La figlia del Boia: il fantasma di Ana Mladić tra complottismo, false verità e letteratura

“I Balcani producono più storia di quanta ne possano digerire”
Winston Churchill

 

Lo scorso luglio Belgrado si è risvegliata con un nuovo murales sulla facciata di un edificio nel quartiere centrale di Vračar, raffigurante un primo piano di Ratko Mladić e la scritta in caratteri cirillici: “Generale, siamo grati a tua madre”. La sua presenza è da rintracciare nella sentenza pronunciata lo scorso giugno dal tribunale delle Nazioni Unite, che ha condannato Ratko Mladić all’ergastolo. Le accuse sono quelle di genocidio, di crimini di guerra e contro l’umanità, per il ruolo che ha avuto nelle guerre Jugoslave degli anni Novanta e in particolare nel genocidio di Srebrenica e nell’assedio di Sarajevo.

 

La comparsa del murales in una delle arterie centrali di Belgrado ha scatenato reazioni polarizzanti: chi ancora vede in Mladić un eroe patriota, e chi lo considera un criminale di guerra. Come il murales ha fatto la sua comparsa grazie a chi ancora lo sostiene, chi lo condanna ha presto vandalizzato il suo ritratto, desacralizzandolo. Questa visione storica bipolare non è, naturalmente, casuale: a decidersi è l’immagine della Serbia fuori dai propri confini, soprattutto se proiettata nella galassia valoriale europeista.

 


 


È importante sottolineare che proprio i residenti del palazzo dove ha fatto capolino il murales non lo volessero, sporgendo un reclamo per la sua rimozione che, però, con la giustificazione dei lunghi tempi burocratici dopo cinque mesi non era ancora avvenuta. Non sorprende che le tensioni siano aumentate lo scorso 9 novembre, in concomitanza con la Giornata internazionale contro il fascismo e l’antisemitismo, quando un gruppo di attiviste ha deciso di organizzare la rimozione del murales in questione. Sebbene il presidio sia stato vietato dal Ministero degli Interni con il pretesto del rischio di assembramento, due attiviste – Aida Ćorović e Jelena Jaćimović – si sono presentate munite di uova e sono state arrestate. Volevano esprimere ad alta voce il proprio dissenso, nel timore che il silenzio pubblico potesse tradursi in omertà collettiva, lasciando dunque passare un atto così increscioso e che altro non è che il sintomo di un fenomeno molto più ampio. Sebbene il gesto delle due attiviste sia stato giudicato dal Ministero dell’Interno serbo come guidato da cattive intenzioni, che danneggerebbero l’immagine della nazione serba (giustificando così l’impiego della forza da parte della polizia), il medesimo trattamento in nome del diritto di assembramento non è stato esteso ai militanti di estrema destra che quella stessa sera si sono riuniti intorno al murales, cantando canzoni e slogan dedicate all’ex generale.

 

 

 

 

Il murales a Ratko Mladic nel quartiere di Vračar, insieme ad atti vandalici e intimidatori rivolti a ONG e associazioni per i diritti umani e a sostegno delle vittime di Srebrenica, è solo uno dei più recenti di una lunga serie di messe in scena che negli ultimi anni han rivelato il potere della riscrittura della memoria storica attraverso la manipolazione e resurrezione per mezzo delle immagini. Innalzato all’iconografia del salvatore della patria contro l’islamizzazione della civiltà serba, il ritorno del volto dell’ex generale e boia di Srebrenica simboleggia l’appropriazione violenta dello spazio pubblico come risemantizzazione della memoria. In Serbia, Mladić vive nella coscienza collettiva secondo un binarismo schizofrenico: è un eroe o un macellaio.

 

In questo dualismo ad altro contrasto, però, ne emerge anche un altro, più defilato alle telecamere degli anni Novanta o ai libri di storia: l’iconografia del Mladić padre di famiglia. Proprio perché da alcuni considerato un eroe, e proprio per l’amore che riponeva nei confronti della famiglia, il suicidio della figlia Ana nel 1994 – quando aveva solo ventitré anni – ha scatenato tutta una serie di dicerie e teorie del complotto. Com’era possibile, d’altronde, che la figlia di un grande patriota, brillante studentessa di medicina all’Università di Belgrado, potesse suicidarsi, per di più sparandosi proprio con la vecchia Zastava del padre? È proprio a partire da questo atto apparentemente inspiegabile e contraddittorio che l’autrice spagnola Clara Usón inizia la sua narrazione nel romanzo La figlia, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2013. La letteratura permette di interrogare i silenzi dell’archivio, facendosene interprete – anche in modo puramente speculativo – e dando così voce al mutismo di Ana Mladić nei mesi che precedettero la sua morte.

 

Infatti, fino al suicidio di Ana la famiglia Mladić era apparentemente uguale a tutte le famiglie felici descritte da Lev Tolstoj nel celebre incipit di Anna Karenina; classico letterario che ricorrerà spesso all’interno del romanzo di Usón, sviluppandosi attraverso diversi parallelismi tra Anna e Ana. Tuttavia, per ricostruire gli ultimi mesi di vita di Ana, l’autrice deve ricominciare à rebours, anche in questo facendo ricorso al repertorio delle immagini d’archivio.

 

Clara Usón

 

La narrazione si apre con la descrizione del filmato tratto dal programma della televisione bosniaca 60 minuta, dove si susseguono alcuni fotogrammi: Ana a tavola con la madre Bosa, il padre Ratko e altri amici, in quella che sembra una residenza di campagna. Ana sorride felice, è il luglio del 1993. Nel fotogramma successivo compare una lapide: è quella della stessa Ana Mladić, e nei momenti immediatamente successivi immortalati dalla telecamera si assiste all’entrata in cimitero del carro funebre, il feretro ricoperto da mazzi di fiori, i coniugi vestiti a lutto, la foto della giovane suicida incorniciata. Una delle ultime immagini ritrae Ratko Mladić, chino sulla fotografia della figlia, che singhiozza, sorretto dalla moglie. Mladić, qui ben lungi dall’essere il fiero generale senza pietà consacrato alla mitologia nazionale degli anni Novanta, singhiozza visibilmente, fa fatica a reggersi in piedi, e col fazzoletto già bagnato di lacrime asciuga la fotografia della figlia.

 

“Nel video, tra la scena che mostra la ragazza sorridente e quella della sua veglia funebre c’è una dissolvenza; dura meno di un secondo quella schermata nera, ma cela un’enigma e, forse, una spiegazione.”

 

Sono due le linee narrative su cui si costruisce la narrazione di Clara Usón: una è la voce in prima persona di Ana, e l’altra è quella della sua nemesi – Danilo Papo (il nome è un omaggio all’insigne scrittore omonimo serbo, Danilo Kiš). Questo sdoppiamento letterario è funzionale allo sviluppo da un lato della macro-storia (quella della Jugoslavia degli anni Novanta, dell’assedio di Sarajevo e del genocidio di Srebrenica) e della micro-storia (quella di Ana).

 

Tuttavia la stessa macro-storia, in fondo, è una grande narrazione retorica di eroi e vittime, a seconda del punto di vista adottato. È proprio questo uno degli aspetti più efficaci ne La figlia di Clara Usón: nelle sezioni raccontate in prima persona da Ana, la Storia nazionale è letta e distorta attraverso il suo sguardo e la sua interpretazione degli eventi. La psicologa sociale statunitense Jennifer L. Eberhardt ha così definito il gaze: “Il potere dello sguardo degli altri di definire come siamo percepiti nel mondo; può dare forma al senso della propria vita e influenzare il modo in cui guardiamo e leggiamo noi stessi”. Fino al viaggio a Mosca che dirotterà la visione di stima e fiducia che Ana fino ad allora aveva riservato al padre, così come a Slobodan Milošević, Ana Mladić crederà ciecamente nel mito di una Serbia sotto assedio, chiamerà i bosgnacchi come turchi, musulmani, mujaheddin, guarderà alle guerre e alle stragi mosse dall’esercito serbo come a un programma bellico giusto e legittimato da un pericolo reale.

 

Dall’altro lato, invece, nei capitoli alterni narrati da Danilo Papo e intitolati “La Galleria degli Eroi”, ci sono alcuni dei protagonisti che, approfittando delle instabilità interne alla sempre più fragile Jugoslavia, hanno soffiato sul fuoco istigando al terrore del proprio vicino e a possibili guerre di civiltà. D’altronde, come sosteneva il capo della Gestapo, Hermann Göring, è un compito facile quello di orientare un popolo alla guerra: basta dirgli che stanno per essere attaccati, che devono nutrire paura, accusando i pacifisti di anti-patriottismo e di indebolire un Paese che si deve preparare a una guerra.

 

Il mosaico che si ramifica nella galleria degli eroi è composto dai miti del Principe Lazar e la Battaglia della Piana dei Merli del 1389, Slobodan Milošević, Radovan Karadžić, Ratko Mladić e Nikola Koljević. Quest’ultimo, benché meno noto al di fuori della Serbia e della Bosnia, era conosciuto come “Il professore” e fu anche il docente universitario presso l’Università di Sarajevo del noto scrittore sarajevese – poi emigrato a Chicago – Aleksandar Hemon, che gli ha dedicato un breve racconto nella celebre raccolta Il libro delle mie vite. Ripercorrendo il loro rapporto professore-studente e la passione in comune per la letteratura, nel registrare a posteriori la sua metamorfosi da professore a stretto alleato di Karadžić e promotore di un programma di genocidio per i bosgnacchi, scriveva Hemon a proposito del suo coinvolgimento nell’assedio di Sarajevo e nell’incendio della biblioteca della capitale:

 

“L’ironia infernale di un poeta (per quanto cattivo potesse essere) [ndr: si riferisce a Radovan Karadžić] e di un professore di letteratura che causano la distruzione di centinaia di milioni di libri non mi sfuggì. […] Oggi mi è evidente che la sua malvagità ebbe su di me un’influenza ben maggiore della sua visione letteraria. Ho estirpato e distrutto quella preziosa e giovane parte di me stesso che credeva possibile ritirarsi dalla storia e ripararsi dal male nel conforto dell’arte.”

 


 


Se, come scrive Clara Usòn, “non possiamo scegliere i nostri genitori, né l’epoca né il popolo con cui vivremo”, quella di Ana
Mladić è una metamorfosi inversa rispetto alla generazione dei padri: è nel corso di un viaggio in Russia nel marzo del 1994 che Ana sente per la prima volta il nome del padre accostato all’appellativo di “boia dei Balcani”, e scopre che tutti i suoi amici sono avversi alla guerra, rigettano la retorica nazionalista e han disertato la chiamata alle armi. Infatti, a Mosca si trova per una serie di circostanze casuali in presenza di Ron, un reporter canadese e Alma, giornalista bosgnacca sopravvissuta agli attacchi dei cecchini nella Sarajevo assediata che, senza conoscere la vera identità di Ana, le rivelano l’orrore dietro le azioni belliche del padre. Ana scopre così che il suo cognome fuori dai confini nazionali è maledetto e che il padre è considerato un criminale di guerra. Si ricorda di una giornata serena tra le montagne di Treskavica, in Bosnia, quando il padre la sfidò a sparare col mortaio e per loro era tutto un gioco, noncuranti della presenza di famiglie dall’altro lato, invisibile, della cima. Echeggia ancora un’altra citazione, questa volta un proverbio serbo: “Più cose sai, più soffrirai”.

 

Al ritorno da Mosca a Belgrado, ha inizio l’atto conclusivo della vita di Ana Mladić. Isolata dalla compagnia degli amici, la cui opinione verso il padre l’ha ormai alienata, il suo cognome inizia a pesarle troppo, con il senso di colpa che esso porta con sé. Dopo un ultimo dialogo con Danilo Papo – il suo estremo opposto: apolide, ebreo, col padre nella Sarajevo assediata, dove perderà la vita –, durante il quale avrà conferma che Dragan, il suo ex ragazzo, ha perso la vita in una guerra che non voleva combattere per il puro desiderio di vendetta di Mladić padre, torna a casa.

 

Alle quattro e mezza del mattino del 24 marzo 1994, nella casa di famiglia risuona uno sparo, causato dalla vecchia pistola Zastava di Ratko, custodita in attesa di sparare colpi di gioia quando sarebbe diventato nonno. Come Anna Karenina, l’eroina che tanto aborriva della letteratura russa perché considerata codarda, Ana Mladić si toglie la vita.

 

“Aveva l’impressione di essere circondata da immondizia, sparsa ovunque; non sapeva più cos’era bene e cosa male, a chi credere, come comportarsi. Fingere di non sapere, che non succedeva niente, fare come la madre e il fratello, che adoravano il loro marito e padre senza criticarlo e si lasciavano trascinare, docili e mansueti, dal trantran di tutti i giorni, tenere pulita la casa, sempre ben rifornita, studiare informatica, andare in giro con la fidanzata, estranei a ciò che succedeva laggiù, sull’altra riva della Drina?
Era figlia di suo padre: non poteva.”

 

Intorno al suicidio di Ana si sono subito pronunciate le più disparate speculazioni. Il fatto che non abbia lasciato una lettera e un biglietto, e il suo silenzio intorno ai fatti in Russia ha incoraggiato il proliferare di teorie complottiste. D’altronde, le teorie del complotto sembrano sempre più coerenti del caos della realtà, conferendo un senso all’apparente insensatezza del reale. Allora quale poteva essere la spiegazione più logica del perché un’aspirante chirurga perdutamente devota al padre, eroe di guerra, si sarebbe improvvisamente tolta la vita? C’è chi ipotizzò l’essere venuta a conoscenza di fonti estere infamanti sul padre, o articoli pieni di menzogne della stessa stampa nazionale. Chi ancora parlò di assassinio programmato, ma la scientifica provò che nessuno era entrato nel perimetro della casa e il colpo era stato auto-inferto. Ratko Mladić si convinse che doveva trattarsi di avvelenamento, probabilmente ordito dai bosgnacchi o dal paramilitare Milorad Ulemek, detto Legija. L’ipotesi dell’avvelenamento trovò conferma presso un’indovina poco tempo dopo.

 

Sebbene ventisette anni dopo sia ancora un evento dibattuto, il suicidio nella micro-storia di Ana ha avuto conseguenze nella macro-storia jugoslava. Si dice che dopo il suicidio della figlia, qualcosa nel macellaio dei Balcani si sia rotto irreversibilmente. Col dramma del suicidio nella sua sfera individuale, le conseguenze si sono ripercosse prepotentemente anche nei grandi eventi storici. Poco più di un anno dopo, Ratko Mladić ha ottenuto un nuovo appellativo: “il boia di Srebrenica”.

Sebbene sia senz’altro la meno complottista, la teoria che Clara Usón riporta attraverso questo esperimento letterario è forse la più attendibile: la morte di Ana come sacrificio e come atto di dissociazione dalla sua famiglia e dalle loro azioni perché, come origlia da un amico, “per ogni vita che lei salverà, suo padre avrà lasciato dietro di sé migliaia di cadaveri”. Nell’epilogo, questo è il ritratto di Ana Mladić: una brillante studentessa di medicina che in una mattina di fine marzo decide di togliersi la vita schiacciata dalle colpe del padre, l’unico mandante del suo suicidio.

1 commento

  1. il libro è bellissimo, non è retorico nè sentimentale. Bravissima e puntigliosa nel descrivere l’atmosfera, la città e la storia dei personaggi. una libro da rileggere ( come sto facendo)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *