Il confine dell’oblio (Predel zabvenija, 2011), romanzo di Sergej Lebedev (1), è una delle espressioni della vera e propria ossessione della letteratura russa contemporanea con il passato – letterario, storico, sociale e famigliare. Variazioni letterarie sul tema del recupero e del confronto, spesso tragico, con la storia russa tutta, sia essa il terribile secolo breve o il passato più lontano sono sempre più comuni nella produzione letteraria degli ultimi dieci anni e, soprattutto, stanno uscendo sempre più spesso dai confini geografici e culturali della Russia. Assieme a Il confine dell’oblio, uscito in Italia nel 2018, nell’ultimo anno sono stati pubblicati I Cinocefali (Psoglavcy, 2017) di Aleksej Ivanov, sorta di folk horror che recupera la memoria tutta rurale della Russia delle sette religiose, e soprattutto Memoria della memoria (Pamjati pamjati, 2017) di Marija Stepanova, corposo romanzo-saggio imperniato proprio sulla memoria famigliare e storica del XX secolo, mettendo assieme i ricordi concreti della famiglia della scrittrice, gli oggetti, le fotografie, assieme a una riflessione di stampo più “accademico” sulla teoria e sul significato della memoria.
Questa ossessione letteraria è naturalmente l’espressione di un’ossessione sociale della Russia contemporanea per la propria storia. Il critico letterario Aleksandr Etkind, studioso della memoria culturale nella Russia post-sovietica, definisce l’attuale situazione russa come “multistorica” (opposta, invece, alla “multiculturalità occidentale”), ovvero una situazione in cui ogni individuo e ogni strato sociale della popolazione è impegnato nell’interpretazione e nella ri-significazione della storia russa, producendo risultati eterogenei e spesso in conflitto fra loro (2). Lebedev prende le mosse da questa peculiare concezione, analizzando in maniera critica questi processi soprattutto quando a metterli in atto è il potere, e prendendo una posizione netta: riappropriarsi della memoria storica e individuale, soprattutto quella fatta di orrori e tragedie, fuori da ogni mistificazione, è quello di cui la Russia ha bisogno. Lo stesso scrittore ne parla al norvegese Karl Ove Knåusgard:
[…] è importante capire che le autorità non seguono un’ideologia coerente. Usano elementi provenienti dai campi più disparati: se una cosa funziona, se ne appropriano. Hanno bisogno di una cortina fumogena per nascondere il fatto che sono dei cleptocrati. Prendiamo per esempio il nome del partito Russia Unita. Le parole ‘Russia Unita’ erano uno slogan dei controrivoluzionari coniato in reazione a Lenin e ai bolscevichi, che volevano costruire delle nuove repubbliche in grado di autogovernarsi. L’amministrazione attuale sta costruendo uno stato fondato sulla nostalgia per l’Unione Sovietica, ma non si fa problemi ad appropriarsi di uno slogan controrivoluzionario. E la cosa non provoca nessuna polemica. […] Ogni anno che passa cercano di ridimensionare l’importanza del 1917. Lo fanno perché nella loro versione ideale degli eventi non c’è stata nessuna rivoluzione! Stanno cercando di costruire un legame tra gli zar e la Russia di Stalin. Secondo la narrazione corrente, cent’anni fa siamo stati spinti ad ammazzarci a vicenda dalle spie straniere e dai traditori […] Ma se si vuole capire cosa è successo in questo paese negli anni Venti e Trenta è impossibile ignorare le violenze e gli orrori dei cinque anni tra il 1917 e il 1921. È impossibile capire perché la gente fosse così ansiosa di ammazzarsi a vicenda. C’è stata una specie di guerra della memoria in Russia, su quello che va ricordato e quello che va dimenticato. Oggi la storia è solo una questione di simboli” (3).
Va da sé che Il confine dell’oblio, l’esordio letterario di Lebedev, sia tutto incentrato su questo tema. Non è, dunque, un romanzo propriamente sulla memoria, ma sulle circostanze e sulla difficoltà del suo recupero in un Paese che, invece, ha fatto di tutto per seppellirla.
Il protagonista è un ragazzino di dieci anni, in vacanza con i genitori nella loro dacia in una calda estate di inizio anni Novanta: l’Unione Sovietica è ancora in piedi. Il protagonista, che rimane senza nome, viene preso sotto l’ala protettiva del vicino di dacia, un vecchio cieco e burbero che il ragazzino soprannomina Nonno Due. Fra i due si instaura un rapporto peculiare, di interdipendenza: il vecchio si fa accompagnare ovunque dal ragazzino, e il ragazzino, ormai cresciuto, riconosce nelle azioni del vecchio il desiderio di possederlo, di forgiare il suo cammino, di vivere attraverso di lui. Le circostanze della vita del giovane protagonista non fanno altro che rafforzare questo legame: Nonno Due aveva effettivamente decretato la sua nascita, convincendo la madre a portare a termine una gravidanza che si prospettava difficile. Infine, come in un cerchio che si chiude, Nonno Due muore per salvare la vita al protagonista, donandogli il sangue per una trasfusione proprio in quell’Agosto 1991 in cui l’Unione Sovietica cessa di esistere. Da quel momento, il protagonista si sente come maledetto dal sangue di Nonno Due che ora scorre in lui, portatore di una follia e di un terrore inspiegabili che a volte si manifestano nei momenti più disparati.
Proprio questo legame di sangue spinge il protagonista verso una vera e propria ossessione per il passato in generale, e per quello di Nonno Due in particolare, per quanto egli cerchi di rifuggirla. Ossessione che giunge a compimento quando il protagonista, una volta morta la governante, eredita la casa e gli averi di Nonno Due e, irrimediabilmente e perversamente attratto dagli oggetti lì presenti, inizia la propria ossessiva riscoperta del passato del vecchio.
Il ritrovamento, in un cassetto, della corrispondenza che Nonno Due intratteneva con un uomo, tutta incentrata sulle reminiscenze del loro tempo passato insieme, lo conduce in una città dell’estremo Nord della Russia, costruita attorno a un vecchio lager e a una cava di uranio dove lavoravano i detenuti. Lì il protagonista inizia un vero e proprio percorso di riappropriazione di una memoria che non gli appartiene, ma che gli è stata trasfusa da Nonno Due assieme al suo sangue: il vecchio che gli aveva salvato la vita era stato il direttore del lager attorno al quale era sorta la città, teatro anche della sua tragedia personale. Il lager, infatti, si prende prima la vita del figlio di Nonno Due, che cade nella cava di uranio dopo essere scappato da casa, dove era stato rinchiuso per punizione; e in seguito la vista, dopo che il direttore, supervisionando un progetto suicida di colonizzazione delle terre dell’estremo Nord, rimane permanentemente accecato a causa dell’abbacinante biancore della tundra dove si era perso. Il protagonista segue fino in fondo il sentiero lasciato dalla vita di Nonno Due, giungendo nell’estremo Nord, dove ritrova i resti del villaggio dei coloni e l’isola in cui si era concluso tragicamente il primo esperimento di colonizzazione portato avanti dall’ex-direttore. Lì il protagonista cade in una fossa ghiacciata dove si trovano i cadaveri dei detenuti che per primi si erano avventurati in quelle terre e, nonostante sia in preda al delirio, riesce con molta difficoltà a uscirne: avendo recuperato la memoria del passato, avendo superato il confine dell’oblio, il protagonista è libero dalla follia entratagli dentro assieme al sangue di Nonno Due, e può iniziare il suo “viaggio di ritorno”.
La trama, tuttavia, non è affatto il centro del romanzo. Gli avvenimenti che si susseguono sono costantemente intrecciati da altre storie, aneddoti, ricordi del protagonista che vengono reinterpretati alla luce di nuove scoperte, e una lunghissima serie di sequenze oniriche, descrizioni visionarie e, soprattutto, di riflessioni volte a indagare il senso del tempo e della memoria. Il nucleo centrale di queste riflessioni è composto da una triade di elementi fortemente intrecciati tra loro, difficili da districare e apparentemente intercambiabili: tempo, epoca e memoria. Ognuno di essi, però, ha delle proprietà uniche e un ruolo ben definito all’interno di quello che si potrebbe definire il “sistema” che Lebedev mette in scena, ed è utile, per orientarsi all’interno del romanzo, analizzare e definire questa griglia interpretativa implicita che l’autore decide di applicare sopra la trama propriamente detta.
Il tempo, per Lebedev, non è semplicemente il tempo fisico, la misura umana della quarta dimensione del mondo dove le ore succedono ai giorni, i giorni ai mesi e poi agli anni. Ciò che colpisce di più del tempo per come lo rappresenta Lebedev, e che lo separa nettamente dal tempo fisico, è la sua materialità: il tempo è una dimensione concreta, che si può osservare e toccare, che può interagire e reagire, in senso quasi chimico, con altri materiali. Gli oggetti sono manifestazioni concrete del tempo e dell’epoca, e tramite essi si può accedere a un tempo passato. È lo stesso protagonista a rendersi conto di questo, collegando due “ritrovamenti” in momenti molto diversi della sua vita: in gioventù, quello di una grandissima quantità di busti di Lenin in una villa abbandonata vicino alla sua scuola, e in età adulta il ritrovamento, durante una spedizione, di sacchi di banconote sovietiche senza più valore, interrate dopo il crollo dell’URSS.
Là, da qualche parte, tra tutte quelle banconote violette da venticinque rubli col profilo di Lenin trasportate dalla succursale della Banca di Stato, c’erano anche i soldi lasciatimi da Nonno Due. Presi una banconota per ricordo, e non perché mi rammentasse la ricchezza perduta, bensì a testimonianza della rapidità e irreversibilità con cui scompaiono le forze incarnate e materiali di un’epoca, le sue possibilità.
Tenere in mano i venticinque rubli presi un giorno in quella miniera mi suggerisce come all’interno del tempo esistano delle scorciatoie, dei passaggi in grado di collegare con rapidità ciò che si deve sapere e comprendere; per me un passaggio del genere, una sorta di buco della serratura, è stato il profilo di Lenin, a condizione di guardarci attraverso. (109)
Sul pavimento c’erano decine di Lenin, soltanto busti. […] I Lenin si guardavano l’un l’altro, il raggio della torcia era debole e negli angoli lontani le sculture si fondevano armoniosamente con l’oscurità, alla maniera di fantasmi, antichi idoli disincarnati, ombre di monumenti. L’aria odorava di bruciato, pietra e polvere. Quest’ultima era ovunque, sulle teste, il pavimento, gli strumenti sparpagliati dello scultore. Non la familiare polvere di una casa, lieve e delicata, bensì densa come potrebbero essere i resti inceneriti di una scultura in gesso, troppo pesante per essere portata via da una corrente d’aria. […] D’un tratto, mi resi conto che la polvere sparsa dappertutto, altro non era se non il residuo del tempo, seccatosi, divenuto decrepito, sterile. Mi ero fatto l’idea che i Lenin più grandi fossero comparsi prima, quelli più piccoli dopo; in quel ricovero segreto, era in atto una reazione a catena di degenerazione. Morendo, il tempo si sforzava di riprodursi, conservarsi, impossibilitato non solo a creare qualcosa di nuovo, ma almeno qualcosa di equiparabile al passato. Il vero mausoleo era lì, non sulla Piazza Rossa. (110)
Il tempo è dunque materia, una materia che vive la stessa vita invisibile dei batteri e delle amebe. Questa “vita” è però inestricabilmente legata a quella umana, tanto che rimuovere degli individui dal tempo (l’oblio) è, per Lebedev, equivalente alla morte. È il caso dei detenuti che il protagonista vede in sogno:
Era il momento più penoso del sogno: gli uomini non morivano, ma cessavano di esistere per il presente, che continuava anche senza di loro, e ogni nuovo attimo allontanava i precedenti, quelli nei quali quella gente ancora esisteva. Sentivo che l’oblio non giungeva gradualmente, dilungato, con delle deroghe, ma era un’inalienabile proprietà del tempo stesso, realizzato dalla sua forza irragionevole qui e ora. Il cieco Crono divora in eterno i propri figli e a ogni attimo si affanna ad annientare quello precedente. (157)
E del vecchio amico di Nonno Due, un relitto dell’epoca sovietica che il tempo, ormai, si è lasciato indietro:
Il vecchio stava morendo di una malattia cronica, chissà quando era stato esposto a una piccola dose di radiazioni e le conseguenze si facevano vedere nel suo corpo soltanto adesso: l’emopoiesi era soppressa, il sangue nei vasi non si rinnovava, e lui lentamente veniva avvelenato dalla vita da vivere e vissuta, dal passato, le cui scorie e tossine si erano accumulate nei suoi tessuti. Lo stava uccidendo il tempo, in senso letterale. E io, davanti a lui, ero l’incarnazione di questa nuova epoca. (244)
L’epoca, invece, è la manifestazione storico-culturale del tempo, lo Zeitgeist, che tinge dei suoi colori i comportamenti, l’animo, e il linguaggio degli individui: “lo spirito di un’epoca è ciò che l’individuo è in quell’epoca”, scrive Lebedev. E, soprattutto, imprime nelle interiorità recondite degli individui una griglia interpretativa, una bussola che li guida nelle loro scelte tanto individuali quanto collettive:
[Nelle statuette militari ritrovate in casa di Nonno Due] si rifletteva in maniera pregnante lo spirito di un’epoca: non qualcosa di comune e di esteriore che aleggia nell’aria, formandone l’atmosfera – le mode, gli slogan, i discorsi, le innovazioni tecnologiche – ma un che di più profondo e vicino al cuore: il concetto di bene e di male, di umanità e disumanità, la dominante complessiva nelle relazioni, ciò che un uomo può fare all’altro, e che quell’epoca percepisce come legittimo. (137)
È l’epoca, dunque, a forgiare il carattere degli individui, e non il contrario; appare perciò come un’entità dotata di agency, in grado di dare materialmente forma al mondo in un preciso momento della storia. Nonostante la focalizzazione indubbia che Lebedev ha per l’individuo, l’epoca è una dimensione che agisce anche e soprattutto a livello collettivo, specialmente in relazione alla costruzione, da parte di questa collettività, di un passato condiviso e unanime che, come abbiamo già visto, è per Lebedev un punto di forte contesa con la Russia contemporanea.
La memoria, l’elemento finale della triade, ne è anche il più importante, il punto di partenza e di arrivo in cui si risolve tutta la riflessione di Lebedev. La caratteristica più importante della memoria è proprio il suo volto duplice, la sua natura quasi di strumento, che può essere utilizzato in due maniere contrastanti. Da un lato, la memoria è, come si è visto prima, il mezzo con cui viene attuata la costruzione di un passato sicuro, privato dei suoi elementi più terrificanti. Il protagonista, e assieme a lui Lebedev, lancia accuse mirate alla generazione dei suoi genitori, colpevoli di aver voluto preservare non la memoria del passato per come esso era, con tutte le difficoltà e i dilemmi etici che questa operazione implica, ma una sua visione distorta, un’aberrazione:
Avevo l’impressione che gli adulti della mia famiglia sotto sotto fossero ben contenti che [Nonno Due] facesse tanto il misterioso su quell’argomento, per loro era meglio che certe vicende passate non venissero a galla. I tempi di cui avrebbe potuto parlare erano gli stessi che loro tentavano, se non di dimenticare, quantomeno di ridurre a minimi ricordi individuali, spezzettandoli in sensazioni personali ed episodi privati: la bella montagnola di ghiaccio che non c’è più; le nocciole comprate al mercato per farci la marmellata, tutte toccate e raggrinzite. L’inchiostro annacquato dei calamai della scuola che mandava in bestia la maestra perché non riusciva a leggere quello che c’era scritto nei quaderni. Un passato alla stregua di chiavi, portafogli e documenti da distribuire nelle tasche prima di uscire di casa. Poco ingombrante e inoffensivo. Ciascuno si ingegnava a coltivare l’orticello della propria memoria, nessuno ricordava per tutti. (70-71)
Questa operazione di memoria selettiva, di ricostruzione di un passato tanto confortevole quanto parziale, se non addirittura fasullo, è esemplificata nel romanzo dal museo della città del Nord:
Il museo risultò ancora più deludente della biblioteca. Troppo nuovo, e troppo preoccupati i suoi organizzatori di fornire l’immagine di un passato bello e attendibile. Era tutta una sceneggiata, una solida riproduzione. La stessa solidità e mancanza di pretese si riscontra nell’allestimento dei ristoranti in stile antico. […] Il rispettabile presente, provando vergogna per la bruttura del passato […] lo mostrava camuffato, si precipitava a dire che il passato era passato e lo cacciava sempre più in fondo.(196-197)
Questo atteggiamento nei confronti del passato si riflette anche nell’architettura stessa della città del Nord, cresciuta attorno agli orrori che si vuole dimenticare, e che disloca dal suo centro, ricacciandoli alle periferie geografiche (e sociali) i rappresentanti ancora in vita di quel passato ancora in vita.
Ma la memoria non è solo questa memoria selettiva, menzognera, che ricombina e ristruttura il passato. È anche il suo opposto, il suo antidoto: per chi osi andare oltre ad essa, oltre il confine dell’oblio che dà il titolo al libro, c’è la “cura” da questa follia, la stessa cura che il protagonista trova, nella tundra, alla follia portata in lui dal sangue di Nonno Due. Questa memoria è un punto liminale dell’individualità umana, che si raggiunge solo spingendosi sempre oltre, non terminando mai la propria ricerca della verità storica. È un limite connotato anche geograficamente: alla città che ha deciso di dimenticare quello che è stato è contrapposta la tribù indigena che abita la tundra, una comunità di persone che vive al limite della civiltà e che, per questo, non può fare altro se non ricordare, custodire la memoria del passaggio delle chiatte di coloni attraverso le loro terre. È in questo punto liminale che il
protagonista completa il suo viaggio, restituendo il senso di verità libera e completa al passato da troppo tempo sepolto.
L’atto di ricordare, per quanto doloroso e faticoso, è tuttavia liberatorio, e permette di ancorare l’individuo alla realtà, invece che a una serie di menzogne:
Basta una tacca, un’incisione, perché qualcosa non scompaia. È sufficiente una persona che si faccia carico di ricordare. Ricordare significa avere un legame con la realtà, o addirittura essere quel legame. Non siamo noi a mantenere il ricordo della realtà del passato, ma è il passato che, ingranando, muovendosi come un essere vivente, parla attraverso la memoria dell’uomo, e il suo linguaggio risulta tanto più chiaro quanto più è sincero chi lo trasmette, non riguardo all’intenzione di rispettare la verità, ma nel senso di darle assoluta libertà di parola. (269)
È impossibile non vedere come qui, in questa concezione della memoria come legame con la realtà, ci sia la soluzione che Lebedev propone al problema della “multistoricità” della società russa contemporanea, soprattutto per quanto riguarda il passato ricostruito e subordinato alla narrativa di un potere autoritario. Più si ricorda, più si è liberi, nei confronti di sé stessi in sia in quanto individui, sia in quanto parte di una società: questo sembra essere il messaggio sotteso alla storia del protagonista senza nome e di Nonno Due. La conclusione è affidata a questo brano de Il confine dell’oblio che, secondo la mia opinione, meglio riassume quello che per Lebedev è il senso della ricerca nel passato, e del ricordare ad ogni costo:
Noi non possiamo giudicare il passato che dalle testimonianze che lo riguardano e che esso ha conservato. Il passato è l’unico a poterci raccontare di sé. Solo che, non essendo scevro da lacune e contraddizioni, ci impone di cercare la verità celata al suo interno. Più che di parole, il suo racconto è fatto di lunghi silenzi, di vuoto. Il passato si dispone in strati non propriamente collegati fra loro. E nel caso in cui i sopravvissuti possano rivelare tutta la verità su quanto avvenuto un ventennio prima, essa si imprimerà nel tempo della sua rivelazione, diverrà un suo evento. Ma nei confronti del quadro di vent’anni prima, ormai costituitosi come immagine del silenzio, tale verità, per quanta forza morale possa aver acquisito quella sua voce, somiglierà più che altro a un “Ahinoi!”, a una precisazione, a una nota a piè di pagina. Un tempo menzognero, che ritocchi sé stesso a questo o a quello scopo, che si falsifichi, che fabbrichi un’epoca avvelenata dall’inganno, dove a mentire non siano soltanto i fatti, ma il suo stesso spirito, non farà che generare una memoria totalmente menzognera di sé. (157-158)
Note:
1. L’edizione di riferimento è S. Lebedev, Il confine dell’oblio, trad. Rosa Mauro, Rovereto, Keller 2018.
2. A. Etkind, Post-Soviet Hauntology: Cultural Memory of the Soviet Terror, in “Constellations”, vol. 16, n.1, 2009 pp. 182-200
3. K. O. Knausgård, “Alla ricerca della Russia”, in “Internazionale”, n. 1247, 16 marzo 2018, p.108