in ciascun essere umano, e solo per fortuite ragioni, riescono a sopravvivere al macello. E tuttavia, malgrado il ritorno alla libertà, essi ― così come lo stesso Herling-Grudziński ― si portano appresso un bagaglio pieno di amarezza, perché hanno compreso, con estrema rassegnazione, che il bene e il male non sono estranei l’uno all’altro, ma che vivono nello stesso corpo, che alimentano lo stesso cuore, che sono entrambi caratteri dominanti di un essere umano. E davanti a questa triste realtà, Herling-Grudziński decide di lasciare il ricordo del male al passato, concentrandosi solo sul bene del presente.

 

 

Su un altro concetto si basano, invece, Una giornata di Ivan Denisovič e I racconti della Kolyma ― un concetto che prende il nome di bytie e che possiamo grossolanamente interpretare come “quotidiana esistenza”. Perciò, si può considerare il bytie come un insieme di “elementi” che vanno a costituire la quotidianità di una persona, ad esempio azioni abitudinarie che per qualche ragione entrano a far parte della vita di qualcuno, diventandone solide fondamenta, e la cui mancanza potrebbe equivalere persino a una perdita del proprio “io” ― della propria identità (nel senso più profondo, intimo e sentimentale che si possa immaginare). Ciò a cui le guardie dei gulag mirano è proprio la perdita dell’“io” interiore da parte dei prigionieri, i quali, in caso di successo per le guardie, finiscono per non riconoscere più se stessi, perdono la capacità di distinguere la realtà dall’inganno, e si trasformano in esseri inumani, corpi di cui rimangono intatte solo le ossa. In entrambe le testimonianze (quella di Solženicyn e quella di Šalamov) il carattere predominante è, infatti, la disumanità che dilaga fra le file dei prigionieri ― esseri viventi a cui è stato tolto ogni diritto di sopravvivenza. Attraverso uno spiccato simbolismo, Solženicyn e Šalamov vogliono mostrare quella che è la loro idea di “umanità” nei campi sovietici, e lo fanno attraverso determinati oggetti propri di una qualsiasi quotidianità: possono essere i soldi, dei vestiti, un accessorio, un banale cucchiaio da minestra, o un tozzo di pane. Sono queste le cose di qui l’uomo viene privato un po’ alla volta; possono sembrare inutili oggetti per qualunque persona che vive nel mondo contemporaneo, ma per Solženicyn e Šalamov ― uomini privati dell’amore e della libertà ― un cucchiaio per mangiare la minestra e una maglia con cui coprirsi sono le uniche cose che li separano dall’inesistenza, le uniche cose che li rendono un po’ meno simili ad un animale nato e cresciuto in cattività. Tuttavia, ciò che è veramente degno di attenzione è il fatto che, malgrado abbiano vissuto quasi la medesima esperienza di prigionia, Solženicyn e Šalamov riservano all’uomo due sorti che sono l’una l’opposto dell’altra. Se da un alto il volume I racconti della Kolyma è pregno di astio, dolore, violenza, immoralità, sconforto e rassegnazione, Una giornata di Ivan Denisovič offre invece un briciolo di speranza e propone una forma di salvezza di cui l’uomo ha necessariamente bisogno per non ritrovarsi nell’eterno baratro della vergogna. Simbolicamente: all’episodio narrato da Šalamov in cui i prigionieri squartano a mani nude uno scoiattolo per saziare la fame, si contrappone quello di Solženicyn laddove il protagonista Ivan Denisovič non rinuncia a mangiare la kaša (zuppa tipica delle mense dei gulag) nella scodella aiutandosi con il cucchiaio, conservando dunque una minima forma di eleganza e dignità. Molto probabilmente, questo è lo stesso pensiero di Nikita Chruščëv il quale, dopo aver letto lui personalmente il racconto di Solženicyn, comprende la necessità di riconoscere pubblicamente gli errori commessi in precedenza dal regime comunista, e decide di farlo promuovendo la pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovič (quando tanti altri volumi rimangono censurati fino al crollo dell’URSS).

Sono quindi molto simili fra loro le opere che compongono questa cosiddetta “trilogia”: tutte aprono le porte sulla parte più oscura della storia del comunismo sovietico, e tutte, naturalmente, propongono la scottante questione del retaggio umano e assieme a ciò le tipiche domande: a chi la colpa? Perché hanno taciuto? Chi davvero sapeva, e chi no? Cosa dovremmo fare noi oggi con questa parte della storia del genere umano? Rilegarla al passato in quanto tale, o permetterle di essere parte anche del presente e del futuro? Basta impiccare un cadavere e il fascismo non è mai esistito? Basta abbattere un muro e l’URSS non è mai nata? Oltre alla tematica che lega Un mondo a parte, Una giornata di Ivan Denisovič e I racconti della Kolyma ― la prigionia ― c’è ben altro. Queste tre testimonianze impongono un compito ben più importante, che va al di là della semplice e passiva lettura. Questi tre autori ci confidano di aver guardato negli occhi l’uomo, per davvero, non come ci guardiamo noi oggi; Grudziński, Solženicyn e Šalamov hanno guardato dentro di sé e dentro gli altri, hanno conosciuto il proprio male e quello altrui, e hanno dovuto in qualche modo venire a patti con ciò. Ciascuno di loro, cosciente di ciò che ha vissuto, ha espresso (che ci piaccia o no) la propria sentenza: Grudziński ha deciso di riporre il proprio male in un cassetto e chiudere questo cassetto a chiave, Solženicyn ha deciso di concedere una via di uscita all’uomo rivelandogli come rimanere umano laddove dominano gli inumani, e Šalamov ha deciso che il fango sulle mani dell’uomo era già diventato ormai una seconda pelle, tanto da condannarlo alla miseria della propria condizione. E la nostra sentenza?

 

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