Figlie del Sole: principesse combattenti nella poetica di Marina Cvetaeva

Incontriamo nuovamente Marina Cvetaeva, questa volta con il poema intitolato La principessa guerriera, di recente pubblicazione per Sandro Teti Editore in traduzione e cura di Marilena Rea. La poetessa russa è fonte perenne di meraviglia; tra le parole che scorrono pagina dopo pagina si ritrovano le peculiarità della poetica di Cvetaeva e del suo stile anticonvenzionale, della sua sensibilità profonda e contraria ai dogmi e agli ideali preconfezionati e propinati acriticamente al lettore. Sfrutta sapientemente lo scenario fiabesco e il folklore popolare per inserire elementi di modernità e innovazione, dando, come è sua premura in ogni lavoro, la priorità alla caratterizzazione della donna, una donna che non è mai come ci si aspetterebbe, una donna che sfida e vince i limiti delle aspettative sociali e  segna il proprio percorso, autonomamente, a testa alta.

La protagonista della vicenda, dal nome Zar-fanciulla, forgia la sua femminilità in un principio solare attivo, che ricorda molto la travolgente e sensuale energia del dio pagano Jarilo. La sua femminilità, infatti, è caratterizzata dal colore rosso, legato al principio vitale del sangue e della carne (non dimentichiamoci che in russo l’aggettivo bello – краси́вый, ha la stessa radice di rosso, красный, nel senso di sano, dal viso che ha colore).

In opposizione a lei il suo amato, creatura notturna e figlio della luna, che appartiene a un mondo infero, malinconico e inconsistente come le trame di un sogno o di una visione provocata dai fumi di un fuoco sacro. È il poeta per eccellenza, o forse solo in potenza, che si muove in un mondo interiore, fatto di simboli e caos, in cui la materia non ha ancora una forma definita. Sarà la nostra guerriera a portare la fiaccola dell’amore, affrontando un viaggio difficile in cui dovrà scontrarsi con l’antagonista-serpe, il drago del mondo ctonio che imprigiona il principio femminino, in questo caso quello dello Zarevič.

La struttura del poema, dopo il prologo, si dirama in sei parti, tre notti e tre incontri che si alternano uno dopo l’altro, introducendo nuove situazioni in cui i personaggi cvetaeviani si trovano ad agire. Ci troviamo, in un tempo imprecisato, in un luogo imprecisato; colui che governa il regno – o meglio, che dovrebbe governarlo – è lo Zar, affiancato dalla moglie di secondo matrimonio, la Zarina, che fa a sua volta affidamento sul vecchio servitore. A questiyandex si aggiungono i due protagonisti, gli amanti, personaggi speculari l’uno all’altro: lo Zarevič, figlio dello Zar, figliastro della Zarina, e la Principessa guerriera, proveniente da terre lontane.

Già dall’inizio del poema possiamo intuire la presenza di due livelli di interpretazione: quello amoroso, e quello simbolico, veicolato dal linguaggio fiabesco e mitico. La principessa è il principio solare, che viene a inseminare col suo soffio vitale le forze assopite nel caos primordiale del mondo infero. Non a caso, la sua balia a lei si rivolge con le seguenti parole:

«Oh tu, mio Zar, Zar-fanciulla,
Zar-Incendio, Zar-Tempesta!
Con te le parole non valgono nulla,

pace non dai a questa vecchia.
Guardo la criniera dei tuoi ricci,
guardo la fiamma dei tuoi occhi:
non mi sembri nutrita dal mio latte,
ma dal sangue di leonessa selvaggia!
Appena sorge il giorno – abbatti i nemici,
poi a mezzogiorno – batti i boschi vicini,
quando cala la sera – cominciano le danze,
a mezzanotte – ti scoli bottiglie coi soldati.
Gli altri dormono, ma tu la sciabola affili,
gli altri – in chiesa, ma tu i cani cibi».

Dalla disperazione della balia capiamo che si tratta di una fanciulla al di fuori del comune: assume in sé la potenza dell’incendio e della tempesta, guida gli eserciti, combatte valorosamente i nemici, non conosce i buoni costumi e le buone maniere che qualsiasi fanciulla per bene dovrebbe far propri; ride sguaiatamente, si ubriaca con gli altri uomini, si presenta con un colombo sulla spalla sinistra e un gerafalco sulla spalla destra. A questa già inusuale presentazione della principessa, che nelle fiabe generalmente presenta caratteristiche diametralmente opposte, si aggiunge un altro elemento davanti al quale il lettore potrebbe trovarsi spiazzato: l’utilizzo del maschile. Alla condottiera non ci si appella con il titolo di zarina, principessa, ma Zar. In un atto estremamente rivoluzionario, sia dei canoni della fiaba, sia del pensiero del tempo (il poema è stato composto negli anni venti del Novecento), Cvetaeva non rispetta la rigida divisione di genere, volta le spalle al maschile e al femminile, plasma i suoi protagonisti a suo piacimento (e a sua immagine, nel caso di Zar-fanciulla), ignorando volutamente la stereotipizzazione cui sono ridotti i principi e le principesse nelle fiabe e i ruoli ad essi assegnati. Ma Marina si spinge oltre: non solo rompe i canoni prestabiliti, ma rovescia gli stereotipi, affidando alla protagonista, il Sole, con la sua chioma ricciuta e rossa lasciata libera sulla schiena, il ruolo del guerriero forte e valoroso che si mette in viaggio alla conquista del cuore del principe, lo Zarevič, la Luna, un musico, fragile, effimero, quasi inconsistente, che affida alla sua gusla – strumento musicale – l’intera sua esistenza.


Zar-fanciulla, infatti, sentendo dal suo regno la melodia prodotta dallo Zarevič, ne rimane incantata e decide di raggiungerlo per unirsi in matrimonio con lui; è lei, dunque, che mette in moto l’azione, che prende una decisione e agisce di conseguenza, soddisfacendo esclusivamente le proprie volontà. Il suo viaggio prospetta tre incontri – quelli in cui i versi sono raggruppati – che però non avverranno mai realmente; la tragedia dell’amore mancato, cara all’autrice russa, non poteva non essere presente anche in un poema che così tanto porta il suo marchio.
Esemplare il fatto che il motore dell’azione sia il canto dello Zarevič che, simile al canto di una sirena, sprona l’eroe – in questo caso l’eroina – a intraprendere un viaggio infruttuoso, che non porterà mai al congiungimento con l’oggetto del desiderio. Lo Zarevič, infatti, è uno sterile produttore d’amore, un Morfeo che tinge scenari voluttuosi e romantici, senza però aver mai fatto esperienza delle labbra di una donna. Per questo motivo il suo è un amore fittizio, costruito sulla mancanza e non dalla sensorialità del corpo e della mente altrui.


Lo Zarevič vive a palazzo con il padre e la matrigna; quest’ultima, la Zarina, personaggio tratto da un grande tradizione cui fa capo la tragedia di Fedra, si strugge per l’amore per il suo figliastro, che per lei, nutre un profondo disgusto. Durante la prima notte, troviamo lo Zarevič che dorme e la matrigna che cerca in ogni modo di avvicinarvisi e avere un contatto carnale con lui; ma questi, indifferente alle lusinghe e alle preghiere di lei, la scaccia via in malo modo:

Per il tuo letto solamente
Al mondo sono nata.

Ancella dello Zarevič,
non moglie dello Zar.
Scorticami pure viva!
Dammi in pasto ai cani!
O vuoi che ti meravigli
Con una trottola a sonagli?
Allo specchio – un incanto:
lo vedi che seno alto?
Forse vuoi le mie pupille
Per farti un gioiello raro?
Non chiedo niente in cambio!
Ma il figlio le dice:
Dai figliastri già grandi
non si intrufolano le matrigne.
Ti rassetto il cuscino?
Lo sistemo da solo!
Posso darti un aiuto?
Me la cavo da solo!
Più a sinistra? Più a destra?
Solo a vederti, ti odio!
Il tuo senno – con il suono
Si sarà perso nel mare-
Lo vedi che ho candide braccia?
Più bianca è la spuma di mare!
Lo vedi che seni succosi?
Seni o assi, per me è lo stesso!
Posso giacere insieme a te?
Il letto è troppo stretto!
Se è stretto, mi sfino come un giunco!
Le vesti me le sfilo, se danno impiccio!
Tutto, tutto voglio scordare questa notte:
sono schiava della tua anima – tua suddita!

È evidente l’ossessione distruttiva che infiamma la Zarina, la serpe, o Medusa, la sete di passione che le fa perdere il senno e la rende disposta a tutto pur di possedere lo Zarevič; per questo si rivolge al vecchio servitore, essere laido e meschino, dalle capacità camaleontiche, affinché metta in atto un sortilegio che la aiuti a realizzare i suoi desideri. Il vecchio le mostra inoltre l’incombente avanzare della guerriera, e questo spinge ad accelerare i tempi; le affida un ago, ordinandole di infilarlo nella sua carne fino a sanguinare. Questo spillo lui lo userà per pungere lo Zarevič ogni qual volta che sarà vicino alla principessa guerriera; in questo modo egli cadrà in un sonno profondo che gli impedirà di avere un contatto con la principessa fanciulla. Questi sono gli incontri che avvengono ma che non permettono agli amanti di realizzare la loro relazione; per tre volte la principessa guerriera si reca al capezzale dello Zarevič, lo inonda di tenerezza, con la sua solita personalità “mascolina”: “Farò di te un uomo vero”, dice al corpo addormentato del suo amato, piccolo come un bambino. Mentre lo accarezza, esclama:

Com’è piccino!
Fragilino!

Miserello!
Ha una divisa d’argento,
e che buffi riccioletti!
Che fa se è magrolino?
Di viso è tanto carino!
Scaccia una mosca con cura,
compara una mano con la sua.
Una crosticina secca!
Pane senza mollica!
La tua è una piumetta,
la mia mano è ferina!
I ditini delle mani
Sembrano incatenati.
La mano mia è nera
E non porta un anello!
La tua è buona a tessere,
la mia – a svellere querce!

Ridendo bonariamente del suo amato (“il pannolino, purtroppo, l’ho scordato, perdonami la svista, mio adorato!”), la principessa guerriera nota la differenza incolmabile tra di loro, tra le loro fisionomie e le loro vite, ma lo ama ancora di più, di un sentimento dolce e profondo, mai destinato a compiersi.

È in questa parte del poema che si nota un’amara ironia, forse involontaria, di Cvetaeva sull’incapacità di alcuni uomini e donne di saper coltivare le proprie aspettative amorose in un terreno fertile. La principessa è radiosa, forte, ma sta baciando col suo volto di sole una terrà che non darà frutti, poiché resa arida e sterile. La sua potenzialità verrà sprecata, poiché non può attecchire in un mondo immerso in un sonno di ferro, che non è altro che il regno dei morti in perenne decomposizione. La malattia che dimora le terre del sogno è filtrata fin nelle fragili ossa del principe, rendendogli ormai impossibile qualsiasi tipo di rigenerazione.

La Zarina, la serpe, come viene presentata già dall’incipit del poema, attua da parte sua ogni stratagemma possibile per raggiungere il suo scopo, la cui vera natura è quella di costringere lo Zarevicč a rimanere in un mondo ideale e incorporeo, dove la vita non si compie e non è che il ristagnarsi di fantasie e memorie che errano in un mondo di spettri. La Zarina è incarnazione del principio caotico, della donna mostro dalla maternità brutale, che stringe le gambe affinché suo figlio non fuoriesca dal suo ventre. È la strega al Sabba e la Succube demoniaca che sottrae l’energia vitale alle sue vittime-amanti. È opposta al principio della vita, poiché lei è il tutto in cui il caos dimora. A prova di ciò che la grottesca e raccapricciante immagine del sangue che, invece di essere rinnovato tramite una nuova vita, viene gettato a terra dove non potrà perpetrare l’esistenza dei vivi.

È così che la Zarina arriva, infine, a sposare lo Zarevič e a godere di un rapporto sessuale con lui, incatenato dalla volontà del padre, annebbiato dal seducente richiamo del vino. Lo Zar, il biscione – come sua moglie è serpe – è imprigionato nella cantina dove trascorre tutto il suo tempo, ormai privato di ogni capacità intellettuale; dovrà infine rispondere di questo al cospetto del popolo russo, che muore di fame. Personaggi secondari ma altrettanto importanti sono gli elementi naturali, antropomorfizzati, il Vento, in primis, innamorato della guerriera e che gioca un brutto tiro alla Zarina, traendola in inganno, e gli altri animali che si collocano sullo sfondo e commentano le vicende degli uomini infelici.
Infelici, perché nessuno otterrà l’oggetto del desiderio.

Un viaggio che dovrebbe essere di iniziazione, diventa invece un viaggio infranto in cui lo Zarevič è incapace di abbracciare il principio solare e assumere la consistenza della carne. Preferisce rimanere avvolto nel sogno di sé stesso e nella consolazione di una donna devota, ma che al tempo stesso non gli permette di ferirsi ed evolvere. L’opera alchemica non si compie, poiché manca l’interazione tra i due elementi, quello solare e quello lunare che, bollendo dentro un’ampolla, dovrebbero dare vita all’essere perfetto, l’androgino. Che cos’è alla fine l’amore se non un tendere alla perfezione? È il compimento dell’armonia, il settimo giorno in cui Dio ha perfezionato la sua opera. Attraverso l’unione degli amanti dovrebbe attuarsi il ritorno all’Eden, ma nell’opera di Cvetaeva l’imperfezione dell’animo umano rende impossibile il ricongiungimento con la nostra forma più pure. Rimaniamo così, esattamente come i personaggi del poema, intrappolati in un circolo vizioso di dolore che però non ci porta all’evoluzione.

Nonostante questo, nonostante la fine tragica di questa fiaba sui generis, il lettore farà fatica a non affezionarsi alla Principessa, a sorridere delle sue maniere, a stimarne l’intraprendenza e la forza, a essere inteneriti dal suo sentimento: una principessa, una guerriera, una donna a tutto tondo, la quale, forse proprio come Marina Cvetaeva, non ottiene l’amore sperato, ma, con fierezza e coraggio, noncurante dei pericoli e dei voleri altrui, galoppa all’inseguimento del suo sogno.

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