Il canto infero: Tom Kuka e la morte come espressione della vita

Quando si cerca di rivendicare la dignità della letteratura esteuropea, specialmente balcanica, di fronte agli occhi del lettore occidentale, ci si ritrova sempre in una certa situazione di difficoltà. In quello che è stato il mio – personale – percorso attraverso la letteratura dell’Est, ho notato che spesso il suo è un movimento che sfocia dal basso e si sviluppa verso l’alto. Ciò che voglio dire è che la creazione letteraria scaturisce da un dialogo con le viscere, dalla brutalità della vita quotidiana raccontata senza filtri e artifici retorici. È una letteratura “nuda”, che ha le sue origini da quelli che sono i più spontanei e profondi mezzi di espressione del genere umano, il canto e, sua figlia, la poesia.

Se la letteratura occidentale ha la tendenza – che non significa essere la norma – di svilupparsi dall’alto verso il basso, nascendo cioè da una dimensione aerea, fatta di idee e concetti per poi concretizzarsi sul piano del vissuto umano, in quella balcanica troviamo una continuità con quei mezzi espressivi che nascono dalla socialità. In questo modo la letteratura balcanica mantiene una dimensione corale, in cui lo scrittore si fa portavoce di infinite vite e situazioni. Questa differenza tra letteratura occidentale e letteratura balcanica non è qualitativa. L’intento è cercare di integrare nel più ampio quadro della letteratura europea una tipologia di narrazione che finora è stata tenuta poco in considerazione.

Ad affiancarsi al discorso della continuità con il movimento che dal basso si sviluppa verso l’altro c’è anche l’uso della veste fiabesca. Molti scrittori albanesi si sono serviti di questa forma di narrazione per veicolare il proprio racconto, il più conosciuto da noi è forse Ismail Kadarè, il cui Palazzo dei sogni rappresenta la più potente fiaba scritta non solo contro il regime comunista, ma anche contro la perdita del pensiero autonomo, in cui la continua e costante manifestazione verso l’esterno della vita psichica interiore corrisponde alla perdita totale del proprio io.

La menzione a Kadarè può aiutarci a comprendere meglio le ragioni di questo stretto legame della letteratura albanese con l’elemento folclorico: in un paese come l’Albania, spesso soggetto al controllo di forze straniere e regimi totalitari, l’unico modo sicuro di veicolare racconti era sfruttare la forma della fiaba. Il linguaggio simbolico del mito ha permesso così agli albanesi di tramandarsi informazioni, sapere e critica senza essere censurati. Se nel nord dell’Albania prevale nelle favole gheghe la vita a stretto contatto con la natura e con i draghi che la abitano, spesso espressione della violenza umana, nel Sud, come osservato da Eqrem Çabej, è la vita borghese a emergere e a essere esposta.

La dimensione fiabesca diventa così una delle principali forme di narrazione, tuttora utilizzate dagli scrittori albanesi. Fra questi c’è Tom Kuka, pseudonimo di Enkel Demi, giornalista e scrittore che esordisce nel panorama letterario nel 2016 con l’opera Hide mbi kalldrëm. Verrà premiato nel 2019 per la sua seconda opera, Gurët e vetmisë. È la sua terza opera, L’ora del male, su cui ci concentreremo oggi. Numerosi sono gli spunti che incantano in questo racconto dalle tinte oscure. Il primo è quello del primo versamento di sangue, immagine che nel mito – come per esempio quello greco, ma non solo – è spesso presente.

Sali Kamati, protagonista della vicenda,  si ritrova infatti costretto a vendicare l’assassinio del fratello, con la consapevolezza che il suo atto armerà a sua volta altre mani. Il tema del sangue versato non è nuovo nella letteratura albanese e la sua così ampia presenza è dovuto a un aspetto culturale dell’Albania, quasi del tutto estinto fatta eccezione per le isolate zone di montagna. Stiamo parlando del Kanun, una serie di leggi non scritte che regolano la vita di una comunità.

La ragione (e con lei la sopravvivenza) di questo codice è data dall’antica struttura sociale presente nel nord dell’Albania. Per mantenere ordine tra i vari fis (clan), venne istituito il Kanun, che puniva l’assassinio di un uomo tramite l’uccisione diretta dell’assassino o dei parenti maschi dell’assassino da parte di un membro maschile della famiglia lesa. Da notare che il Kanun vieta di attuare la vendetta sui membri femminili, poiché uccidendo una donna si andrebbe a toccare un’altra famiglia non direttamente legata a quella dell’assassino, innestando così un’infinita catena di vendette e morti.

L’unico modo per gli uomini di sottrarsi alla vendetta era rimanere in casa fino a che la famiglia della vittima lo reputava necessario. Se si fosse sopravvissuto alla vendetta, si sarebbe affermato che l’arma aveva perdonato l’assassino. A quel punto si considerava la vendetta attuata e non si poteva più uccidere l’assassino.  Per questo motivo la letteratura albanese è permeata dal motivo della vendetta. A fornirci un esempio è di nuovo Ismail Kadarè con il suo Aprile spezzato, dove per sottrarsi alla morte un giovane si nasconde in un monastero, in attesa che il tempo della vendetta si esaurisca.

A muovere veramente la vendetta però è la questione dell’onore, su cui il Kanun è basato, e della maldicenza, splendidamente analizzata da un’altra scrittrice albanese, Ornela Vorpsi, nel suo Il paese dove non si muore mai. L’importanza di mantenersi immacolati – specialmente per le donne – è fondamentale alla sopravvivenza in una società la cui lingua è più affilata di una lama e può decidere le sorti di un uomo. Nell’opera di Kuka, l’onore e la maldicenza decidono la sorte del protagonista, Sali Kamati, che si vede costretto a riscattare la vita del fratello.

 

Lì c’erano le cicatrici lasciategli da tutte le malelingue.
“Gli hanno ucciso il fratello e non lo vendica…”
“Va bene lui, ma non permette neanche ai suoi nipoti di vendicarlo…”
“Che schifo d’uomo!”
“Codardo come le lepri della Sassaia!”
“Vuota la sua casa e sterile anche il suo spirito…”
Tutte queste parole erano incise sulla schiena di Sali Kamati; sua moglie stava cancellando tutto con cura, mentre lui restava in silenzio.

 

A questa immagine di calma apparente si contrappone un’immagine molto forte, quella del canto degli uccelli. Il senso di liberazione di Sali Kamati è illusorio, perché il cielo sopra di lui ha già emesso la sua sentenza attraverso quella che è la voce degli uccelli, figure onnipresenti in favole e miti, annunciatori di morte o aiutanti che mettono in guardia dai pericoli. Basti pensare agli affascinanti quanto sinistri Sirin, uccelli con la testa di donna che se uditi possono condurre alla morte.

Il canto degli uccelli non è sempre un canto veritiero: è un canto che confonde, che inquina i pensieri e alimenta l’odio e il rancore. All’interno del mito gli uccelli sono spesso al servizio del caos, corrispondono all’archetipo del trickster, che con astuti giochi di parole inganna l’interlocutore. In realtà, dietro il complesso intreccio di parole si vuole mettere alla prova l’uomo, misurandone l’intelligenza e la morale. Nell’opera di Kuka gli uccelli assumono un ruolo simile alle streghe del Macbeth che, senza mai mentire, traggano in inganno il protagonista, che cedendo alla sua sete di potere sceglie la via dell’assassinio. L’azione di Macbeth e il versamento di sangue sono l’unico modo di riaffermare un nuovo equilibrio che passa attraverso la profezia delle streghe. In modo analogo si muovono gli uccelli nel racconto di Kuka:

 

Andarono dalla madre e le dissero
che Çelo era stato ucciso…
oh vi prego, oh vi prego…

 

Il canto degli uccelli verrà, purtroppo, frainteso, poiché queste creature non conosco confine tra lo spazio e il tempo, tra ciò che accade oggi e ciò che sta accadendo domani. Il loro canto gioca di sovrapposizioni, anticipa avvenimenti che non si sono ancora verificati – quanti colpi di pistola? – e confonde chi li ascolta. In modo analogo, l’eroe delle saghe nordiche Sigurdr fraintende il canto degli uccelli e non riconosce la sua vera sposa, finendo così per perdere la vita.

L’altro elemento profetico – nel senso che anticipa ciò che avverrà al protagonista – è l’arrivo di Tusha, nipote di Dirja. Il ruolo di Tusha si riallaccia a una più antica e onnipresente figura che, con molta probabilità, dall’Oriente si è fatta strada fino alla Grecia e all’Albania, quella della “più Bella del Mondo”. Si tratta di una figura letale che, nonostante la sua bellezza solare, abita le segrete di un mondo sotterraneo. A nulla serve addentrarsi nel mondo ctonio per ottenerla, perché questa fugge, senza mai lasciarsi prendere. La più Bella del Mondo è una donna infera, irraggiungibile, il cui unico scopo è condurre gli uomini verso la loro rovinosa fine. Nonostante ciò, gli uomini la seguono, per sottrarsi al soffocante gioco di una vita condotta in superficie. Per Sali Kamati l’aspettativa e la maldicenza diventano un insostenibile beccare, che di giorno in giorno consuma la carne, fino alle ossa.

Tusha è una Persefone, è appena bambina, è vergine e passa le giornate a giocare, ignorando ago e filo e altre attività che sarebbero previste per lei. Esattamente come Persefone, però, è regina degli inferi. Legarsi a lei vuol dire intraprendere una terrificante discesa senza ritorno nel mondo sotterraneo; ma Sali Karmati decide di amare Tusha, ben consapevole di ciò a cui sta andando incontro. Riscattare il fratello non lo ha reso un uomo libero come avrebbe pensato, lo ha solo reso apatico e infelice. Da notare come anche all’interno del già menzionato romanzo di Kadarè, Aprile spezzato, il tema amoroso si interseca profondamente a quello della morte: il protagonista sceglie di abbandonare il suo rifugio sicuro poiché non accetta di vivere senza poter vedere un’ultima volta la donna di cui si è innamorato.

Arrivati a questo punto sono numerose le conclusioni che si potrebbero fare. Qual è il finale più auspicabile? Seguire la Bella nel mondo ctonio o rinunciare alla ricerca e costruire alte mura attorno al cuore? Forse è arrivato il momento per me di sbilanciarmi e di dire perché preferisco la letteratura albanese rispetto ad altre. Perché mi ha sempre dato la risposta giusta, una risposta che passa attraverso il mito e che ha fatto suoi gli insegnamenti delle fiabe e delle favole, riconoscendone le tracce in quella che è la vita di tutti i giorni. La letteratura albanese non si è mai staccata da quello che è il vissuto interiore di ogni uomo e le dinamiche che regolano i legami, e Tom Kuka ce lo ha ricordato in questa sua splendida fiaba moderna, dove la risposta alla nostra domanda è affidata all’Ora, che non è altro che la Morte.

La discesa agli inferi è fondamentale se si vuole ottenere la vita: fino a quel momento, altrimenti, non esisterà nulla, solo un trascinarsi in avanti senza consapevolezza alcuna.

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