La fine di un anno è generalmente tempo di bilanci, l’inizio di uno nuovo di buoni propositi. Soprattutto letterari. Molte delle pagine e dei blog di cultura che seguiamo hanno pubblicato i loro consigli prima delle feste, sia per approfittare del periodo di relativa tranquillità concesso a molti sia per concludere l’anno in bellezza. Noi di Est/ranei, invece, è proprio con i consigli di lettura che decidiamo di inaugurare il nuovo anno, così da accompagnarvi, in un periodo in cui viaggiare ci è ancora precluso, dagli uffici di Ljubljana fino alle porte di Samarcanda.
Il sogno di Jakov di Ljudmila Ulickaja
(2018, La nave di Teseo, trad. Margherita De Michiel, 606 pp.)
Nelle settimane precedenti all’attribuzione del premio Nobel di quest’anno a Louise Glück, il nome di Ljudmila Ulickaja fu uno dei più vagheggiati, e non a torto. Conosciuta qui in Italia principalmente per Una storia russa, edito Bompiani, Ulickaja è tra gli scrittori russi contemporanei più acclamati da pubblico e critica. Capace di coniugare le descrizioni del quotidiano a temi storici e sociali, come la cruda realtà dello stalinismo e le persecuzioni che vessarono ebrei e intellettuali in epoca sovietica, l’autrice riuscì a imporsi sulla scena grazie a una penna introspettiva e una sensibilità non comune, e Il sogno di Jakov non fa eccezione.
Il romanzo è infatti un arazzo profondo e intenso che tesse le sorti di cent’anni di storia russa nelle vicende di Nora, la protagonista, una regista teatrale appartenente all’intelligencija, e della sua famiglia. Il funerale della nonna di Nora e il conseguente ritrovamento dei cimeli e delle lettere d’amore nel baule appartenuto alla sua antenata danno il via a un intreccio complesso e articolato, ma che non perde mai di tenerezza. Del resto, Ulickaja è maestra della narrazione non lineare e avvezza a salti temporali, come già dimostrato nello splendido e ambizioso Una storia russa, racconto corale sulle vite di tre amici d’infanzia che crescono nel tumulto dell’epoca del disgelo. Il pathos su cui si regge la vicenda della famiglia di Nora, tuttavia, supera di gran lunga l’intreccio delle sorti che il destino aveva riservato per i tre protagonisti della sua opera precedente: l’ispirazione per il romanzo è infatti autobiografica, e giunse come un fulmine a ciel sereno con il ritrovamento delle lettere d’amore scritte dai suoi nonni, riutilizzate nella prosa.
Con lo stesso amore per l’ironia del fato che attraversa tutta la sua opera, Ulickaja tratteggia le sorti di sei generazioni della famiglia Osseckij, ricostruendo l’unità delle vicende umane che trapela dalle loro lettere, dalla passione per la musica e per l’arte, dalle difficoltà a conformarsi alle aspettative del regime. Ricco di rimandi alla cultura e all’arte dell’Unione Sovietica, che costituiscono una solida opportunità di approfondimento per i neofiti e una vera e propria chicca per gli appassionati, Il sogno di Jakov è la dimostrazione di come la poesia essenziale della vita scorra in tutte le cose, e come possa impiegare anche cent’anni per rivelarsi all’uomo nel suo massimo splendore.
Kafka: Classics in Comics dei Nishioka Kyōdai
(2020, Dynit Manga, trad. Juan Scassa, 176 pp.)
D’accordo, d’accordo: forse consigliandovi un manga ci stiamo allargando un po’ troppo a Est, ma la pregevolissima qualità di questo albo vale questa piccola eccezione. Satoshi e Chiaki Nishioka, fratello e sorella noti per il loro approccio non convenzionale al fumetto giapponese, hanno già fatto il loro ingresso sugli scaffali italiani grazie ai titoli Il bambino di Dio e Viaggio alla fine del mondo. A caratterizzarli è uno stile grafico e narrativo assolutamente visionario, che unisce la tradizione dei maestri nipponici dell’inquietudine come Junji Ito e Suehiro Maruo a un minimalismo bidimensionale dall’aspetto surreale e innovativo. La loro impronta grafica si rivela l’accompagnamento perfetto per le parole dello scrittore boemo, di cui reimmaginano racconti divenuti classici come Un medico di campagna, Il cavaliere del secchio, Un digiunatore o il celeberrimo La metamorfosi.
Oltre al lavoro di illustrazione, già ostico di per sé nel rievocare gli echi del disorientamento kafkiano su un altro medium, particolarmente pregevole è il lavoro di ricerca operato dai due autori. Sono molte le tavole direttamente ispirate ai disegni criptici e spigolosi dello stesso Kafka, ma è nella trasposizione de La metamorfosi che lo stile dei due mangaka riesce ad eccellere. Infatti, a differenza delle centinaia di edizioni che in tutto il mondo hanno reso nota la storia di Gregor con l’iconico insetto in copertina, Satoshi e Chiaki Nishioka esaudiscono il desiderio dell’autore di non veder direttamente rappresentato l’Ungeziefer (termine che descrive un animale “impuro e inadatto al sacrificio”, una valenza semantica particolarmente pregnante data l’educazione ebraica dell’autore). Lo straniamento che ne consegue viene amplificato dagli sguardi fissi, vuoti e giudicanti della famiglia Samsa, mentre il tempo dell’isolamento è scandito soltanto dalle fughe di luce nella stanza buia, dal cibo sotto la porta, dalle parole degli altri. La stessa narrazione di fratello e sorella Nishioka è un unicum nella tradizione nipponica, preferendo alle tavole dinamiche dai tagli diagonali, tipiche del fumetto manga, una struttura simmetrica formata da griglie ordinate, ambientazioni abbozzate ed essenziali, prospettive impossibili.
Da grande estimatrice di Kafka e dell’arte del fumetto mi ritrovo spesso a essere particolarmente severa davanti alle trasposizioni in graphic novel di autori che ho a cuore, e non ho mai nascosto il mio disappunto nei confronti di titoli dalla riuscita non propriamente eccelsa, come nel caso de Il maestro e Margherita di Klimowski e Schejbal. Tuttavia, di fronte a un volume come Kafka: Classics in Comics non posso non riconoscere di trovarmi davanti al miglior adattamento fumettistico di Kafka dai tempi di Robert Crumb.
I cancellati di Miha Mazzini
(2018, Bottega Errante, trad. Francesco Obit, 288 pp.)
È il 1992. Il 26 febbraio, il Ministero dell’Interno sloveno cancella 25.671 persone dai suoi sistemi informatici. Eliminate dal circuito burocratico, 25.671 vite si ritrovano private dei documenti, dello status di cittadini e, automaticamente, dei diritti. È a quest’assurda pagina di storia recente che lo scrittore sloveno Miha Mazzini dedica il suo I cancellati, dal quale è stato anche tratto Izbrisana, film omonimo del 2018 di cui lo scrittore è anche sceneggiatore e regista.
Ma come fu possibile? All’epoca della dissoluzione della Jugoslavia, ai cittadini sloveni vennero dati sei mesi per richiedere la cittadinanza. L’indipendenza slovena, formalizzata nel 1991, inaugurò un periodo in cui era possibile possedere la doppia cittadinanza slovena e jugoslava. I cittadini di altre repubbliche jugoslave residenti in Slovenia potevano richiedere la cittadinanza qualora la loro residenza avesse status permanente e qualora avessero fatto domanda entro sei mesi dal 25 giugno 1991, data dell’indipendenza.
Quello che invece accadde fu per l’appunto la cancellazione formale di decine di migliaia di cittadini, che si ritrovarono privati del loro diritto di residenza e la cui presenza sul suolo sloveno venne considerata illegale. Molti di loro furono deportati, le loro proprietà e case requisite e si ritrovarono a versare in una condizione di disoccupazione, espropriazione e abbandono da parte delle autorità. È quanto accade a Zala, la protagonista, una giovane donna di origine serba ma residente a Lubiana che al momento del parto scopre che né lei né il figlio risultano esistere sui documenti.
È questa sventurata realizzazione a dare il via al travaglio burocratico di Zala, che si ritrova a combattere contro gli apparati del potere per dimostrare il proprio diritto a esistere. Quasi come in un giallo, la donna si rivolge a medici, uffici, giornali alla ricerca di un colpevole e di una soluzione, ma la situazione sembra senza scampo. Vale la pena ricordare che fu soltanto nel 2010 che la burocrazia slovena riuscì a risolvere definitivamente questo errore di sistema, ma le vite di molte persone furono irreparabilmente rovinate.
Nonostante la tematica delicata -è infatti una ferita ancora aperta- lo stile di Mazzini è limpido, ma non per questo meno incisivo: è nella chiarezza estrema che la gravità della vicenda riesce a emergere con più forza. Tematica che del resto, in un’epoca di migrazioni e dibattiti sui corpi in transito regolati dalla burocrazia, è non solo attuale ma quanto mai urgente.
Un frutto acerbo di Wioletta Greg
(2020, Bompiani, trad. Barbara Delfino, 176 pp.)
Wioletta Grzegorzewska, che come la poetessa Anna Świrszczyńska ha scelto uno pseudonimo più agevole per i non-polonofoni, è una delle autrici polacche più apprezzate della sua generazione. Seppur inizialmente nota al pubblico come poetessa e giornalista, Un frutto acerbo è la sua prima opera in prosa, ed è una breve novella di formazione nella Polonia rurale, raccontata con uno stile onirico che strizza l’occhio a quel ramo di realismo magico squisitamente mitteleuropeo di cui Bruno Schulz fu maestro.
Per i Paesi che nella seconda metà del Novecento si ritrovarono sotto l’egida del regime sovietico, il senso di identità propria e nazionale andò ricercandosi nel folclore, nel sostrato rurale, nelle tradizioni e nelle superstizioni rimaste intoccate dal comunismo. È infatti in un piccolo villaggio della Repubblica Popolare di Polonia che Greg rievoca la propria infanzia attraverso il vissuto della protagonista Wiola, i cui ricordi sono piccoli affreschi della vita di campagna con i genitori, i familiari e i compaesani, un teatro variopinto di tipi umani descritti anche nei loro aspetti più grotteschi.
Oltre alle scene della quotidianità del paesino di Hektary, tratteggiato nei suoi colori, profumi e idiosincrasie, sono molti gli eventi storici che, seppure non in primo piano, incidono sugli anni della formazione di Wiola. La diserzione del padre, il passaggio del Papa nella cittadina, l’occhio onnipresente del regime e le giornate scandite da ritmi e riti del cattolicesimo sono il contraltare della vita adulta a quelle che sono le esperienze della voce narrante, impegnata nel difficile compito della pubertà in un ambiente che, nel suo eterno presente di campagna, si prepara a incorrere in enormi cambiamenti storici.
Composto di ventiquattro scorci di vita, Un frutto acerbo è una lettura che fa della leggerezza e dell’ironia il suo punto di forza. Tra il profumo delle ciliegie appena raccolte, la corazza lucente degli insetti e il contrasto tra l’innocenza della gioventù e il tumulto dell’adolescenza e dell’età adulta, Greg naviga le acque torbide della maturazione con sguardo nuovo, capace di ritrovare le geometrie del mondo in un’epoca in cui la contemplazione della vita non sembrava possibile.
I posseduti di Elif Batuman
(2012, Einaudi, trad. Eva Kampmann, 209 pp.)
Nella comunità bibliofila in rete, in particolare quella della nostra bolla, uno dei titoli più divisivi di questi ultimi due anni è stato sicuramente I russi sono matti di Paolo Nori. Molti sono stati i dibattiti che si sono spinti al di là del semplice libro, arrivando a toccare il ruolo stesso della divulgazione non accademica nel panorama letterario italiano – dibattiti che non hanno trovato un punto di vista che mettesse d’accordo tutti, ma che hanno sollevato degli spunti interessanti. Come parlare di letteratura fuori dal circuito accademico, ad esempio? È possibile scavare nelle pieghe più nascoste della storia letteraria senza cadere nella trappola dell’eccessiva scientificità o del linguaggio poco fruibile? Una divulgazione letteraria può essere accessibile anche quando parla di argomenti specifici, e può servirsi -come Nori- della finzione autobiografica per farlo?
Questo volume di Elif Batuman, intitolato I posseduti – storie di grandi romanzieri russi e dei loro lettori, è una risposta più che esaustiva a tali quesiti. Statunitense, classe 1977, Batuman è scrittrice, giornalista e ricercatrice accademica, e alla letteratura russa dedicò molti dei suoi studi universitari. Oltre al classico lavoro d’archivio degli anni studenteschi, Batuman trascorse un periodi di scambio a Samarcanda, in Uzbekistan, il cui racconto inframezza i capitoli sulla russistica, sulle peripezie accademiche e sulle divagazioni letterarie dell’autrice.
Ad aprire la raccolta, un po’ saggistica un po’ memoir, Babel’ in California, il resoconto dai risvolti inaspettati di alcune giornate di conferenze sull’autore ucraino, tra inconvenienti aeroportuali, cerimoniali altoborghesi e dissertazioni sui punti di contatto tra Babel’ e King Kong (ebbene sì). Fanno seguito Chi ha ucciso Tolstoj?, in cui l’autrice, a un convegno di tolstojani nella tenuta di Jasnaja Poljana, si ritrova a indagare sulla morte del gigante russo, avvenuta in circostanze più misteriose di quanto a prima vista si possa immaginare. Troviamo poi Il palazzo di ghiaccio, breve dissertazione che accompagna il lettore dalla Russia imperiale ai giorni nostri, tra descrizioni di architetture barocche, wunderkammer, freak show dell’imperatrice Anna e le poesie di Majakovskij; e concludiamo il volume con I posseduti, saggio che dà il titolo alla raccolta, dove l’infatuazione per un affascinante e tenebroso studente croato si alterna alla fascinazione letteraria tutta russa per il male e per i suoi campioni.
Probabilmente meno accessibile del già menzionato titolo di Nori, che fornisce spunti e chiavi di lettura anche ai neofiti, I posseduti è tuttavia un titolo imperdibile per chiunque sia interessato a un tipo di letteratura ibrida, nonché alla sempre fiorente intersezione tra letteratura e vita.
L’armata dei fiumi perduti di Carlo Sgorlon
(2020, Mondadori, 264 pp.)
Se con il Giappone ci siamo spinti troppo a Est, con il Friuli ci spostiamo un po’ troppo a Ovest – se prendiamo Trieste come colonne d’Ercole dell’Europa occidentale. L’armata dei fiumi perduti, romanzo del 1985 che valse a Carlo Sgorlon il premio Strega, è un’epopea storica dal respiro universale, che nella dialettica tra gli eventi storici e la vita autentica e genuina del popolo contadino offre nella migliore tradizione tolstojana un affresco del mondo intero riflesso nelle alture della Carnia.
La trama ricalca, con i dovuti ricami letterari, uno spaccato di storia realmente accaduta: nel 1944, il Nord del Friuli fu teatro dell’invasione cosacca conosciuta come Operazione Ataman, che diede il via a una migrazione di massa nei boschi cargnoli. Nel corso della Seconda guerra mondiale, infatti, in seguito all’occupazione dell’Ucraina e delle Terre Nere le forze tedesche arruolarono tra le loro file migliaia di volontari cosacchi con la promessa di territori autonomi, e la Carnia, al confine con Austria e Slovenia, fu uno dei territori chiave per la guerra partigiana.
Nell’opera di Sgorlon il Friuli, crocevia di popoli, lingue e culture, è il perfetto microcosmo delle vicende umane. Cosacchi, friulani, ebrei, contadini, partigiani: i legami stretti tra gli individui ai margini sono intrisi della poesia degli esclusi, e la spiritualità delle riflessioni dei protagonisti mette al centro la fragilità della patria e del concetto di ritorno. Come i cosacchi del racconto omonimo di Tolstoj, gli antieroi dell’armata sono nomadi, impetuosi, apolidi, perfetti figli dei canti epici e del Taras Bul’ba di Gogol’, ed è nello scambio con le donne friulane, tra le quali spicca la figura di Marta, che avviene l’incontro tra popoli, valori e speranze in un paesaggio dove il ritmo della guerra e quello della vita vanno a scontrarsi.
Nella postfazione al libro, l’autore pone infatti l’accento sulla centralità del ruolo delle donne nella creazione di una società organica e solidale, che vede in Marta la portatrice ideale dei valori di tolleranza e di coesione oltre le frontiere frammentate: l’ascolto e la solidarietà della comunità contadina vengono offerti a tutti, amici e nemici, profughi russi, soldati, zingari, partigiani ed ebrei. Sgorlon definisce il romanzo un monumento alle donne friulane, al loro coraggio, alla loro resilienza e alla loro opposizione alla guerra, ma limitare la sua portata alla sola cultura contadina femminile, per quanto importante, sarebbe un torto al respiro corale e universale del racconto. Insomma, L’armata dei fiumi perduti è la lettura migliore per chi ha già letto Guerra e pace e vuole riassaporare la perfetta unità del cosmo tra vita e storia, nonché un’alternativa ancor più calzante per chi non ha tempo e coraggio di addentrarsi nell’opus magnum di Tolstoj.
Il convitto di Serhij Žadan
(2020, Voland, trad. Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyč, 320 pp.)
(Ringraziamo tantissimo la casa editrice Voland per averci regalato una copia. Ricordiamo che, essendo un regalo e non una sponsorizzazione, tutto quello che abbiamo scritto lo pensiamo davvero.)
L’Ucraina è una terra di Zone. Ce lo ricordano l’infausta pagina di storia che fu Černobyl’, divenuta poi luogo di pellegrinaggi dall’etica più o meno condivisibile raccontati dallo stalker Markijan Kamyš, l’eredità dei paesaggi sconfinati attraversati dalle armate cosacche e, purtroppo, anche le terre del Donbass, lacerate dal conflitto tra i separatisti filo-russi e le forze ucraine. Questa crisi ebbe inizio il 6 aprile 2014, data in cui dei gruppi armati della fazione russa occuparono dei palazzi governativi.
Oltre a essere teatro di guerra, la regione del Donbass è però divenuta anche ambientazione letteraria grazie all’opera di Serhij Žadan, scrittore, poeta e saggista nato e cresciuto proprio in quell’area. Prototipo dell’intellettuale politicamente impegnato, ma con una vena anarchica e rock, Žadan è campione della causa dell’Ucraina indipendente già dagli anni Novanta, epoca della sua partecipazione nei gruppi letterari d’avanguardia di Charkiv. Militante attivo dal 2004, anno della Rivoluzione arancione, dallo scoppio della guerra del Donbass cercò di recarsi spesso sul posto, fondando nel 2017 una onlus a suo nome per fornire aiuti umanitari alle città più colpite dagli attacchi.
È proprio in una di queste città che si svolge Il convitto, ultima uscita dell’autore per Voland, che aveva già pubblicato in precedenza Mesopotamia e La strada del Donbas, una storia al cardiopalma di transiti e ostacoli. Il romanzo segue le vicende di Paša, giovane insegnante di una scuola locale, che attraversa la città dilaniata dalla guerra per riportare a casa il nipote residente in uno studentato, l’internat del titolo. Scritte completamente al presente, creando un’esperienza ancor più immersiva e straniante, le vicende di cui Paša è testimone ricordano l’odissea di rovine e morte del Fljora di Va’ e vedi, e le sue interazioni con i suoi compagni e le sue compagne di sventura, storie di ordinaria violenza, rivelano le asperità della vita quotidiana sotto il conflitto. L’impegno politico dell’autore, sebbene non esplicitato, è presente e vivo nello scontro di sguardi tra l’impolitico Paša e la moltitudine di individui che per il loro credo, qualunque esso sia, rischiano la vita in prima linea, nello spregio dell’indifferenza rassicurante del protagonista.
Quello di Paša non è un viaggio né un percorso di maturazione o di vita tout court, ma la sua natura di transito permette al protagonista di osservare con mano l’anormalità di quel consueto fatto di armi, posti di blocco, granate e sparatorie, l’occhio lucido -ma sempre poetico- di Žadan in bilico tra gli orrori dell’ignoto e la meraviglia di ciò che resta.