Come già anticipato nell’ultimo articolo, eccoci con la trascrizione del dialogo tra Olga Tokarczuk e Włodek Goldkorn in occasione della premiazione dell’autrice al Teatro Verdi di Pordenone nel corso dell’edizione 2020 di PordenoneLegge. Se vi foste persi la parte precedente, vi consigliamo caldamente di recuperarla cliccando qui!
L’incontro si è aperto con il conferimento del Premio Crédit Agricole FriulAdria alla scrittrice, “per i suoi romanzi fuori dalle regole, brillanti e sorprendenti, capaci di raccogliere il richiamo al nomadismo che fa parte delle nostre esistenze, ci rende vivi e ci trasforma. La sua prosa è in grado di affrontare temi come la follia, il femminismo, l’ingiustizia verso gli emarginati, i diritti degli animali; ci insegna con andamento a volte guizzante, a volte più lento, che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità, e che dobbiamo guardare il mondo da un punto di vista eccentrico se non vogliamo essere anime in ritardo e un po’ smarrite”.
Nell’accettare il premio, Tokarczuk ha tenuto un breve discorso: “La potenza della letteratura è dimostrata dal fatto che ciò che ho scritto tempo fa, nei lontani boschi della Polonia, è riuscito a raggiungere il Sud dell’Europa, voi qui in Italia. Penso che questo sia il luogo opportuno per ringraziare tutti i traduttori del mondo, che con le loro arti simili ad Hermes sono in grado di trasportare una lingua in un’altra lingua e un concetto in un altro concetto. E un appello a tutte le banche del mondo: investite nella cultura.”
Dopodiché ha fatto il suo ingresso sul palco lo scrittore e giornalista Włodek Goldkorn, per l’occasione anche moderatore, dando inizio all’incontro.
Włodek Goldkorn: Buonasera. È ovviamente un grande onore e un piacere poter parlare in pubblico con Olga Tokarczuk, credo che non debba neanche motivarlo, la cosa va da sé, è comprensibile a tutti. Io vorrei però cominciare da una domanda abbastanza doverosa, che ci può dire già qualcosa sul mondo contemporaneo. L’annuncio del Nobel per Olga Tokarczuk è stato circa un anno fa. Wisława Szymborska, un’illustre predecessora e connazionale di Tokarczuk, parlava dello stesso evento come della “catastrofe di Stoccolma”. Allora, la domanda è semplicissima: come hai vissuto quest’anno, visto che c’è stato anche il lockdown? La tua vita è cambiata radicalmente, immagino.
Olga Tokarczuk: Forse devo cominciare dal dire quanto è stato strano il momento stesso in cui ho ricevuto la notizia del Nobel. Di solito gli scrittori, al momento della notizia, sarebbero stati seduti alla scrivania, avrebbero ricevuto la notizia al telefono, si sarebbero alzati e avrebbero detto cose interessanti e intelligenti. Quando invece è capitato a me mi trovavo con mio marito in una tournée letteraria in Germania: eravamo in macchina in autostrada, quando al cellulare ho visto il prefisso svedese. Ho pensato che avessero già attribuito il premio ad altri e che mi stessero chiedendo il parere sul vincitore, come spesso accade; e invece è andata così. Quando mi hanno annunciato che il Nobel sarebbe toccato a me, dalla sorpresa ho detto: “No, no” e dall’altra parte l’interlocutore ha detto: “Sì, sì!”, al che io ho ribattuto: “No, no!”. E quindi insomma, quello che vi posso raccontare non è nulla di elevato né di importante da citare. In effetti è stato un Nobel un po’ strano, sapete che ho ricevuto il Nobel 2018, quindi per l’anno precedente a quello in cui mi è stato effettivamente consegnato, e poi nel momento in cui mi sarei dovuta muovere per cominciare una tournée letteraria e avevo già le valigie pronte è arrivato il lockdown per tutti, e quindi mi sono ritrovata con le valigie già pronte chiusa in casa.
WG: È buffa questa cosa che hai detto, “ho avuto il Nobel con una specie di slittamento di tempo”, è quasi una prova del fatto che la letteratura può anche giocare con il tempo, può restituire il passato, riportarci al passato e cambiare il passato, no? È una delle cose più belle della letteratura. Allora vorrei chiederti, tu a Stoccolma nel tuo discorso, che per certi versi almeno per me era commovente, hai detto una cosa fondamentale: che il mondo è fatto di parole, che tutto quello che non è raccontato muore. E lo so che è un libro che hai scritto venticinque anni fa, ma mi riallaccia a questo libro qui, che peraltro è appena uscito nella riedizione Bompiani, dove tu racconti un villaggio che ha del magico e dell’arcaico, ma dove tutto è più o meno normale. C’è il nobile possidente, i contadini, gli ebrei eccetera. Poi irrompe all’improvviso la storia e quel villaggio cessa di esistere. In questo mondo di oggi, noi che abbiamo l’impressione, non solo per il Covid, ma anche per il cambiamento climatico e l’accelerazione tecnologica, di vivere in un mondo che sta andando in pezzi, il racconto di quel villaggio che tu hai fatto è un fatto nostalgico? È una metafora che vale anche oggi, secondo te? Perché leggendolo oggi ho avuto l’impressione che – oddio, è scritto venticinque anni fa, ma parla di oggi, parla del mondo in pezzi che stiamo vivendo.
OT: Penso che ogni scrittore abbia un momento della sua vita in cui si sente richiamarsi ai miti individuali, ai miti della propria famiglia; e credo che questo mito sia un esempio di tale tendenza. Prawiek, che è il nome del villaggio al centro di questo romanzo e che in polacco significa “tempi arcaici”, poggia su alcune storie che mi raccontava mia nonna, che fra tutti i nipoti che aveva amava me forse più di tutti. Sono storie sue, arricchite poi dalla mia immaginazione e che in qualche modo ho portato oltre il loro orizzonte creando una storia differente. Purtroppo, mia nonna non è riuscita a vivere abbastanza per vedere la comparsa di questo libro, quindi non so cosa ne avrebbe pensato. Prawiek, che è un villaggio realmente esistente in Polonia, è un luogo che ha poca importanza. Non ha nessun museo, non ha nessun elemento naturale, se non ci fosse stata questa storia avrebbe cessato di esistere. E forse in verità ha smesso di esistere, perché se si va lì ci si trova davanti a un villaggio abbastanza banale, a me preoccupa il fatto che molte esperienze, molti luoghi e molte persone progressivamente scompaiano se non vengono raccontati. E questa è per me una grande motivazione a raccontare.
WG: Una cosa un po’ benjaminiana, la memoria degli oppressi che è un elemento del futuro, è così?
OT: Sì, come sappiamo passano alla storia gli uomini, i maschi. Tendenzialmente le persone che detengono il potere, che a volte si sono distinte per essere malvagie, per essere delle vere e proprie canaglie. Ciò che scompare invece sono i piccoli dettagli ontologici, come li chiamo io, che decadono completamente. E invece credo che la letteratura abbia questo potere, questa possibilità di dare salvezza.
WG: Hai parlato dei maschi che dominano la letteratura e forse la storia. Starò per dire una cosa banale, ma la devo dire. Nei tuoi romanzi le donne sono sempre un soggetto indipendente, sorprendente, talvolta agiscono con molta determinazione, spesso sono molto sensuali e la sensualità delle donne non è mai volgare. Quando tu descrivi, come in questo romanzo, cito questo – ecco, c’è una donna di cui descrivi il culo e usi la parola “culo” ed è una cosa poeticissima, con il culo che splende di notte. Per un uomo sarebbe estremamente difficile scrivere così, no, usare questa delicatezza e questa sensualità. Allora, questa irruzione delle donne nei tuoi romanzi, come ci arrivi a questa cosa? Ci sei arrivata in maniera spontanea, naturale o è stato un processo di apprendimento, il capire che i maschi dominavano il mondo e bisognava emanciparsi da questa dominazione? Perché è un gesto di ribellione, la tua scrittura è sovversiva.
OT: Dobbiamo cominciare con il parlare della situazione dei lettori. Se fossi una lettrice, una ragazza che comincia a leggere ti accorgeresti che il mondo viene raccontato in modo diverso, come se fosse leggermente spostato. Ti accorgeresti che i classici mettono in scena ruoli maschili in cui gli uomini sono veri e propri soggetti filosofici, soggetti morali presi dal senso di colpa, dai dilemmi, e che sono dotati di un ricco mondo interiore che viene esplorato in maniera introspettiva molto profonda. Le donne, invece, vengono ritratte soltanto all’interno di un ruolo sociale o in relazione rispetto al protagonista di sesso maschile: sono mogli, sono amanti, sono figlie, sempre all’interno di una relazione. E se fossi un’adolescente sensibile, una ragazza, ti accorgeresti che in questa rappresentazione c’è qualcosa che non va. Quando ho cominciato a scrivere mi sono ritrovata in una situazione piuttosto ambivalente, di disagio. All’inizio infatti ero attratta dalla letteratura, avevo il desiderio di scrivere, ma al tempo stesso mi sentivo rifiutata, rigettata dalla letteratura. Poi ho pensato che non esisterebbe il mondo, che questi personaggi maschili non esisterebbero se non avessero avuto dietro delle donne, delle donne che li hanno partoriti, che hanno cambiato loro i pannolini, che li hanno allattati, che hanno cucito loro gli abiti quando erano strappati, che hanno preso decisioni per loro. In quel momento credo di aver adottato consapevolmente una strategia di rivendicazione, seppur delicata, e di restituzione delle giuste proporzioni al ruolo femminile. Credo che questo processo sia più evidente nel libro che verrà pubblicato tra qualche mese, I libri di Giacobbe. Lì, infatti, ho proprio tentato di rimettere in luce tutte quelle donne che sono state dimenticate dalla storia, quei personaggi spesso senza nome che ho tentato pezzo dopo pezzo di ricostruire, cercando di assegnare loro un contesto, affinché potessero recitare un ruolo anche di primo piano ed essere personaggi in carne e ossa, a tutto tondo e sicure di sé.
WG: Scusate il commento assolutamente soggettivo, ma lo faccio, visto che mi capita di scrivere dei libri. I libri di Giacobbe sono un capolavoro assoluto, uno dei libri più belli che abbia letto negli ultimi dieci-quindici anni. Veramente un libro potente, scritto in un polacco che non leggevo veramente da anni. Volevo non solo farti i complimenti, ma farti una domanda che è assolutamente doverosa, visto che qui si parla del romanzo nella storia anche nel premio. I libri di Giacobbe, senza svelare troppo per non togliervi il piacere della lettura, è un romanzo che ha molto a che fare con la storia della Polonia nel Settecento, che in un certo modo rovescia la narrazione dominante polacca, sulla nazione e sui rapporti con gli altri popoli che abitavano la Polonia. Quanta storia c’è nei tuoi romanzi?
OT: Io non invento, o almeno non invento troppo, perché prima di scrivere qualsiasi mio romanzo faccio una ricerca abbastanza approfondita, anche per Nella quiete del tempo. Penso che la letteratura abbia anche il ruolo di costruire delle relazioni tra fatti che a prima vista dovrebbero sembrare distanti o separati tra loro, penso che la letteratura sintetizzi la nostra esperienza del mondo e che nel romanzo si fa più ricca, dal momento che la nostra memoria invece ha un tipo di processo più selettivo. Quando ho cominciato a scrivere I libri di Giacobbe avevo a disposizione molti eventi, molti fatti che sembravano distanti l’uno dall’altro. Ho dovuto dunque creare uno spazio letterario, un campo, nutrito dall’immaginazione dei contesti per collocare questi eventi su una mappa.
WG: I libri di Giacobbe raccontano la storia di un falso messia -insisto un po’ su questo- e di quello che succede nell’Est della Polonia, dove la nazione polacca dominante portava la civiltà, una nazione un po’ coloniale, mentre tu lo rovesci, e hai avuto anche un po’ di problemi con questa cosa.
OT: Chiedo scusa anzitutto se continuo a ritornare a I libri di Giacobbe e se fuggo un pochino dalle risposte relative a Nella quiete del tempo. Questo libro è per me un po’ un figlio giovane, al quale mi sono accostata agli inizi della mia carriera di scrittrice, non l’ho riletto prima di venire qua e non me lo ricordo sempre benissimo. Nella quiete del tempo è un libro per me molto importante perché è il libro che mi ha portata al successo, ed è stato il primo a far sì che mi accorgessi che fuori dalla mia stanza c’erano molte persone che leggevano quello che scrivevo e che intessevano con me una relazione intima. Sono loro che hanno fatto di me una scrittrice, che hanno fatto sì che mi licenziassi dal mio lavoro precedente e mi dedicassi alla scrittura.
WG: No, io cito questo libro non perché è attuale da un punto di vista editoriale, ma perché in questo libro ci sono in nuce praticamente quasi tutti i tuoi temi. Almeno io l’ho sentito così, avendolo riletto ora in italiano ho avuto quest’impressione. Siccome hai appena raccontato come sei diventata veramente scrittrice, ho una domanda abbastanza ingenua, ma che faccio spesso ai grandi scrittori. Quando scrivi -sembra tecnica, ma non lo è-, siccome la scrittura è lo spazio dell’immaginazione, ti immagini anche i tuoi lettori e le loro reazioni? La domanda non è se fai una cosa per captatio benevolentiae, ma se ti immagini cosa avviene nella testa dei lettori, perché un libro in fondo ci deve cambiare, no? Un buon libro ci cambia la vita, se è un libro grandioso; se è un libro non grandioso influisce comunque, resta con noi nella nostra immaginazione.
OT: È una cosa un po’ complicata. Io in qualche modo do per scontato che il lettore sia qualcuno di simile a me, a cui piacciono le cose che piacciono a me, che vive ciò che vivo io e capisce ciò che intendo. In qualche modo do per assodato in anticipo una profonda comprensione tra noi, in modo da costruire come una comunità che mi lega a loro; a volte ho ragione, a volte no. Succede poi, ed è ciò che mi piace più di tutto, di incontrare dei lettori e delle lettrici che leggono ancora più profondamente rispetto a quanto io ho scritto; sono capaci di entrare più profondamente nel testo e si tratta di lettori eccezionali. Come ci sono scrittori eccezionali, ci sono lettori eccezionali; e l’incontro con i lettori eccezionali ha il potere di arricchirmi. In quel momento, il testo diventa solamente un pretesto per una più ampia interpretazione, si apre a campi che neanche immaginavo nell’atto di scrivere il romanzo.
WG: Quindi se io lo riassumo così, che anche non solo lo scrittore o scrittrice ha dei doveri nei confronti di lettori e lettrici, ma anche un lettore o lettrice ha dei doveri nei confronti dello scrittore o della scrittrice dico una sciocchezza o dico una cosa che ha senso, secondo te?
OT: Sì, si tratta di una competenza. La capacità di saper leggere un testo, talvolta innata, fa parte dei talenti di una persona, ma penso anche che possa essere perfezionata attraverso l’educazione. Una delle cose che mi preoccupa di più in questo momento è proprio la perdita di capacità nelle giovani generazioni di saper leggere e comprendere un testo letterario, di non riuscire a coglierne le metafore, l’ironia, l’humor nero. Questa competenza penso stia scomparendo, vorrei che in questo momento tu o voi mi diceste: “No, no, non è vero!”.
WG: Ti devo deludere parzialmente, nel senso che nel mio piccolissimo, modestissimo, mi capita di incontrare dei lettori, soprattutto giovani. Mi capita di andare nei licei con le mie cose e trovare dei lettori fantastici, fantastici, più di tanti critici letterari, ma sono ragazzi e ragazze -sono soprattutto ragazze, sono donne- che hanno lavorato però con dei bravissimi insegnanti, anzi, delle bravissime insegnanti -perché perlopiù sono donne insegnanti-, che leggono un testo e lo guardano proprio come un testo, non solo come un contenuto. Mi capita però, dall’altro lato, di avere questa impressione. Questo l’hai detto tu a Stoccolma, te lo rubo, hai detto che le serie tv appiattiscono la narrazione, non c’è nessun approfondimento psicologico, e lo dico da persona a cui capita di stare tutta la notte su una serie di Netflix -che sono fantastiche, se non prendi sonno- però è tutta azione, non c’è un momento di riflessione. E sull’ironia, per quanto possa essere interessante la mia opinione, personalmente penso che i social media siano degli assassini dell’ironia. Sui social media non puoi usare l’ironia perché viene sempre presa alla lettera, no? Se io dico “bravo Hitler” diranno: “Ecco, Włodek Goldkorn ha scritto che Hitler è bravo”, queste operazioni alla Karl Kraus non sono più possibili sui social media. Ma io vorrei chiederti un’altra cosa. Nei tuoi romanzi c’è un’assoluta unità dell’universo, tra animali, divinità, esseri umani. È un tutt’uno, è quasi… qualche volta, a leggere certe cose a me viene in mente un viaggio in India, perché l’India è un po’ così, che se si va in India, nell’India vera, si ha quest’impressione della non-gerarchizzazione -che poi dietro c’è la gerarchizzazione- tra gli umani e gli altri esseri e gli altri animali, e tra natura e umani, tra sogno e realtà. Le domande sono due. Da un lato c’è questo, dall’altro sono romanzi in frammenti, allora… come lo metti insieme, è la seconda domanda. O forse, la prima è se in questa concezione dell’unità, della natura, ci sia un fondamento filosofico vero, o se anche questo ti è venuto spontaneo, o se c’è effettivamente una filosofia dietro l’unità della natura. Perché non è roba new age, ovviamente.
OT: Sicuramente colgo qualche cosa che mi tormenta da anni ed è qualcosa su cui lavoro da tempo. Sicuramente ci troviamo di fronte alla necessità di imparare in qualche modo a cambiare, a modificare il nostro sguardo, maturare uno sguardo differente sulla natura, su noi stessi, sul nostro posto rispetto al mondo. Non riesco a trovare una definizione ad hoc di questo nostro vecchio sguardo sul mondo. Forse, se dovessi trovare un’approssimazione, potrei dire che si tratta di uno sguardo gerarchico, di una visione della realtà che prevede l’esistenza dell’uomo separata da tutto il resto, dell’uomo come una tragica monade, così come lo rappresentavano gli esistenzialisti. Si tratta di un mondo spezzettato in campi, specializzazioni poco connesse tra loro, una sorta di visione monoteistica con una direttrice verticale, gerarchica, e che esclude la dimensione orizzontale: ciò ha portato alla crisi nella quale ci troviamo oggi. Credo che un cambiamento sia alla nostra portata, bisognerebbe cercare una relazione tra gli elementi. Sicuramente è difficile, ma bisognerà in qualche modo cambiare il nostro punto di vista, guardare alla realtà come una sorta di rete, di complicate dipendenze di cose una dall’altra. Penso che questo possa portare a una diversa comprensione e quindi ad agire diversamente. Se dovessi utilizzare un’altra metafora per provare a spiegarvi quello che intendo, direi che siamo stati proletarizzati come esseri umani, nel significato che i filosofi del XIX secolo davano a questa parola. Ad esempio, un tempo c’erano i calzolai che facevano appunto le scarpe, ed erano artigiani responsabili di quell’oggetto, che conoscevano dunque sia i singoli elementi che lo componevano che la sua interezza, erano in grado di fare di questo oggetto un oggetto completo. È venuta poi l’epoca dell’industrializzazione, e questi artigiani sono stati declassati al rango di persone che assemblavano pezzi, persone che magari erano in grado di fare dei tacchi o dei lacci, ma che non avevano più la capacità di creare un intero. Penso che ci troviamo oggi in una situazione simile a questa, in cui ormai è difficile cogliere nell’interezza ciò che ci circonda; penso che ormai abbiamo perso l’ambizione dell’uomo rinascimentale nel comprendere qualche cosa nella sua interezza. Ciò accade sia nel mondo di Internet, della banca dati che parcellizza questo sapere, sia nel caso della medicina, che si è sempre più specializzata e il nostro stesso corpo è stato ridotto a conoscenze parziali di singole parti. Vi faccio un esempio tratto dalla mia vita: sono stata da poco dal medico, perché avevo un problema presso questa zona del corpo. Prima sono stata dal laringologo, poi dal gastroenterologo, e sia dall’uno che dall’altro nessuno voleva occuparsi di questa parte del corpo perché non faceva parte delle sue competenze. Questo ci dimostra che esistono anche nel nostro corpo ormai dei confini tra specializzazioni dei luoghi, che sono fuori dalla percezione.
WG: Abbiamo tempo ancora per una sola domanda, che non è direttamente politica. Cioè, non parliamo dei politici ma di un fenomeno: in questo mondo che è sempre meno comprensibile, che ci sembra andare in pezzi, una delle risposte non è quella che tu auspicavi, ma c’è un’altra che è l’odio. Esiste un odio che è anche un’arma per il consenso. Allora, per conquistare il consenso un po’ in tutta l’Europa e in tutto il mondo c’è l’odio per i diversi, l’odio per quelli che non la pensano come noi, che hanno scelte di genere o orientamenti sessuali diversi dal nostro. La domanda è assolutamente ingenua, ma te la faccio lo stesso. Essendo la letteratura, almeno come leggo la tua, un esercizio di empatia, prima di tutto è anche un rimedio, un aiuto, può darci qualcosa per combattere l’odio, per insegnare, educare la gente a non odiare? Sto parlando di letteratura, non di azione politica diretta, di letteratura come esercizio di empatia per entrare nella testa altrui.
OT: Certo, esistono delle ricerche che dimostrano che leggere romanzi aumenta la nostra empatia. Ci identifichiamo in un personaggio letterario, nel suo punto di vista, nella sua vita e nasce il miracolo dell’identificazione, e questo porta a un arricchimento, a un allargamento, anche, della nostra coscienza. Vi ho già detto che innanzitutto sono una lettrice, solo dopo sono diventata una scrittrice, ed è grazie alla lettura che ho potuto vivere centinaia di migliaia di vite diverse. Sono stata nella Russia zarista, sono stata un eschimese, sono stata un indiano, sono stata anche un animale. È un’esperienza, quella della letteratura, non paragonabile a nessun’altra esperienza, è altamente raffinata e consente la comunicazione profonda tra gli esseri umani. Credo che in una società globale come quella in cui viviamo non si possa funzionare, non si possa vivere senza letteratura. La letteratura, la comprensione della letteratura, è qualcosa a cui si giunge, ma è anche la prima cosa a venir meno nel caso in cui una persona sia colpita da difficoltà o malessere in campo psichico. Sapete che uno dei principali sintomi dei problemi psichici e psichiatrici è la perdita della capacità di leggere la letteratura e l’identificazione che ne consegue.