As Far as I Can Walk: uno sguardo singolare alla situazione dei migranti lungo la rotta balcanica

E se un migrante africano fosse il nuovo eroe nazionale serbo? È questa la domanda che fa da sfondo al film As Far as I Can Walk di Stefan Arsenijević, rivisitazione in chiave contemporanea del poema epico serbo Strahinja Banović, che racconta la situazione dei migranti lungo la rotta balcanica. Più di una reinterpretazione dell’epica, più di un film sulla condizione dei migranti in Serbia, quella che Arsenijević definisce “semplicemente una storia d’amore“ è un’opera delicata, semplice e diretta, che riesce a trovare un punto d’incontro tra due mondi che non sembrano avere assolutamente niente in comune l’uno con l’altro. Data l’originalità dell’idea alla base del film, la prima domanda che ho fatto al regista, quando ho avuto occasione di intervistarlo, è stata proprio relativa alla genesi dell’opera, che ho scoperto essere in realtà la fusione di due progetti separati.

 

Il primo dei due, quello sulla rotta balcanica in Serbia, nasce dall’esperienza personale di Arsenijević, che in prima persona ha assistito all’aumento di persone in transito a Belgrado, tra il 2015 e il 2016. Come lui stesso ha raccontato:

 

“Vedere tutte queste persone per le strade mi ha ricordato molto la situazione dei rifugiati jugoslavi durante le guerre degli anni ’90. Mi è sembrato un po’ che la storia si stesse ripetendo: c’era di nuovo un evento storico importante e drammatico che stava accadendo davanti ai miei occhi. Avevo anche la sensazione che i media non trattassero i migranti come esseri umani, ma solo come numeri, come se fossero tutti uguali. Così, ho pensato che fosse necessario rendere giustizia alle storie individuali di queste persone e conoscerle meglio per capirle veramente. E il fatto che io sia cresciuto con molti amici che erano rifugiati forse poteva permettermi di avvicinarmi più facilmente a questa realtà”.

 

Similmente, sempre dalla sua esperienza personale viene il desiderio di inserire il poema Strahinja Banović in uno dei suoi lavori:

 

“Allo stesso tempo, stavo cercando di realizzare un adattamento contemporaneo di questo poema epico medievale serbo. E’ una parte molto importante del nostro patrimonio culturale, tutti lo studiano a scuola. Mi ricordo che quando l’ho letto per la prima volta da ragazzino ho subito immaginato realizzarne un adattamento cinematografico. C’è già un film del 1981 su questo poema, con Franco Nero tra i personaggi, uno degli attori più in vista nel panorama internazionale in quegli anni. Quindi, visto che non avrebbe avuto senso rifare un film che c’è già, ho pensato di realizzarne una rilettura contemporanea.”

 

 

 

 

L’idea di fondere insieme queste due realtà viene dall’incontro con uno dei migranti che si sono trovati a passare per Belgrado, uno dei pochi che aveva scelto la Serbia come luogo in cui stabilirsi, aspirando a ricevere l’asilo politico per poter lavorare ufficialmente come calciatore nella squadra locale.

 

È proprio questo ragazzo che poi è diventato il riferimento principale per la caratterizzazione del personaggio di Strahinja, uno dei tre protagonisti di As Far As I Can Walk. Nel film, Samita (conosciuto da tutti come Strahinja) lascia il Ghana all’inizio della crisi migratoria con sua moglie Ababuo, con il sogno di raggiungere l’Europa Occidentale. Come spesso accade, Strahinja e Ababuo sperano di riuscirsi a muovere verso l’Unione Europea, ma restano bloccati in Serbia. Per loro, migranti di tipo economico, è ancora più difficile passare il confine: poco dopo l’inizio della crisi migratoria la Serbia ha infatti deciso di inasprire il suo comportamento permettendo di spostarsi solo alle persone che provengono da Paesi in cui è in corso un conflitto armato. Solo chi scappa dalla guerra può sperare di raggiungere l’Europa Occidentale. Data questa condizione, Strahinja e Ababuo decidono di avviare le interminabili pratiche per richiedere asilo politico in Serbia e è qui che le vicende personali dei due protagonisti iniziano a farsi complicate. Se Strahinja è integrato, soddisfatto del suo successo nella squadra locale di calcio, Ababuo è sempre più frustrata: lei è un’attrice, la sua ambizione è quella di raggiungere un paese in cui il suo talento può essere apprezzato e, sicuramente, organizzare dei laboratori teatrali per bambini all’interno del campo dove vive non è abbastanza. Per questo, quando Ali, migrante siriano, arriva al centro di accoglienza e annuncia di voler provare a varcare il confine il giorno successivo, Ababuo immediatamente sceglie di seguirlo perché sa che con lui le possibilità di successo sono maggiori. Strahinja, rimasto solo, decide di mettersi in cammino, consapevole di tutte le difficoltà che dovrà affrontare lungo la rotta balcanica. Lascia così la Serbia, il porto sicuro che si era appena costruito, per una realtà ostile e incerta. Diversamente da chiunque altro, sceglie di farlo unicamente per il desiderio di ritrovare sua moglie, unicamente per amore.

 

Il taglio particolarmente umano ed emotivo che il regista ha deciso di dare al suo film è in grado di smuovere anche le coscienze più tecniche, abituate a vedere nelle questioni relative alla rotta balcanica solo un insieme di numeri, complessi processi burocratici e politiche di integrazioni spesso fallimentari. Arsenijević, nel sentirmi esprimere questo giudizio, mi ha confermato che questa era esattamente la reazione che sperava di ottenere nel suo pubblico. Alla fine, ha detto, “i migranti non sono che persone che lottano per le stesse cose per cui lottiamo tutti: la nostra autorealizzazione, le nostre ambizioni, i nostri desideri”. Per rappresentare al meglio il lato più umano della situazione dei migranti in Serbia, numerosi migranti che si trovavano in quel momento in Serbia sono stati ingaggiati e coinvolti nella realizzazione del film. Come ha raccontato Arsenijević:

 

“La mia prima idea era quella di chiedere ai migranti di interpretare i ruoli principali. Ne ho provati molti, ma purtroppo si trattava di ruoli molto complessi, sia dal punto di vista emotivo, sia da quello fisico. Sono quindi giunto alla conclusione che ci fosse effettivamente bisogno di attori professionisti per i ruoli principali. Però, tutti i migranti che compaiono nel film sono veri migranti e alcuni di loro hanno anche avuto ruoli secondari. Sicuramente, questo ha contribuito a dare al film il taglio documentaristico che lo contraddistingue e renderlo autentico: i migranti ci hanno aiutato a rendere le ambientazioni il più autentiche possibili e ci correggevano quando facevamo qualcosa che non corrispondeva a come sarebbe stato nella realtà. Il problema principale è stato guadagnarsi la fiducia di queste persone; avevo un aiuto regista che si occupava unicamente di questo, che si è preso il tempo per stare con loro, parlarci e costruire il rapporto di fiducia necessario.”

 

 

 

 

In questa rappresentazione realistica e autentica della vita dei migranti in Serbia, colpisce il modo in cui è stato trattato il tema dei trafficanti di persone, di solito tassisti che accompagnano i migranti al confine con l’Ungheria per guadagnare un po’ di soldi extra. L’aspetto toccante è che anche loro sono rappresentati in modo estremamente umano: alla fine, non sono che persone che colgono un’occasione per arrotondare uno stipendio di norma particolarmente misero. Alla domanda su come avesse fatto ad approcciarsi alla realtà degli smugglers per poterla raccontare, Arsenjević ha raccontato una storia curiosa: non guidando, si trova a spostarsi in taxi molto spesso fino al punto che, negli anni, è arrivato a conoscerne alcuni che hanno potuto introdurlo a questo mondo. Da questa suggestione era in realtà nata l’idea del primo progetto sulla rotta balcanica, che non è mai stata realizzata:

 

“Il progetto era quello di realizzare un film completamente ambientato durante il viaggio da Belgrado al confine ungherese. Nella macchina, ci sarebbero dovuti essere migranti di origine diversa, che non si fidano l’uno dell’altro, che a malapena si capiscono, e con l’autista del taxi che parla solo inglese. Ci sembrava un’ottima idea. Abbiamo cercato di ottenere dei fondi per il progetto, cosa che non è mai successa. In più nel giro di un anno la crisi migratoria stava iniziando ad essere al centro dell’attenzione di tutti e molti registi avevano iniziato a produrre i loro film su questo tema. Quindi mi sono reso conto che questo progetto era troppo semplicistico e avevo bisogno di qualcosa di diverso”.

 

Da qui nasce, di fatto, l’idea di fondere questo progetto con il poema Strahinja Banović, anch’esso incentrato su una storia d’amore su cui sono state basate le dinamiche di As far as I can walk. Strahinja, re di un piccolo territorio serbo, decide di intraprendere un viaggio solitario, lungo e illogico agli occhi dei più, solo per cercare sua moglie Anđelija, rapita da Vlah Alija. Anche se le logiche sono completamente diverse (stiamo parlando di un’ambientazione medievale in cui i concetti di tradimento e fedeltà sono retti da norme sociali completamente diverse), Arsenijević ha saputo cogliere la connessione tra il viaggio dell’eroe epico e quello del migrante in cammino: “nelle peripezie di questi migranti, nel loro viaggio e nelle difficoltà che incontrano, ci ho visto molto dei viaggi affrontati dai cavalieri nel medioevo, protagonisti dei poemi epici.”

 

Ad ogni modo, è risaputo che in Serbia i concetti patrimonio culturale e nazionalismo sono particolarmente sentiti. Rivisitare un poema epico universalmente riconosciuto come parte della tradizione serba, inserendolo per di più nella realtà della rotta balcanica, poteva suscitare reazioni interessanti nel Paese.

 

Quando ho chiesto ad Arsenijević se avesse avuto timore di critiche negative da parte dell’opinione serba, ha risposto:

 

“Sicuramente mi aspettavo delle reazioni negative perché sapevo di toccare dei tasti sensibili, ma in realtà la risposta del pubblico è stata estremamente positiva. Potrei parlare di me stesso come un eroe o un ribelle che sfida il sistema, ma a dirla tutta non ce n’è bisogno. Ho ricevuto una critica molto ostile da parte di uno dei più importanti giornali serbi, ma se a loro fosse piaciuto il film sarei stato sorpreso, avrei pensato di aver sbagliato qualcosa. Di sicuro, i nazionalisti di estrema destra non hanno apprezzato il film, ma il mio obiettivo non era tanto provocare loro, quanto parlare ad un pubblico più ampio possibile. E, al pubblico, il film è piaciuto moltissimo.”

 

 

 

 

Sicuramente, che il film sia stato molto apprezzato dal pubblico è un segnale estremamente incoraggiante, data la più o meno recente crescita dei movimenti etnonazionalisti in Serbia e nei Balcani Occidentali. Senza dubbio questo successo è in gran parte dovuto alla scelta comunicativa del regista, che ha saputo inserire chiari messaggi politici in un racconto umano, autentico e in cui tutti possono facilmente riconoscersi. Arsenijević ha saputo astenersi da una spettacolarizzazione del dolore fine a se stessa, scegliendo di non raccontare le storie più scioccanti (senza voler negare che queste esistano) e concentrandosi unicamente sul far passare il messaggio che i migranti non sono né più né meno che esseri umani, che seguono i loro desideri e le loro aspirazioni esattamente come fa chiunque altro.

 

“Sono molto grato delle storie che i migranti hanno condiviso con noi, molte sono finite nel film e molte no”, riflette Arsenijević al termine della conversazione. “Molte persone avevano anche storie peggiori di quella che ho deciso di raccontare, ma la nostra decisone è stata quella di scegliere una storia d’amore e di dar vita a dei protagonisti che hanno dei problemi che non hanno nulla a che vedere con il fatto che sono migranti. Sono problemi che potrebbe avere chiunque. Ho spesso avuto la sensazione che in molte altre rappresentazioni i migranti venissero rappresentati come vittime e basta, ma ho scelto di raccontare i migranti in un modo che potesse risuonare con chiunque, in modo da poterci avvicinare di più alla loro realtà e capirli meglio.”

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