La Russia è una nazione con una caratteristica intrinseca: è il Paese dei contrasti, dove luci e ombre regnano sovrane. Nelle varie narrazioni culturali che la riguardano, vengono spesso ricordate le patine dorate, l’epoca gloriosa della storia russa, gli zar, le zarine, ma mai i lati più torbidi. In questo articolo proveremo pertanto а sdoganare le narrazioni più sgradevoli della perestrojka e dell’epoca post-sovietica, dove il sordido e il nero diventano protagonisti indiscussi di alcune delle pellicole più interessanti della cinematografia di fine millennio.
Per comprendere i nuovi canoni cinematografici è bene tenere a mente la serie di cambiamenti politici e il fervore culturale degli anni Ottanta, perché fu proprio in questa situazione che si assistette alla fioritura e alla rinascita della settima arte, che versava da tempo in una condizione di sterilità. Punto di svolta fu il V Congresso dell’Unione dei Cineasti dell’Unione Sovietica di maggio 1986: un evento di importanza epocale, in cui vennero criticati aspramente i “generali cinematografici”, la forte e stringente burocrazia, i giochi dell’apparato statale, il nepotismo e il protezionismo che vigevano in maniera forte e che avevano limitato per molto tempo l’attività politico-culturale della Russia. Quel “maggio radioso” fu un barlume di speranza che fece rinascere l’arte cinematografica: vennero riconsiderate le pellicole che da anni giacevano sugli scaffali, vennero richiamati quei registi che per un lungo periodo erano stati costretti all’emigrazione a causa della censura (che poteva essere per pornografia – anche se il termine stesso ha dei confini molto opinabili a causa di una discutibilissima morale quasi vittoriana – , diffusione dei segreti di Stato o militari e promozione di guerra o conflitti etnici). In base alle decisioni della censura, i film venivano poi divisi in quattro criteri di appartenenza: film da “scaffale” o полочное кино (rifiutati categoricamente), film rilasciati ma con grandissimi tagli, film diffusi in maniera scarsa, film bloccati ancor prima di essere girati.
Prima di passare all’incontro con Balabanov, è bene cercare di collocare la sua arte in un contesto ben preciso. È possibile infatti dividere la storia russa del cinema in alcuni macroperiodi: commedia staliniana, periodo della cine-anemia, cinema del disgelo, della stagnazione e il nuovo cinema nato nel 1985, a cui seguì il periodo di cine-amnesia; negli anni la produzione però fu segnata da due crisi importanti: la prima è quella definita малокартинье (malokartin’e, penuria di film durata dal 1945 al 1953), la seconda quella della cine-amnesia, in cui i russi fondamentalmente avevano smesso di andare al cinema e usufruire di quel prodotto culturale. La crisi degli anni Ottanta fu quella peggiore, e fu atipica proprio perché le persone iniziarono a disinteressarsi del cinema e non vedevano in alcun modo una possibilità di ripresa. Inoltre, ci fu anche il problema dello Stato che non aveva nessun tipo di fondi né tantomeno il desiderio forte (o meglio, l’interesse politico) di creare una nuova ideologia tramite un medium culturale, il cui status era andato degradandosi nel tempo. Se durante l’epoca staliniana il motto era “poche immagini – molti spettatori”, la crisi alle porte del nuovo secolo cambiava il principio in “pochi film – nessuno spettatore”.
Passando ora ai temi ricorrenti e al percorso artistico di Balabanov, è bene soffermarsi su alcuni aspetti della sua vita. Il regista nasce nell’attuale Ekaterinburg (all’epoca Sverdlovsk) e la sua formazione fu tutt’altro che cinematografica: studiò infatti alla facoltà di traduzione per diventare interprete di guerra, ma due anni dopo la laurea iniziò a muovere i primi passi nel mondo del cinema. All’età di ventisei anni girò il suo primo corto “Раньше было другое время” (Allora erano tempi diversi), una pellicola low-budget girata in un ristorante con protagonista il gruppo Nautilus Pompilius. Era un lavoro molto rudimentale, a cui si aggiunsero “У меня нет друга” e “Настя и Егор“ (Non ho un amico, Nastja e Egor): erano le prime sperimentazioni fatte da Balabanov e tutte avevano attori non professionisti perché erano l’incarnazione più naturale e convincente delle vicissitudini quotidiane che servivano alla raffigurazione realistica e verace dei suoi personaggi dei film.
Tralasciando i corti, il primo periodo artistico del regista è caratterizzato da remake basati su opere letterarie, come ad esempio “Счастливые дни” (Giorni felici), che narra il peregrinare in una Pietroburgo fuori dal tempo di un personaggio – “Lui” (Он, in russo) – senza memoria, senza passato e senza amici alla ricerca di una stanza in cui vivere, e “Замок” (Il castello), basati rispettivamente su romanzi di Samuel Beckett e Franz Kafka.
La fama e i primi riconoscimenti derivano invece dal film “Брат” (Fratello), che divenne uno dei film cult degli anni Novanta, in cui si narra la storia di un giovane ragazzo che si ricongiunge a Pietroburgo con il fratello maggiore, killer spietato che educa il fratello minore alla criminalità e al mondo del banditismo russo. Nel 1998 Balabanov diresse il film “Про уродов и людей” (Mostri e uomini). Nonostante le numerose polemiche causate dalla sceneggiatura (la pellicola, infatti, ambientata nella Pietrogrado imperiale dei primi del Novecento, narra l’origine del cinema pornografico, il tutto intrecciato con scandali, triangoli, tematiche amorose e stranezze aberranti), è stato insignito del Premio Nika come miglior film.
Nel 2000 diresse “Брат 2” (Il fratello grande), sequel di Брат, ambientato tra Mosca e Stati Uniti. Importante fu anche il film “Война” (Guerra), ambientato nel Caucaso durante la seconda guerra cecena, la cui trama ruota attorno al rapimento di una coppia inglese. A causa di questa tematica, il regista venne accusato di scorrettezza politica. Gli ultimi anni della sua vita furono caratterizzati da film più leggeri, basati su sceneggiature leggermente diverse: la commedia poliziesca del 2005 “Жмурки” (Mosca cieca) e il melodramma girato nel 2006 “Мне не больно” (Non mi fa male). Nel 2007 vide la luce un film molto particolare: “Груз 200” (Cargo 200), una tragica pellicola che racconta gli orrori della guerra in Afghanistan, il ritorno dei cadaveri dei soldati nel proprio Paese d’origine. Tuttavia, l’oggetto delle critiche fu la parte restante della trama: una città provinciale disastrata dove la polizia non riesce ad essere garante della giustizia, ma si macchia le mani di crimini orribili, quali stupri e violenze ingiustificate, che causò addirittura la censura in molte città della Russia e del mondo.
Gli ultimi due capolavori sono Кочегар (Il fuochista), incentrato sul tema della rivincita del malen’kij čelovek e Я тоже хочу (Voglio anch’io), ultimo film emblematico di Balabanov che racconta un viaggio, il cui scopo è il raggiungimento di un campanile in grado di scegliere le persone a cui dare la felicità eterna.
Delineato quindi il percorso artistico di Balabanov, vediamo i motivi ricorrenti dei suoi film. Innanzitutto, il regista riesce a distruggere il mito russo: se Michalkov e Sokurov avevano a cuore le tematiche nazionali e avevano glorificato il passato della Russia, Balabanov fa il contrario, perché la sua cinematografia si colloca esattamente agli antipodi. А livello biografico e creativo è immerso in quel turbinio di sensazioni, di novità e di caos che caratterizzò quel periodo storico: visse appieno il periodo a cavallo tra Perestrojka e dissoluzione dell’Unione Sovietica, con la conseguente apparizione del fenomeno del “post-sovietico”, un momento storico che ha condizionato in maniera decisa la visione dello spirito del mondo che emerge dai suoi capolavori. Non è stato solo un regista, ma anche un eccellente osservatore della psiche umana, in grado di cogliere la violenza e i mali della storia russa in ogni periodo; questo è possibile vederlo con le ambientazioni di inizio secolo, con i film la cui tematica è la stagnazione degli anni Settanta, la vita criminale degli anni Novanta e gli orrori della guerra.
Se analizziamo la dimensione visiva delle varie pellicole, ci sono dei temi ricorrenti che connotano i film. Primo tra tutti è la città: potrebbe sembrare un elemento di poco conto, ma in realtà svolge un ruolo decisivo perché si osserva una quasi totale eliminazione dello spazio privato e l’azione scenica si svolge per la maggior parte en plein air, donando alla città un ruolo onirico e iniziatico. Non troviamo però all’interno delle pellicole una Russia imperiale sfarzosa, né una San Pietroburgo o una Mosca inquadrate nei loro scorci migliori, anzi. Nei suoi film risalta proprio l’ambientazione, che richiama per molti aspetti l’estetica della černucha del decennio precedente, che non rimanda a un genere a sé stante, quanto a una sorta di struttura rappresentativa, il cui fulcro è l’estetizzazione della tristezza, dello sporco e delle rovine.
La città, anch’essa a sua volta protagonista dei film, viene sempre vista come una forza brutale, come un meccanismo malvagio ambivalente; in generale gli spazi diventano un territorio privato di qualsiasi spirito, di identità e di un’anima viva. Ci si dimentica della Pietroburgo pomposa e ricca di decori, ci si discosta dalle immagini del peterburgskij tekst (testo pietroburghese) e dalla secolare mitologia della città; Pietroburgo diventa una sorta di “contenitore”, una scenografia asettica che permette solamente di dare una collocazione spaziale ai personaggi. Proprio per questo motivo, nonostante l’anonimia e la stranezza del paesaggio, questo stesso riesce a diventare protagonista: Balabanov permette allo spettatore di ricreare lo spazio nella propria mente e di ripensare la città a suo modo.
Lo spazio urbano viene reinventato, i nomi delle città non vengono definiti né tantomeno pronunciati dai personaggi, che scelgono di menzionarli attraverso l’opposizione tra gorod e provincija (rispettivamente città e provincia). È proprio dalla provincia che tutti scappano: ognuno fugge dal proprio posto piccolo e insignificante per poter trovare qualcosa di meglio nelle goroda (città), generalmente Mosca e San Pietroburgo. Si compie così una completa spersonalizzazione dell’ambiente urbano che, al posto di celebrare il trionfo della modernità, diventa terreno fertile per le rappresentazioni della miseria umana, delle pulsioni primarie, della degenerazione morale e della battaglia.
Un meccanismo scenico interessante usato è quello di inquadrare l’arrivo dei personaggi in stazione o in aeroporto, proprio perché nel momento in cui oltrepassano i confini cittadini, automaticamente prendono parte alla lotta per la sopravvivenza e inizia un percorso di purificazione e di sviluppo grazie al ruolo di iniziazione che assume la città.
Se prima i film -probabilmente anche per motivazioni ideologiche- contenevano numerose inquadrature sulla città, sui monumenti simboli per potere mostrare la bellezza e la grandezza in cui si svolgeva lo scenario, la cinematografia di Balabanov ribalta questi canoni con ogni mezzo. La città viene vista sempre nel suo squallore, testimone di una nuova estetica: l’azione si svolge principalmente nei cortili interni sporchi dei palazzi in rovina, in posti che sembrano dimenticati dall’uomo, nelle periferie e nei cosiddetti spal’nye rajony. Questa ambientazione permette di individuare i protagonisti spesso come flâneur, anime libere che vagano all’interno di caleidoscopi urbani, pieni di mercatini delle pulci, di gente che commercia in qualsiasi angolo, creando quasi una sensazione di intimo affetto con la città che, da un lato aliena, dall’altro è la compagna fidata degli eroi dei film.
Le strade e gli appartamenti perdono le proprie connotazioni canoniche diventando luogo dell’Altro; la città, insieme alle sue strade e ai suoi immensi angoli, si trasforma in un immenso mercato, dove avvengono ogni tipo di movimento e ogni tipo di avvicendarsi. D’altra parte troviamo la casa, che da posto sicuro, tranquillo e familiare si trasforma in teatro di violenza, stupri e omicidi. La città diventa l’unico posto sicuro in cui si svolgono la maggior parte delle scene, dove l’uomo può essere se stesso.
Per Balabanov esistono infatti due diverse categorie di spazi che permettono di ritrovare rifugio: quelli appartenenti allo spazio del sacro, come i cimiteri (ad esempio quello di Smolenskij in Brat) o gli ospedali psichiatrici. Proprio la scelta di questi due luoghi particolari, connotati da una situazione liminale tra vita e morte, tra lucidità e follia, caratterizzano i personaggi e lo spazio stesso, diventando zone di esclusione all’interno della città.
Ritornando alle linee tematiche, possiamo notare come ci sia sempre un ritorno ad una sola e unica tematica. Da Ščastlivye dni a Zamok, da Kočegar a Ja tože choču, si ritrova sempre il decadimento, l’assenza (o impossibilità) di via d’uscita e l’involuzione umana.
Il regista riesce a inquadrare l’inconscio collettivo di vari strati sociali: della borghesia, dei nuovi russi (Brat, Žmurki, Gruz 200) e anche dell’intellighenzia (Pro urodov i ljudej, Morfij, Mne ne bol’no). La sua riflessione riguarda tutti e non risparmia nessuno, proprio perché tutti i suoi personaggi – in un’accezione più ampia, tutti coloro che abitavano sul suolo russo durante l’epoca dei grandi rivolgimenti e del grande caos – sono deboli e inutili. Balabanov ricorda allo spettatore la sua natura: l’uomo è un animale astuto e crudele, e dovremmo ricordarlo tutti. All’interno dei suoi film ricorrono spesso alcuni personaggi tipici, quasi delle maschere: spesso sono tutti outsider, persone che appartengono a ceti bassi, sull’orlo del baratro, incapaci di trovare nel mondo un posto dove sia possibile realizzarsi e captarne l’armonia.
Il mondo di Balabanov inizia e finisce con un vuoto deliberato, che le persone cercano freneticamente di superare, riempire di vanità e speranze – ma subiscono la sconfitta e se ne vanno a mani vuote. Gli eroi di tutti i film muoiono, si disperdono o, più precisamente, si dissipano passivamente diventando polvere. La loro sorte è visibile anche dall’atteggiamento che hanno le persone all’interno della città: le strade sono piene di gente, i mercati pullulano di vita, eppure i protagonisti sono perennemente soli. Se non fosse per quei rapporti di fratellanza e rispetto che intercorrono tra i vari individui, gli eroi sarebbero completamente abbandonati a se stessi.
Balabanov è stato duramente criticato, odiato e ignorato dalla maggior parte degli spettatori per i suoi film e per le tematiche trattate ma, come afferma lo stesso in un’intervista: “La violenza è gran parte della vita del nostro paese, e lo era soprattutto negli anni Novanta. Non l’ho inventata io. Descrivo l’epoca così come la vedo”. I suoi film mostrano la realtà dei fatti nuda e cruda: possiamo essere d’accordo o non condividere, ma sta di fatto che il merito di Balabanov è stato proprio quello di vedere e rappresentare quel realismo patologico che ha caratterizzato il decennio più inusuale della storia russa. Dal canto nostro, noi non possiamo fare altro che godercelo e farci travolgere da esso.
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