Gdje si bio ’91?, “dov’eri nel ’91?”: questa un’espressione ricorrente, ampiamente usata e abusata in Croazia, dove il mito della difesa della patria, che comprende anche lo smascherare i finti branitelji (“difensori”, con questa parola vengono indicati i veterani di guerra croati) o coloro considerati non abbastanza patriottici, impone ancora, a distanza di trent’anni, il porre questa domanda. È, questa domanda, una miccia che rianima ricordi, incubi, rammarico, ma anche orgoglio, per alcuni. Sono passati trent’anni esatti da quel tremendo 1991 in cui la Jugoslavia ha iniziato a sgretolarsi, prima lentamente, poi sempre più velocemente, fino al culmine, raggiunto un anno dopo con l’inizio della guerra in Bosnia. È necessario, però, procedere per gradi.
Il 1991, come periodo di crisi e di tensione, nonché come stato mentale, si può dire che sia iniziato già a metà 1990. Le elezioni democratiche svoltesi in Croazia tra l’aprile e il maggio di quell’anno videro vincere il partito dell’ex generale dell’esercito e, in seguito, dissidente Franjo Tuđman e il suo partito HDZ (Hrvatska Demoktratska Zajednica, Unione Democratica Croata). Il partito, che tendeva a strizzare l’occhio ai nazionalisti croati (che, in realtà, in seguito si dissoceranno da esso a causa delle sue visioni poco radicali), non poté non essere oggetto di controversie, specialmente presso la numerosa minoranza serba, concentrata nelle regioni di frontiera conosciute come Krajine (se si fa eccezione per la Slavonia orientale che, geograficamente e storicamente non rientra in esse) e già da qualche anno aizzata dal revival sciovinista del presidente serbo Slobodan Milošević e delle teorie grandi-serbe espresse nel famoso memorandum SANU del 1986, nel quale degli accademici serbi sostennero che il popolo serbo fosse minacciato costantemente e che necessitasse di riunirsi in un’unica e grande Serbia che comprendesse tutti i territori abitati da esso. Milošević, facendo leva sui traumi nazionali del popolo serbo, come ad esempio la Battaglia della Piana dei merli del 1389 in Kosovo (in cui i serbi furono sconfitti dagli Ottomani), e sulle sue paranoie, riuscì a risvegliare con successo una coscienza nazionalista nelle regioni abitate dai serbi, soprattutto in quelle situate all’infuori della madrepatria.
La fine degli anni Ottanta fu infatti disturbata dalla Rivoluzione anti-burocratica e dai controversi mitinzi istine (lett. “meeting/incontri della verità”) – veri e propri raduni rivolti alla popolazione serba organizzati in varie località e città della Jugoslavia in cui figure vicine a Milošević tentavano, attraverso discorsi spesso apertamente nazionalistici, di consolidare il potere del presidente serbo, ma anche dal braccio di ferro, iniziato in realtà già anni prima, tra leadership slovena e leadership serba. La Slovenia, repubblica più ricca e culturalmente più avanzata della Jugoslavia, aveva da sempre espresso insofferenza verso quel governo centrale che sfruttava le sue risorse e che le impediva uno sviluppo autonomo. Dopo la morte di Tito, avvenuta nel maggio 1980, gli sloveni smisero definitivamente di limitarsi al cauto dissenso che li aveva caratterizzati fino a quel momento, passando all’azione.
Slovenija, moja dežela fu il nome di una campagna di promozione turistica della Camera di commercio slovena. “La Slovenia è il mio paese, non la Jugoslavia” intendevano gli sloveni attraverso una pubblicità apparentemente innocente, ma con un significato sotteso che non voleva passare inosservato. Non sono poi da dimenticare gli infuocati articoli (possibili grazie alla libertà di stampa che la leadership slovena permetteva) della rivista della gioventù socialista Mladina contro il governo e, soprattutto, l’esercito. Risale al 1988 il cosiddetto “Processo contro i quattro” (Proces proti četverici in sloveno) o “Affare JBTZ” (dalle iniziali dei cognomi degli imputati: Janez Janša, Ivan Borštner, David Tasić e Franci Zavrl), che ebbe luogo in seguito alla pubblicazione sulla rivista Mladina di documenti segreti dell’esercito, in cui si parlava dell’arresto di giornalisti e dissidenti sloveni. Il gruppo punk Pankrti riadattò una vecchia canzone partigiana (Janez, kranjski Janez), rendendola un grido di protesta e di supporto per i quattro giornalisti. Il coro finale così recita: “Ivan, David, Janez, vi ste z nami danes!” (“Ivan, David, Janez, voi oggi siete con noi!”. Da notare come non sia incluso il nome di Franci Zavrl, perché questo fu arrestato solo in seguito all’arresto dei suoi colleghi).
Il processo ebbe una grossa eco in tutta la federazione jugoslava. In Serbia i quattro furono pesantemente criticati e accusati di nazionalismo, in Slovenia furono elevati al rango di eroi e il dissenso non fece altro che crescere. Per peggiorare le cose, il processo fu celebrato a Lubiana in lingua serbo-croata e non in sloveno, con l’obiettivo di umiliare gli imputati. La leadership slovena iniziò, dopo questi fatti, a organizzare una struttura parallela di intelligence e di paramilitari, conscia del fatto che presto lo scontro con Belgrado non sarebbe stato solo verbale, ma anche armato.
Se si escludono la parentesi dello scontro politico tra Slovenia e Serbia, il risveglio del nazionalismo serbo e le tensioni in Kosovo, che però già dal 1981 erano ormai quasi la normalità, fino al 1990 non ci sono grandi problemi. In Croazia le correnti nazionaliste e dissidenti si erano chiuse in un diligente e cauto silenzio, in Croazia conosciuto come hrvatska šutnja (per l’appunto “silenzio croato”), che ha le sue origini nella fallita Primavera croata del 1971. In quell’anno la corrente liberale del Partito comunista di Croazia, credendo di poter contare sul supporto di Tito, che già in passato, ad esempio nel ’68 con gli studenti in protesta, si era rivelato essere piuttosto accondiscendente, iniziò a rivendicare un’autonomia più ampia della Croazia. Pur volendo in realtà attuare il loro progetto autonomista all’interno della cornice della Jugoslavia socialista, i liberali croati riunitisi in quello che sarebbe stato conosciuto come Maspok (da masovni pokret, “movimento di massa”) furono accusati di nazionalismo e di deviazionismo, e per lo stesso motivo furono cacciati dal partito e sostituiti. Personalità come Mika Tripalo, Savka Dabčević-Kućar, Pero Pirker o Srećko Bijelić (quest’ultimo, oltretutto, di origine serba), vennero ostracizzati dall’arena politica, mentre tra la popolazione croata riscossero un grande successo e uno status pari a quello dei martiri. La Primavera croata fu però un’occasione per molti nazionalisti filofascisti di tentare una rivolta popolare. Questo tentativo, che doveva partire dalla Bosnia, venne soffocato sul nascere dall’esercito. Dopo questi avvenimenti, la Croazia sarà sempre nel mirino vigile della leadership federale e le voci del dissenso non si alzeranno più se non quasi un decennio dopo la morte di Tito.
Per tornare al 1990, a rappresentare una svolta sono le elezioni democratiche in Croazia. Già in periodo di campagna elettorale c’erano state tensioni tra gli esponenti dei partiti croati e del partito serbo SDS (Srpska Demoktratska Stranka, Partito Democratico Serbo), i comuni serbi della Krajina di Knin (Dalmazia interna e Lika) avevano già organizzato un’unione intercomunale e già in alcuni villaggi erano comparse ronde armate, ma fu dopo la fine delle elezioni che le cose presero la piega sbagliata. Come ci suggerisce Jože Pirjevec in Serbi, croati e sloveni, la storia della politica croata è caratterizzata da un atteggiamento impulsivo e incauto dei suoi rappresentanti, che talvolta sfocia nell’aggressività aperta. Il 1990 ne è un esempio paradigmatico: probabilmente non conscio del fatto di avere una minoranza (quella serba) già infervorata e resa nervosa dalla propaganda di Belgrado, pronta ad armarsi in caso di minaccia, e di avere il territorio costellato di caserme dell’esercito federale, le cui posizioni più alte sono generalmente controllate dai serbi, Tuđman si rende responsabile di maldestre mosse politiche e di incomprensioni. Vinte le elezioni, viene promossa una politica in cui sono i croati ad esser privilegiati, in cui molti serbi perdono il posto di lavoro (soprattutto nelle cariche pubbliche e nella polizia, fino ad all’ora composta per quasi la metà da serbi) e in cui viene introdotta la nuova bandiera croata comprendente la šahovnica, la scacchiera bianco-rossa simbolo dei croati fin dal Medioevo.
I serbi delle Krajine, impauriti da queste mosse politiche (noncuranti oltretutto del fatto che, ad esempio, la šahovnica fosse lo stemma ufficiale della Croazia anche nella cornice della Jugoslavia socialista) e sospettosi di un ritorno dello Stato Indipendente Croato guidato dai fascisti croati, gli ustaša, che durante la Seconda guerra mondiale avevano messo in atto una pesante pulizia etnica ai danni dei serbi, si ribellano. Il 12 maggio, una settimana dopo le elezioni, indicono un referendum per decidere se rimanere sotto la sovranità croata o se staccarsi e unirsi alla Jugoslavia. A ciò segue la Balvan revolucija, la rivoluzione dei ceppi, avvenuta il 17 agosto dello stesso anno, nel pieno della stagione turistica, che vede spuntare sulle strade in prossimità dei comuni e dei villaggi abitati da serbi barricate, spesso formate da tronchi d’albero o da pietre e accompagnate da guardie armate. Iniziano gli agguati, i rapimenti, gli omicidi. Il 23 novembre viene ucciso nell’entroterra zaratino il poliziotto serbo Goran Alavanja, che indossava l’uniforme della polizia croata, per mano degli abitanti di un villaggio serbo. A ciò si aggiunge la Costituzione del dicembre 1990, nella quale i serbi non vengono più definiti popolo costituente, ma minoranza, il che fa inalberare la popolazione serba di Croazia. Ha inizio una crisi che presto, in un’escalation di fatti inarrestabile, sfocerà in guerra.
Il braccio di ferro tra Knin, dove il governo croato, pur provandoci durante il tentativo fallito di inviare nella città le forze speciali della polizia, a rimettere più piede, e Zagabria è iniziato, ma buona parte della popolazione spera ancora nella normalità. Durante la trasmissione di capodanno della rete televisiva Yutel il presentatore Goran Milić, dopo aver ascoltato le preoccupanti notizie sullo stato delle cose a Knin e nel Kosovo, dice con fare bonario: “È incredibile questo nostro paese! Deprimente Knin, deprimente il Kosovo, ma da Priština in solo un’ora d’auto potete arrivare a Skopje, dove Babbo Natale ha portato i regali ai bambini […]”. Le parole del presentatore sono lo specchio del pensiero che la popolazione in generale aveva all’epoca: non scoppierà la guerra, sono tutte piccolezze, finirà tutto. Il 1991 inizia però nel peggiore dei modi: TV Belgrado rende pubblico un filmato girato dai servizi segreti in cui il politico e militare croato Martin Špegelj parla con degli agenti dei servizi di controspionaggio in incognito sul suo tentativo di comprare armi segretamente (nel 1990 la Difesa territoriale croata era stata obbligata infatti a consegnare tutte le proprie armi all’esercito federale), per formare delle formazioni armate croate che, in caso di guerra, dovranno difendere il paese. Belgrado sfruttò abilmente il filmato (in realtà in gran parte poco udibile, fatto “risolto” con l’utilizzo di sottotitoli probabilmente creati di sana pianta) per convincere l’opinione pubblica serba del fatto che i croati stessero effettivamente preparandosi ad una guerra contro i serbi, alla quale sarebbe seguita una pulizia etnica.
I primi giorni del marzo 1991 a Pakrac, città della Slavonia occidentale abitata per metà da serbi e per metà da croati, dopo il tentativo di poliziotti e paramilitari serbi di impadronirsi della stazione di polizia della città, ha luogo uno scontro armato tra reparti speciali della polizia croata e ribelli serbi, che termina con una vittoria delle forze governative croate che riescono a mantenere il controllo della città. Per miracolo non ci sono morti, nonostante la propaganda di Belgrado tenti di far passare la notizia secondo cui quaranta serbi, pope ortodosso incluso, siano stati uccisi dai croati – notizia rivelatasi falsa. Aumentano sempre di più gli attentati dinamitardi, i rapimenti. Intorno a Vukovar, in Slavonia orientale, al confine con la Serbia, sono sempre più evidenti le tensioni etniche. La popolazione, tuttavia, continua a sperar bene, in Croazia come in Bosnia, dove, similmente a quanto avvenuto in Croazia, nelle aree abitate dai serbi spuntano le prime barricate. La frase che tutti si dicono è “speriamo che non ci scappi il morto”. Il morto poi ci scappa veramente, però. A Pasqua, nel Parco nazionale dei Laghi di Plitvice, durante uno scontro tra ribelli serbi e polizia croata muoiono un poliziotto croato e un serbo. Tredici è invece il bilancio della giornata del due maggio 1991, che segna un vero e proprio punto di non ritorno. A Borovo Selo, vicino Vukovar, villaggio ormai nelle mani dei ribelli serbi e di volontari nazionalisti provenienti dalla Serbia, vengono massacrati dodici poliziotti croati, i cui corpi vengono selvaggiamente mutilati. Nell’entroterra di Zara lo stesso giorno muore il poliziotto croato Franko Lisica. Ne deriva, da questi episodi, un’ondata di violenza antiserba in varie città croate: a Vukovar saltano in aria vari locali serbi, a Zara avviene una vera e propria Kristallnacht contro le case e i negozi dei serbi.
La guerra è iniziata, ma molti non lo accettano ancora. Rappresenta questo, come tutta la prima parte del 1991, un motivo di grande rimpianto tra i croati. C’è chi si strugge, pensando che forse le cose si sarebbero potute evitare, che si sarebbe potuto dialogare, che tanto, alla fine, la guerra non è servita a nulla. Altri invece pensano che il punto di non ritorno fosse già stato oltrepassato da tempo e che si sarebbe dovuto agire da subito, con fermezza.
Quella del 1991 è un’estate strana. La corta guerra in Slovenia sancisce l’indipendenza di quest’ultima, dichiarata assieme alla Croazia il 30 maggio, dopo una disastrosa performance militare dell’esercito federale, che manda in Slovenia reclute diciottenni e sbarbate che non sanno perché vanno a combattere, né hanno intenzione di farlo. “Loro è come se volessero staccarsi e noi è come se volessimo impedirglielo”, dice la giovane recluta Bahrudin Kaletović durante una storica intervista per la YUTEL, “che cazzo ne so, noi vogliamo solo tornare nelle caserme, vogliamo tornare a casa”.
La Jugoslavia è sconvolta davanti alle immagini di quei giovani sbarbati messi di fronte ad una guerra che non solo non si aspettavano, ma che l’esercito di cui facevano parte si stava dimostrando in capace di affrontare. Le televisioni di ogni repubblica mostrano ragazzi poco più che diciottenni piangere, disperarsi e arrendersi in massa pur di tornare a casa dalle proprie madri. In Croazia la guerra in Slovenia viene oggi vista, a distanza di anni dalla fine delle guerre jugoslave, come un preludio di ciò che sarebbe accaduto presto anche in patria, solo in maniera molto peggiore. Già a giugno le granate cadono nelle zone intorno a Vukovar, dove iniziano ad essere frequenti gli omicidi di matrice etnica e dalla quale i bambini vengono evacuati in Istria “finché la situazione non si calmerà”, per poi tornare appena un mese dopo, non consci di quanto sta per accadere. La gente va al mare come sempre, con forse quella sensazione strana che le fa fiutare il rischio che l’osserva dietro l’angolo, ma si prova a non pensarci.
Tuttavia, a Knin è impossibile ormai arrivare dalle parti di Croazia sotto il controllo di Zagabria, le sparatorie si fanno sempre più frequenti, i servizi del telegiornale che mostrano i corpi senza vita di altri poliziotti uccisi durante un agguato scorrono regolarmente negli schermi televisivi. È palpabile la netta separazione che si è creata tra croati e serbi, quest’ultimi già in procinto di lasciare le proprie case, un po’ per via delle frequenti minacce, un po’ per raggiungere i propri connazionali che in collina, nelle foreste, nei sobborghi di alcune città stanno già organizzandosi per lo scontro ormai inevitabile. La popolazione comunque trova in parte ancora il modo di sperare in bene. Mentre a sud di Zagabria, nelle regioni collinari della Banija e del Kordun, ma anche in Slavonia già si spara, si muore, c’è ancora chi sostiene che no, non può essere possibile una guerra con l’amico storico, il vicino di casa, il conoscente.
Ad agosto è guerra aperta, però. L’esercito federale, fino a quel momento mediatore tra le parti, apertamente appoggia la ribellione serba. Iniziano la battaglia di Vukovar, l’assedio del villaggio croato di Kijevo, nell’entroterra dalmata, cadono e bruciano i villaggi dalla Dalmazia alla Slavonia. “Ej moj druže beogradski, Slavonijom sela gore, ej moj druže beogradski, ne može se ni na more” (“Ehi mio compagno belgradese, bruciano i villaggi in Slavonia, ehi mio compagno belgradese, non si può neanche andare al mare”) canta il croato Jura Stublić, leader dello storico gruppo Film, nella canzone Ej moj druže beogradski, forse la più conosciuta canzone contro la guerra in Jugoslavia. A settembre il governo croato, in piena crisi per la mancanza di munizioni con cui è necessario rifornire un disorganizzato e male armato esercito, ordina un attacco generale alle caserme dell’esercito, portando la guerra in tutto il Paese, anche al di fuori delle aree reclamate da quella che ora si fa chiamare Republika Srpska Krajina, Repubblica della Krajina serba. Vengono attaccate senza sconti le belle città dalmate di Zara, Sebenico, Spalato, Dubrovnik; Osijek, Gospić e Karlovac sono sul punto di cadere; Pakrac viene nuovamente attaccata con ogni mezzo possibile e la situazione è resa complicata dal fatto che la linea del fronte passa proprio dalla periferia della città, sfiorandone le prime case; a Zagabria cadono le prime bombe e l’aviazione federale tenta di uccidere, con un attacco aereo, il presidente Tuđman. Cominciano anche i massacri, le vendette. Ovunque entrano, i paramilitari serbi uccidono. Nelle città croate i serbi rimasti temono le ritorsioni dei loro vicini croati, che spesso sfociano in omicidi, in deportazioni, in massacri. A Sisak, a sud di Zagabria, centinaia di serbi scompaiono per non tornare mai più. A Zagabria, agli inizi di dicembre, la famiglia serba Zec viene quasi interamente massacrata da un commando improvvisato di soldati croati. Cadono a novembre Vukovar e il villaggio dalmata di Škabrnja – in entrambi hanno luogo indicibili massacri. Vukovar è rasa al suolo, invasa da orde di paramilitari, spesso ubriachi, che fanno rabbrividire anche i soldati dell’esercito federale e che, frustrati dopo mesi in cui non sono riusciti a piegare la resistenza croata, uccidono senza pietà. In Bosnia iniziano i primi scontri e due villaggi croati sopra Dubrovnik vengono dati alle fiamme.
Il 1991 termina con un bilancio spaventoso: sebbene i croati siano riusciti a contenere l’avanzata dell’esercito federale e dei ribelli serbi, il paese è tagliato a metà all’altezza di Zara, sul ponte di Maslenica, e occupato per buona parte della sua superficie; l’esercito croato è stremato e senza munizioni, il paese è in ginocchio a causa dell’enorme quantità di profughi da gestire e dei gravissimi danni materiali. Tuttavia, nel corso degli ultimi mesi del 1991, l’esercito croato passa dalla difensiva all’offensiva attraverso piccole operazioni di liberazione su scala locale che hanno un discreto successo e capisce di esser riuscito a mettere in difficoltà quella che era considerata la terza potenza militare europea, che ha ora a che fare con le proprie reclute sempre più demotivate, con un preoccupante fenomeno di diserzioni di massa e col suo imminente collasso, causato da ormai sempre più frequenti divergenze interne.
È un anno dall’eredità pesante, il 1991, perché nella memoria croata esso è l’anno della sofferenza, della perdita di ogni certezza, della lotta fino all’ultimo sangue. Si può dire che si tratti di un grande trauma collettivo, nazionale. Trauma che viene spesso e volentieri usato nella maniera più fantasiosa per raccogliere consensi o per giustificare le proprie azioni da varie personalità, politiche e non. Oggi, a trent’anni esatti da quell’indimenticabile anno, non manca, come si suggeriva prima, chi usa quella cifra per giustificarsi, per avere prestigio, per provare la propria fedeltà alla patria. E si chiede con aggressività e insistenza fastidiosa quel famoso “gdje si bio ’91?”, “dov’eri nel ’91?”, a chiunque osi violare la sacralità di quell’insieme nefasto di eventi che ora è elevato a status di mito nazionale, a chiunque osi insinuare che, forse, vanno ammesse le colpe di entrambe le parti, che ci sono stati dei risvolti poco chiari e oscuri nella mitica difesa croata (come ad esempio il caso della difesa di Vukovar, sulla quale si sa ormai da tempo che il presidente Tuđman abbia ignorato le richieste di aiuto dei difensori locali, in modo da concentrare su quella città il grosso delle truppe nemiche e far prendere respiro al resto della Croazia), che, forse, una soluzione alternativa si poteva trovare. È curioso tuttavia notare come questa domanda rappresenti spesso un interessante modo per avviare un discorso tra due veterani che non si conoscono tra loro, per scoprire di avere esperienze simili o in comune, per farsi forza a vicenda attraverso il ricordo. Potenzialmente questa domanda potrebbe essere uno spunto per trovare coesione, per superare assieme i traumi e le ferite del passato, ma perché puntare sul sanare le ferite di una popolazione di veterani sempre più anziana e sempre più depressa (esiste, infatti, un serio problema di suicidio tra gli ex combattenti), quando si può puntare sul mito del 1991?
A rafforzare questo mito, tra le altre cose, c’è il puntuale, ogni giorno prima del telegiornale, TV Kalendar della televisione di stato croata (HRT) che quotidianamente ricorda agli spettatori i fatti salienti di quella che oggi è chiamata Domovinski rat, Guerra patriottica, con un linguaggio ancora intriso della terminologia che la propaganda croata (non meno opprimente e fantasiosa di quella di Belgrado) amava usare già durante la guerra. Jugokomunisti, srbočetnici, teroristi, goloruki branitelji (lett. “difensori a mani nude”), questi i termini che caratterizzano il lessico utilizzato in Croazia per descrivere gli eventi bellici dei primi anni Novanta. La guerra, suggeriva Ante Perković nel suo libro Sedma republika, è terminata nel senso militare del termine, ma non in quello politico, economico e soprattutto sociale. Il 1991 non è iniziato nel 1990, come si è voluto suggerire qui in questo articolo, e terminato nel 1995 a Knin, quando i croati riconquistarono la città, ma continua ancora oggi. Continua nei concerti del cantante croato apertamente nazionalista Thompson, che celebra il genocidio dei serbi durante la Seconda guerra mondiale e la purezza etnica dei Croati, ergendosi a voce del peggior nazionalismo; continua nei discorsi, nelle rivendicazioni politiche e nell’aggressività di quei branitelji che coi propri traumi personali non hanno mai fatto pace; continua con la mancanza di un vero confronto con la componente serba, diminuita spaventosamente dopo il 1995.
Come stato mentale, come mood, il 1991 a trent’anni di distanza non se ne è andato perché ancora persistono quel soffocante patriottismo e quel becero militarismo che caratterizzavano la Croazia all’epoca. Con piacere quelli che all’epoca erano bambini ricordano le figurine collezionabili della rivista Hrvatski vojnik (“Soldato croato”), le canzoni patriottiche che la televisione mandava incessantemente. “Mi smo garda hrvatska, srca su nam junačka, nikog se ne bojimo, zemlju svoju volimo” (“Noi siam la guardia croata, eroici sono i nostri cuori, paura di nessuno non abbiamo, la terra nostra noi amiamo”) o “Prelijepa domovina, bit će opet slobodna, to je zemlja Hrvatska, i od Boga i Alaha!” (“Meravigliosa patria, sarà di nuovo libera, è la terra di Croazia, e di Dio e di Allah!”), ma anche “Jugo-vojska mora znat: Hrvatska će dobit rat, uza nas su svetinje, a s kime su prokletinje?” (“Lo Jugo-esercito deve sapere: la Croazia vincerà la guerra, con noi sono i santi, e con chi è che sono i demoni?”) cantavano grandi e piccini, al ritmo di marcette militari che ricordavano molto quelle dell’esercito tedesco durante la Seconda guerra mondiale.
Se nel 1991, però, l’impeto patriottico e lo sforzo bellico erano dedicati alla ricerca di un’agognata indipendenza e allo sconfiggere l’“oppressore jugocomunista”, oggi lo scontro si è spostato sul fronte interno: chi era veramente un difensore della patria e chi si è solo approfittato della situazione? Chi fino al giorno prima era un fervente comunista e poi si è furbamente mischiato tra le file dell’HDZ? Chi fino a prima del fatidico anno non sapeva farsi il segno della croce e poi si è riscoperto fervente cattolico? Chi oggi parla di Croazia, ma nel momento più difficile se ne è andato via dal paese? La classe politica e la popolazione non sono evidentemente mature e pronte ad affrontare nella maniera corretta la questione, complice anche lo scarso interesse di buona parte delle nuove generazioni, le quali o sono disinteressate all’argomento o abbracciano il patriottismo cieco e becero tramandato dalla famiglia, unendosi allo scontro già citato. È un tutti contro tutti, che durante questo 2021, dal quale bisogna aspettarsi gloriose celebrazioni e manifestazioni atte a commemorare l’anno più difficile della Guerra patriottica, come viene definita, sarà sicuramente ancor più attuale e tornerà, più forte e insistente che mai, quel “gdje si bio ’91?”.
Bibliografia:
Ante Perković, Sedma Republika – Pop kultura u YU raspadu, Zenit, 2011.
Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, Il Mulino, 1995.
Jože Pirjevec, Il Giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992: storia di una tragedia, Nuova Eri, 1993.