I bambini di Bucarest: storia di un viaggio all’inferno e ritorno

Non ricordo con precisione quando scrissi a Sara per parlarle di Giuseppe Barile, giovane documentarista che vive a Bologna e che si è prestato per farci da guida in un viaggio del tutto inusuale. O meglio, lo ricordo, ma lo scoprii in circostanze molto poco intellettuali legate al mio apprezzamento per le recensioni di cinema trash, che sarebbe un po’ disonorevole menzionare in questi contesti. Fatto sta che scoprire dell’esistenza di un ragazzo della tua stessa città che si è buttato a capofitto in una situazione pericolosa e sconosciuta ai più (ma che, come vedrete poi, è parte da molto tempo del mio immaginario) mi ha intrigata, e volevo assolutamente approfondire. Una volta finiti lockdown, estate e sessione di settembre, abbiamo scritto a Giuseppe per chiedergli una chiacchierata. L’appuntamento, come al solito per noi della facoltà di Lingue, è alla Confraternita dell’Uva, dove Giuseppe si presenta con il suo bolide.

Ordiniamo due succhi d’arancia e un cappuccino, dando inizio a una conversazione su tematiche un po’ meno delicate. D’altronde, c’è un’ovvia e doverosa patina d’imbarazzo nel parlare di disagio sociale alle dieci del mattino con una persona conosciuta poco prima, specie se si cerca di dare un’impronta lontana da strascichi scandalistici ad una chiacchierata su simili temi. Per uno strano caso di giustizia poetica, però, si passa dal parlare di foto di gattini ai canali della capitale romena, che, gravata da narrazioni che tendono a estetizzarne il disagio, sentiva davvero la mancanza (e più di tutto la necessità) di un racconto più umano. Il che è una cosa senza dubbio difficile, ma già dai primi minuti di conversazione vediamo in Giuseppe la rara capacità di mettere immediatamente a proprio agio l’interlocutore. E, col senno di poi, possiamo constatare che poter discorrere di tematiche così complesse con i piedi per terra e tanta empatia è stata una delle esperienze più positive e costruttive del nostro percorso qui sul blog.

Il documentario, intitolato I bambini di Bucarest, è frutto della collaborazione tra Giuseppe, Vittorio Delli Santi e Marco Tioli, vice presidente nazionale del LEO Club, ed è stato realizzato con il sostegno di Save the Children Romania. Potete seguire Giuseppe sulla sua pagina Facebook.

 

Giuseppe durante la nostra chiacchierata alla Confraternita dell’Uva (un po’ fuori fuoco perché ero senza occhiali)

 

Gli chiediamo quindi quale fosse stato il suo primo incontro con la storia dei ragazzi di Bucarest, un tema piuttosto inusuale e di nicchia per i non addetti ai lavori. Del resto, questa vicenda ha per me la consistenza fumosa e la gravità dei racconti della mia maestra delle elementari, che ogni giorno non perdeva l’occasione di ribadire a noi, bambini di sei anni, quanto fossimo fortunati perché “in Romania i bambini sniffano le marmitte”. La colla e le marmitte, aggiunge Sara, puntualizzando che no, forse in effetti la colla era più frequente nella Russia sovietica. Giuseppe si stupisce e strabuzza gli occhi; le marmitte gli giungono nuove.
“Un po’ romanzata”, ci dice ridendo, ignaro di avere -almeno in parte- frantumato dei preconcetti e degli spettri che mi portavo dietro dall’infanzia, pronto a ricontestualizzarli con le sue esperienze di prima mano – forse più crude rispetto alle narrazioni un po’ pulp di angoli nemmeno così remoti del mondo, ma proprio per questo più autentiche.

“Mi sono avvicinato a questa storia negli anni dell’università”, racconta Giuseppe. “Quindi giovane. Non così giovane come alle elementari, ecco, ma per un esame di storia moderna c’erano due righe di un articolo supplementare intitolato proprio I bambini di Bucarest, in cui si parlava di questi ragazzi, di bambini che vivevano in queste fogne -che poi vedremo non essere proprio fogne-, che sniffavano questa colla, e quella era casa loro. Era un fenomeno di massa degli anni Novanta, che coinvolgeva migliaia di persone. Basta cercare qualche foto di quegli anni per vedere delle masse, proprio delle masse di persone che stavano in questi buchi sotto la terra”.

Ne parlavo prima con Sara, gli dico, che non sapeva da dove fosse venuta fuori questa storia. Avevo letto che erano stati uno degli effetti collaterali delle misure antiabortive di Ceaușescu per l’aumento della forza lavoro. La verità è che se ne sa poco, soprattutto per il taglio quasi scandalistico, dal sentore apocalittico, di quegli anni, poi caduto in sordina; e, ripensandoci, mi accorgo che l’unica vaga presa di coscienza collettiva di una parte di storia europea dimenticata è stata la Palma d’oro a Cannes per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu, che tratta però solo una minima parte del fardello socialista.

Giuseppe ci viene subito incontro: “Non solo contro l’aborto. Cioè, adesso c’è un doveroso recupero storiografico, letterario e culturale da parte del ramo femminista e LGBT+, ma si rischia spesso di dare le informazioni da un solo punto di vista, di mettere in luce solamente alcuni aspetti anziché altri. La pratica dell’aborto è complementare ad un altro piano politico di Ceaușescu: tutto parte da lui, dittatore di Romania, che nel ’66 emana il decreto 770 contro l’aborto nell’ambito delle leggi demografiche, perenni e tipiche di ogni dittatura, di ogni regime, dalla Grecia antica al Novecento. Questo decreto mirava all’aumento della popolazione per aumentare così la forza lavoro, e con l’aumento della forza lavoro sarebbe aumentata la potenza dello Stato socialista romeno. Ceaușescu stabilì in realtà un numero minimo di figli, non massimo. È in quest’ottica che vieta l’aborto, non per questioni morali”.

Il testo a cui faccio riferimento, per chi volesse approfondire, è Gender Politics and Post-Communism, della docente universitaria e ricercatrice americana Nanette Funk. Nel capitolo relativo alla storia dell’aborto nella Romania socialista, infatti, si parla di come all’epoca l’aborto fosse consentito soltanto alle donne di età maggiore ai quarantadue anni o che avessero già avuto quattro figli. Oltre al divieto di interruzione di gravidanza e di divorzio, rendendo possibile l’annullamento dell’unione solo in circostanze eccezionali, esistevano degli incentivi e delle sovvenzioni per le madri più prolifiche, nonché visite mediche a domicilio, controlli sanitari e sussidi di maternità, forse gli unici risvolti positivi di simili decreti.

“Aveva quindi ristretto di molto il campo degli aborti”, prosegue Giuseppe. “Il preservativo non si poteva usare, l’aborto era vietato ed era stato istituito un corpo di polizia ad hoc affinché controllasse che le donne portassero a termine la loro gravidanza. Non solo, in un’intervista Ceaușescu dichiarò pubblicamente che il feto è proprietà dello Stato socialista, andando a toccare anche la libertà più intima di un essere umano. Molto spesso, e questo lo dico da storico, il pensiero mainstream della storiografia del Novecento ha preso come esempio di dittature Hitler e Stalin, i “fratelli del male”. Nessuno mette in dubbio che siano stati due personaggi di estrema negatività, ma ci si dimentica di tutta quella fetta di dittature filosovietiche che ci sono ancora, come la Bielorussia, la Corea del Nord e via dicendo – e che sono ancora viventi. È un problema molto grave a livello di analisi storiografica, non c’è un giorno della memoria o una presa di coscienza per i lager nella Corea del Nord o per i dissidenti rapiti in Russia coi blindati, il passamontagna e il cappuccio. Ma perdonate la digressione”, dice, bevendo un sorso di succo d’arancia. “Dove eravamo? Ecco, queste sono state le misure di Ceaușescu. Chiaramente, l’effetto -clamorosamente prevedibile con l’occhio di oggi- fu l’aumento degli aborti clandestini, alle morti sia delle madri sia dei bambini. Ma un secondo problema, invece, è quello degli abbandoni. Ci sono tanti, tantissimi figli non voluti”, spiega Giuseppe. “Figli non voluti che sono stati abbandonati, una popolazione di figli di nessuno che vivono per strada”.

Gli chiedo di un aspetto della questione che non era ancora stato toccato, quello degli istituti. Giuseppe sospira, dopodiché inizia a raccontarci degli orfanotrofi-lager creati da Ceaușescu per far fronte alla prima generazione di bambini abbandonati, di figli di nessuno, che ammontavano a centinaia di migliaia (170.000 secondo i dati). Questi istituti, ci dice, erano dei casermoni alla sovietica sperduti in varie parti della Romania, spesso rurali, in cui vivevano molti più bambini rispetto a quanti potessero essere accolti, e versavano in condizioni disperate.

“Se sono adulti si ribellano, ma se sono bambini impazziscono, o subiscono enormi danni al processo di crescita. Ci sono reporter che in quegli anni hanno rischiato veramente tanto per documentare questi fenomeni, prima fra tutti una scrittrice, che ha fatto visita a qualche orfanotrofio e le testimonianze lasciano spiazzati.”

La scrittrice in questione è Herta Müller, premio Nobel per la letteratura 2009 e storica oppositrice del regime di Ceaușescu. Insieme al fotografo Kent Klich, all’epoca parte della Magnum Photos, lavorò a un reportage dal titolo Children of Ceausescu, incentrato sulle vite dei bambini e dei ragazzi romeni negli anni della crisi dell’HIV.

La tragedia più nota, però, è quella dell’orfanotrofio di Chigid, che Giuseppe menziona per darci un’idea della gravità del fenomeno: “Bambini che giocano su cumuli di sterco, bambini che dormono sui letti con lenzuola sporche di feci mai cambiate, bambini che sono impazziti o che hanno dei grandissimi problemi comportamentali, sbattono la testa contro le inferriate ripetutamente, situazioni gravissime. E sono anche gli anni delle tante adozioni che noi dall’Italia facevamo in Romania negli anni Novanta. Con il nostro documentario ci hanno scritto tanti genitori che hanno raccontato la loro esperienza e ci hanno confermato le notizie di questi giornalisti”.

 

 

 

Particolarmente toccante per lui è stata la storia di una coppia siciliana che visitò la Romania nei primi anni Novanta, subito dopo Ceaușescu, e di come l’incontro di una bambina in un orfanotrofio ancora in attività li portò alla decisione di adottarla. I due le avevano offerto un gelato, e lei per la fame lo prese a morsi.

“Insomma, queste storie non sono romanzate”, ci dice. O forse un po’ lo sono, si corregge subito, ma per sensibilizzare sull’argomento è un piccolo prezzo da pagare.

“È una cosa che a me premeva molto”, gli confida Sara. “Far arrivare il cuore della storia, che non è l’articolo cool. Su questo volevamo arrivarci dopo, in realtà, ma abbiamo visto tantissime notizie di testate un po’ hipster che ne parlavano in maniera sensazionalistica, facendo pressione su questa estetica del post-sovietico che sta prendendo piede”.

Giuseppe sorride, e ammette che, dal suo punto di vista, Bucarest in generale è un po’ postsovietica. “Dieci anni fa ha avuto un boom economico pazzesco a cui non erano pronti, e quindi capita spesso di vedere il palazzo nuovissimo di fianco alla catapecchia sovietica”.

Ma il discorso delle fogne, puntualizza, va ridimensionato. Se negli anni Novanta il fenomeno era esploso, oggi non è più così, perché dai canali sotterranei i ragazzi si sono spostati in superficie e sono diventati dei senzatetto. Se però il cambiamento della Romania verso un regime democratico, con la rivoluzione dell’’89 e la conseguente caduta di Ceaușescu, sembrava promettere una ripresa e un futuro più roseo, il Paese non era ancora pronto a far fronte alle difficoltà che un ventennio di dittatura si era trascinato dietro.

“Noi siamo figli di fatto del piano Marshall”, spiega, “ma loro erano figli del patto di Varsavia, che era una cosa ben diversa. La Russia, mamma Russia, aveva un controllo più diretto, ancora oggi lo dimostrano Bielorussia, Cecenia o situazioni come la stessa Ucraina, la Crimea. Nata la democrazia senza fondi, senza qualcuno che spingesse verso la democrazia, hanno dovuto affrontare e affrontano ancora oggi un riassestamento dell’ordine sociale; la loro democrazia è nata da zero e sta venendo su con le sue forze, quindi i processi sono molto più lenti di quelli che abbiamo avuto noi. Noi siamo comunque figli di una cultura libertaria, filoamericana, loro no”.

Con la caduta di Ceaușescu, questi orfanotrofi per cui venivano accusati da tutta Europa furono chiusi a furor di popolo, ma i ragazzi non hanno mai avuto degli organi sociali che contribuissero a trovare una soluzione al problema (“non ce ne sono tuttora”, lamenta Giuseppe, “sono pochissimi”). Gli orfanotrofi si svuotarono, i ragazzi si riversarono in strada e confluirono quasi tutti a Bucarest, la Parigi dell’Est, che all’epoca si stava aprendo al turismo, per fare l’elemosina in maniera più proficua.

Da lì iniziarono ad abitare i canali sottoterra, e il motivo è più banale di quanto ci saremmo aspettate. “Perché fa caldo. Nessun altro motivo”, ci dice. Nel raccontarci la sua esperienza, Giuseppe parla di una differenza di oltre trenta gradi tra la superficie e i canali.

“Il fenomeno delle fogne è un fenomeno di massa”, continua. “Save the Children, che è partner del documentario, ci ha parlato dandoci dei dati: ci ha detto che nel ’95 c’erano più di diecimila unità -loro parlano in termini di unità-, di bambini dai cinque ai dodici anni non accompagnati, senza nessuno, che vivevano in strada a Bucarest. E questi erano solo bambini, poi c’erano quelli più grandi. Ma i bambini si organizzavano in gruppi autogestiti, avevano una straordinaria capacità di organizzarsi in gruppi autonomi, bande vere e proprie, per procacciarsi del cibo e cercarsi un luogo dove vivere. Qui ci colleghiamo poi a diversi temi che si ramificano, in un certo senso: c’è il tema della prostituzione minorile, che a Bucarest in quegli anni fu molto forte.”

Gli chiedo se fosse alimentata anche dal turismo estero.
“Purtroppo sì”, risponde, “e devo darvi un dato tremendo”, ci anticipa, ma -ahimè- non dice nulla di cui non fossimo già a conoscenza anche dai dati più recenti sul turismo sessuale minorile nel mondo. “Save the Children ci ha detto che dei casi conclamati e portati a termine fino all’ultimo grado, il numero più alto era di italiani. Ma attenzione, di inquadramenti lavorativi alti: sono tutti manager, liberi professionisti di alto livello e reddito, perché in strada potevi adescare i bambini con somme molto basse”.

Nel raccontarci degli aneddoti a riguardo, Giuseppe menziona il documentario italiano Stelle di scarto del reporter Massimiliano Troiani (disponibile a questo link su YouTube), dove per l’appunto vengono intervistati dei ragazzi in strada, senza nessuna preparazione. I ragazzini parlavano delle loro esperienze sessuali, ma nella loro mente -dieci anni, enfatizza Giuseppe- quella era la fonte di reddito.

Concludiamo la conversazione sulla prostituzione minorile e ci spostiamo verso un altro argomento, altrettanto pesante, quello del disagio di strada: “Disagio chiama disagio, è una legge delle strade, e questi ragazzi cominciano a fare uso di sostanze. Chiaramente si danno alla criminalità, chiaramente per vivere devono fare piccoli furti, ma mai criminalità organizzata. Solo noi abbiamo un’organizzazione simile”.

Mi sale alla mente un film romeno di qualche anno fa che parla più o meno di questo, Filantropica, di Nae Caranfil. Prendo un attimo la parola, gli chiedo se lo conosce. Giuseppe risponde di no. Gli racconto in breve la trama, di questo professore di liceo e poeta infelice che insegna in una scuola per figli di ricchi durante il boom economico, che per conquistare una giovane modella decide di prender parte alle attività di Pepe, un boss della criminalità organizzata che gestisce un giro di truffe basate sull’elemosina. È un gran film, gli dico, un’ottima commedia nera.

Dopo questa piccola intromissione, Giuseppe riprende il discorso: “Cosa stavamo dicendo… disagio chiama disagio, questi ragazzi cominciano a fare uso di sostanze stupefacenti, ma in mancanza di soldi comprano questo famigerato aurolac – che non è una colla, è un solvente per metalli, un nitrato color argento dalla consistenza abbastanza pastosa. L’aurolac viene versato in queste buste dell’immondizia, un classico sacchetto nero, i ragazzi lo mettono tra naso e bocca e si siedono tranquilli, in un rituale. Soffiano e inalano, questa busta si gonfia, si sgonfia, e questo processo li porta in uno stato catatonico, ma davvero catatonico”, racconta, tentando di non farsi sopraffare dallo sconforto.

“Io, davvero… ho parlato con una ragazza, anche quelli della seconda generazione, lo sguardo nel vuoto. Io gli parlavo, ma loro erano vuoti, non saprei spiegarlo altrimenti, ti guardavano ma non ti vedevano, non si accorgevano di me. Sembra veramente di stare parlando con uno zombie, Trincia l’aveva fatto vedere a Nairobi, è la stessa cosa. Questo aurolac ha il vantaggio di costare poco, di essere di facilissima reperibilità, perché si compra letteralmente nei chioschetti, e non era riconosciuto come droga, ma il suo utilizzo porta a non avere più fame e sete, a non sentire più niente”.

“Era funzionale a quello?”, chiede Sara.
“No, non necessariamente”, risponde Giuseppe, “Il motivo scatenante non è funzionale a non sentire fame e sete, è funzionale allo stordimento, a dimenticare questa condizione, quindi a prendere distanza. Un utilizzo dissociativo dalla realtà, perché alle fogne è meglio non pensarci”.
Successivamente, l’aurolac fu osteggiato dal governo, dopo che l’esplosione del fenomeno in ottica europeista portò un gran numero di reporter in Romania per servizi sulla questione. Tuttavia la limitazione dell’uso di aurolac servì a poco, perché arrivarono gli anni dell’eroina, e di conseguenza dell’AIDS.

Le associazioni iniziarono pertanto a fornire gratuitamente le siringhe per evitare l’epidemia di HIV, ma “la strada reagisce sempre in maniera geniale, quando vuole fregarti”, afferma Giuseppe, un sorriso amaro appena abbozzato.

Per potersi permettere dell’altra droga le siringhe venivano infatti vendute in blocco, salvo una, che veniva poi utilizzata da tutti. Negli ultimi anni, però, la situazione è divenuta più difficile da contrastare. In Romania è ora in circolazione una nuova droga, l’etnobotanice, che viene chiamata “droga legale” perché composta da sostanze che singolarmente non possono essere dichiarate illegali, ma che insieme formano un mix che nel giro di quattro mesi porta alla morte. Questa etnobotanice si rivela essere un enorme problema per gli organi di assistenza, sia per la facile reperibilità della sostanza, venduta nei chioschetti vicino alle scuole fino a qualche anno fa, sia per la difficoltà dei tempi di aggancio e di riabilitazione. Le stesse misure contro questo mix si rivelarono inefficaci, in quanto è sufficiente che un chimico della criminalità cambi un solo elemento per rendere il prodotto finale una sostanza diversa, e quindi legale. Fortunatamente, ci spiega, un forte movimento popolare ha spinto affinché venissero vietate, e lo Stato romeno ha bandito l’etnobotanice vietando la creazione di qualsiasi sostanza che non avesse un utilizzo scientifico conclamato e utilitaristico.

Ci addentriamo quindi nella questione fogne. Che innanzitutto non sono fogne, puntualizza Giuseppe, ma sono canali.
“In Romania li chiamano canali, i canali del riscaldamento centralizzato, che lì hanno tutti: il metano, il gas, costa poco, sono tutte risorse che nell’Est costano poco, e se andate a dormire in qualsiasi casa romena con meno quattro gradi fuori dentro fa caldissimo. Sottoterra ci sono questi canali , che sono – ce ne sono diversi, grandi, piccoli – attraversati  lateralmente da due tubi del diametro di un metro e mezzo, dove passano l’acqua calda o il gas che porta il riscaldamento nella città. Sotto la terra Bucarest è disseminata di questi tunnel giganteschi; i ragazzi mettono i vestiti sopra i tubi per non ustionarsi e vivono lì, sottoterra. C’è un letto di siringhe, di escrementi, ci sono robe da mangiare, ciabatte, asciugamani, veramente l’inferno. Se voi vi immaginate uno dei tanti inferni sulla terra, è là. Però arriviamo alla faccenda europeista. Tutti iniziano a fare pressioni alla Romania, che decide finalmente di mettere la parola fine a questa situazione, ma lo fa in maniera populista: sigillando i tombini e gli ingressi ai canali. Se oggi in Romania si fanno domande sulle fogne al romeno medio, la risposta sarà sempre “basta con questa storia, non è vero, è finito tutto”, ma in realtà no, e vi dico anche cosa è successo per arrivare a questa decisione. C’è stata una movimentazione generale, la pressione europea, ma anche un canale in particolare che avrete sicuramente visto online, quello della Gara de Nord, la stazione centrale a Bucarest. La stazione centrale è, come tutte le città, un canale particolare, e c’era questo canale vicino alla Gara de Nord abitato da questo gruppo di persone comandate da questo leader…”

 

Bruce Lee, foto di Radu Ciorniciuc

 

“Bruce Lee?”, domando.

“Bruce Lee, esatto, questo ragazzo che si chiamava Florin, che ora è morto. Tutti i giornalisti sono andati da Bruce Lee, tutti, tutti quanti, senza nemmeno considerare gli altri canali. Tutti da Bruce Lee: perché è l’eroe degli homeless, un personaggio con una vena filosofica tutta sua, che incarna una sorta di eroe romantico malato, una specie di Dracula delle fogne. Perché lui combatte la povertà, o almeno si presenta così. È il capopopolo delle persone che non hanno nulla, dei dimenticati, dei fantasmi, e cerca comunque di garantire loro una vita organizzata, seppur in maniera border. Cioè, si capisce che è un criminale, a suo modo, ma d’altra parte è anche vittima del suo mondo, del sistema. Non dimentichiamo che Bruce Lee è nato lì, si è fatto strada lì ed è divenuto Bruce Lee in mezzo ai suoi. Lui come gli altri era vittima dello stesso disagio, solo con una personalità più forte. Ecco perché è diventato leader. Non ha nessuna caratteristica accomunabile a un personaggio effettivamente pericoloso, fatto sta che però andavano tutti là, vedevano questo tizio con l’aurolac argento in testa, indossava queste catene, e facevano tutti l’intervista, ma quello era solo uno dei tanti canali abitati della città. Bruce Lee aveva migliorato le condizioni del suo canale portando l’elettricità, la tv, i divani, la cucina, aveva dipinto. Erano organizzati, ma questa cosa accadeva vicino alla stazione, davanti agli occhi di tutti: andavi lì alla Gara de Nord e vedevi questo viavai di persone che andavano in questo tombino, gli accessi erano trecento al giorno, e si spacciava, lì sotto, non dimentichiamolo. La Romania ha sempre lasciato correre questa cosa, fino a che c’è stata una serie di incendi là sotto, e quando c’è un incendio ci muori quasi subito – non per le fiamme, ma per le esalazioni di fumo. Non ci stai, è stretto, devi passare in mezzo a tutte le altre persone: un labirinto.
Insomma, decidono di chiudere questa Gara de Nord e lo fanno arrestando Bruce Lee in pompa magna, con le forze speciali a portarlo via. La notizia rimbalza con lo stesso clamore mediatico che ha voluto portare avanti come capopopolo, e da lì quasi tutti i canali furono chiusi.”Giuseppe tiene però a fare una piccola precisazione, raccontandoci poi un aneddoto: “C’è da dire che Bruce Lee non era proprio solo questa vittima del sistema. Bruce Lee è stato accusato dell’omicidio della sua ragazza, sfruttava i ragazzi come corrieri della droga e vendeva eroina ai bambini. Nella nostra esperienza abbiamo saputo di questo bambino di sei anni che si faceva già di eroina in vena. Sei anni. Bruce Lee viene messo in un carcere di massima sicurezza a Bucarest, quando ancora era vivo gli ho chiesto di poterlo intervistare e mi ha chiesto cinquemila euro”. Giuseppe ride, scandendo la cifra. “Cinquemila euro.”

Il fenomeno viene dichiarato risolto, ma stando al racconto di Giuseppe non è esattamente così. Alcuni dei ragazzi hanno riaperto delle fogne, altri hanno occupato delle case abbandonate dove vivono in condizioni disperate: senza riscaldamento, senz’acqua, senza pavimento, senza letti. Gente che dorme per terra, sul tappeto, sguardo fisso nel nulla mentre si fa di aurolac. Oggigiorno, la gravità della situazione risiede proprio nel suo disconoscimento da parte delle autorità, nonostante la crescita della qualità dei servizi sociali attivi sul posto. Per rispondere alla nostra domanda sugli organi competenti che si occupano dell’assistenza ai ragazzi, Giuseppe ci parla delle tre associazioni più presenti sul territorio, con le quali ha collaborato nel corso della preparazione e delle riprese. La prima è Parada, associazione nata negli anni Novanta dal clown itinerante Miloud, franco-algerino, che faceva giocoleria in strada. Durante la sua prima esibizione in Romania rimase così impressionato dai bambini che cercò di tornare da loro più spesso, per dar loro un po’ di gioia. Da lì nacque per l’appunto Parada, il cui obiettivo è il reinserimento dei ragazzi in società attraverso percorsi di giocoleria e spettacoli, e da cui è stato tratto un film. Insieme a Marco Tioli, già citato in apertura, Giuseppe e Vittorio stanno creando un progetto in collaborazione con il LEO Club di Bucarest, al fine di aiutare con la ristrutturazione e la manutenzione del centro diurno di Parada. La seconda associazione attiva è Save the Children, che opera nel quartiere di Ferentari, una delle zone più difficili e povere della città. Per rendere l’idea, Giuseppe ci racconta che persino i taxi non hanno voluto guidare fino lì. Infine, ma non meno importante, c’è Carusel, un dormitorio sicuro per i ragazzi, anch’essa molto attiva in Ferentari.

 

Giuseppe e Vittorio (a destra, con la camera) mentre parlano con Franco Aloisio, presidente di Parada Italia

 

A questo punto, la domanda viene da sé: “Come ti sei mosso? Credo sia anche una questione di riuscire ad approcciarsi alle persone nella maniera giusta, senza curiosità morbosa o smania scandalistica”, azzardo, “dev’esserci anche un lavoro emotivo non da poco, oltre a quello tecnico delle riprese”.

Giuseppe ci spiega di aver agito in maniera quasi matematica, cercando di calcolare quella che chiama percentuale del rischio: “si mettono da una parte tutti gli elementi pericolosi, furti, malattie, pericolo di vita, qualsiasi cosa, dall’altra quali sono gli strumenti che abbiamo per contrastare questi pericoli. E si fa una specie di media”, ci dice, si calcola quanto sia a rischio la propria vita e si cercano di conseguenza delle soluzioni per abbassare questa percentuale. Gli imprevisti sono tanti: il comportamento imprevedibile di alcuni di loro, il dover giustificare la propria presenza nei canali, presenza peraltro illegale.
“Eravamo nascosti anche dalla polizia”, confessa.

“Con i ragazzi poi diventa un discorso molto personale… di empatia. Tanta empatia. Non mi piace andare lì e puntare la telecamera subito a freddo, cioè, quello che voglio dire, quando vai lì – noi l’abbiamo fatto così. Non diremo che è stato semplice dire: “ok, scendiamo”. Ecco, immagina, sei anni fa fotografavi i gattini, sei anni dopo ti ritrovi imbacuccato come se fossi in Antartide e devi scendere in una capitale romena, in un quartiere periferico con una guida che, sì, abbassa la percentuale di rischio, ma sul momento ti dici “ok, lo stiamo facendo davvero. O lo facciamo adesso o non lo facciamo mai più, perché deve essere buona la prima, non ti puoi permettere di ritornare”. Una volta sola: se vai in un posto così difficile una sola volta, cerchi di portare a casa il più possibile e te ne vai. Siamo stati lì sotto venti minuti massimo, che è un tempo utile per non dare la possibilità a nessuno di organizzare qualcosa contro di noi… e devi creare l’empatia in maniera fulminea, dopodiché te ne devi andare – e non si torna mai, perché se torni loro sanno che attrezzatura hai, ti hanno visto, sai come ti muovi. Una cosa quasi militare, ok, pronti, determinati, venti minuti là sotto, non toccate niente, non stringete mani, occhio a dove mettete i piedi. E lì sotto, dove siamo andati noi, è un canale completamente buio, non c’è luce, avevamo solo un faretto messo sulla mia fotocamera, ma siccome sotto ci sono ventotto, ventinove gradi c’è un’umidità tale che c’è la nebbia, è tutto buio… Con questi fantasmi, questi volti di fantasmi che ti guardano e la luce nella nebbia, ed è una situazione terrificante, una situazione di vulnerabilità terrificante”.
Giuseppe fa una pausa. Beve un sorso, quasi alienato dalla frattura tra i canali di Bucarest e un tranquillo bar di Bologna, poi riprende il racconto. Anche per noi la chiacchierata ha un che di straniante, come lo è del resto la sensazione dell’essere lì, a bere succo di frutta e cappuccino mentre la persona di fronte a noi ci sta raccontando un problema del genere, e lo sta facendo con un’umanità così rara che ogni sorso ci lascia in bocca uno strano retrogusto di empatia, senso di colpa e gratitudine.

“Per tornare al rapporto con i ragazzi, l’approccio che abbiamo avuto è stato quello di non spettacolarizzare il loro disagio. Ed è un discorso ricorrente, i ragazzi sono esseri umani, non solo noi che raccontiamo sono esseri umani… non sono solo numeri, non è solo disagio, questi ragazzi, come tutti, hanno voglia di raccontarsi, di essere protagonisti, di essere loro a parlare, non noi a parlare di loro. E in una vita che non li ha mai visti protagonisti, per loro è stata una grande opportunità, perché il tossico è sempre visto come un delinquente, una persona negativa, pericolosa. Può prendere quella deriva, chiaramente, ma il fulcro del loro problema è che sono persone che hanno bisogno di aiuto – e che allo stesso tempo lo devono ricevere. Non può essere solo pietà, devi dar loro l’opportunità di parlare come loro vogliono parlare, come vogliono raccontarsi, questa cosa ha messo le basi per dialogare e ci sono stati anche momenti di ilarità. E ridere lì sotto, ve lo dico… è veramente particolare. Sei nella sensazione di stare all’inferno, non vedi l’ora di andartene via e non hai il tempo di pensare, mentre sei lì, che quelli lì vivono là, stai facendo delle riprese e pensi anche alla tecnica – ma allo stesso tempo c’è questo tsunami di ambiente negativo che ti arriva addosso, e quando una persona ti sorride e tu sorridi a tua volta ti fa strano. Grande empatia, quindi… Siamo tornati su, poi, siamo saliti su e poi crolli, crolli. Io sono crollato. Sali su, e come vedi la luce – non è retorica, è reale come sensazione, vedi la luce fisicamente e capisci che sei veramente uscito da un… ti senti un po’ Dante. Sei uscito da un girone infernale e vedi la luce”.

 

 

 

Sara e io siamo visibilmente toccate. Riusciamo a leggergli negli occhi lucidi gli strascichi della sua catabasi, e siamo felici che, anche solo indirettamente, abbia scelto di portarci con lui. Gli facciamo una domanda, l’ultima, che alla fine non è neppure una domanda, ma volevamo in qualche modo fargli capire quanto il suo approccio ci sia sembrato giusto e necessario. Ci è piaciuto che abbiate scelto di dar loro la possibilità di raccontarsi e di non essere vittime di una narrativa paternalistica, gli diciamo. Di quella sorta di esotismo misto a compatimento per la povertà, che è così tipico degli sguardi a Est.

“Un po’ lo senti”, ci confida Giuseppe, “quando sei lì lo senti. Ti posso dire sì, ma anche no… un po’ ce l’hai, quando sei lì ti viene ma non è culturale, è proprio di esperienza umana, riconosci che in qualche modo oggettivamente – è un problema talmente presente, olfattivo, di tatto, tutti i tuo sensi che vedono questa cosa. Qualche tempo dopo mi aveva scritto un fotografo, voleva andare a Bucarest a fare delle foto, mi aveva scritto chiedermi dove stessero i bambini. Io non gliel’ho detto. Noi non abbiamo mai citato ufficialmente il posto esatto. L’abbiamo detto soltanto a chi di dovere affinché li aiuti, ma non abbiamo mai pubblicamente detto dove si trova, non si tradisce così la loro fiducia. Lo si dice a chi gradualmente li possa tirar fuori. Certi reportage… non lo so, alcune foto sono bellissime ma è l’intenzione a non piacermi. Che cosa stai raccontando, più di quello che hanno fatto da trent’anni? È un reportage che non dà nulla a me e non dà nulla a loro, e anzi, non serve. Il pubblico lo sa che esistono i tossici. Per tornare a come vuoi raccontare un problema, lo puoi raccontare facendolo in maniera sensazionalista o lo puoi fare in maniera più sottile. In tanti si aspetteranno il documentario con i tossici, e invece noi abbiamo fatto parlare tanti adolescenti, tanti ragazzi che hanno subito violenza, tanati ragazzi che hanno vissuto lì, un ragazzo che ha perso la sorella in questo canale, e sono tutte storie personali… Poi certo, c’è la parte in cui scendiamo lì sotto e facciamo vedere come si vive veramente laggiù, però non c’è mai rischio zero. E l’empatia… cercare di rendere protagonisti i ragazzi. E loro mi scrivono ancora”.

Abbassa lo sguardo, riflette un po’ e poi conclude.

“Tanti… quattro, sono già morti e – è strano anche svegliarsi così, al mattino, mi arrivano sempre al mattino questi sms in cui mi dicono che qualcuno è morto. E capisci che stai facendo qualcosa, stai parlando di loro, li stai ricordando. Per cercare di dare una mano nel tuo piccolo, non solo per fare notizia, cioè – quando qualcuno ti dice “Florin è morto”, significa che vuole dirtelo perché ci tiene a fartelo sapere. E se c’è questa cosa significa che qualcosa l’hai lasciato, dentro di loro, non sei andato lì con un microfono, a dir loro: “Perché vivi qui?”.

 

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