Nulla parla di estate come un buon omicidio. Che siate al mare sul lettino ad affrontare il caldo trastullandovi con macabri delitti, o a godervi qualche indagine cartacea tra i boschi in montagna, non è estate senza la Settimana Enigmistica e qualche giallo a portata di mano. Ed è con quattro buoni omicidi per tutti i gusti, dai palati più intellettuali alle sensibilità più nerd, che speriamo di accompagnarvi nelle vostre vacanze.
Ecco i titoli scelti!
Febbre da fieno, Stanisław Lem
(2020, Voland, trad. Lorenzo Pompeo, 208 pp.)
Vedi Napoli e poi muori: è quanto accade in questo romanzo a numerosi avventori di stabilimenti turistici partenopei, divenuti pazzi e suicidatisi in circostanze misteriose su cui il protagonista, un astronauta in pensione, si ritroverà a indagare. È un complotto da sventare seguendo i canoni del romanzo poliziesco o una concatenazione di casualità che può essere analizzata solo con i mezzi della fisica quantistica e del calcolo delle probabilità? È un effettivo mistero, un poliziesco classico, o è piuttosto la base per una riflessione sul determinismo e sul caso, drammi epistemologici che hanno da sempre contraddistinto il pensiero di Stanisław Lem?
È curioso notare come Lem, noto per il suo contributo alla fantascienza (in particolar modo quella a tinte filosofiche, di cui è l’esponente più prolifico), abbia scritto anche dei romanzi ascrivibili al genere giallo: dopo L’indagine, uno dei suoi primi lavori, Lem torna alla scrittura investigativa sedici anni più tardi proprio con Febbre da fieno, padroneggiando il genere con molta più verosimiglianza dello sforzo precedente. Entrambi i romanzi si ritrovano alle prese con sequenze di eventi (quasi) inspiegabili, e per quanto la compresenza allucinata di detective story, fantascienza, statistica e filosofia possa apparire quanto meno bizzarra, affronta uno dei punti nodali dell’intera produzione dell’autore.
La questione del caso, l’altra faccia dei miracoli crudeli che popolano i suoi scritti, è la colonna portante dell’intero corpus letterario di Lem, da titoli di saggistica come Filozofia przypadku o Summa technologiae a romanzi come Golem XIV e La voce del padrone, ripubblicati di recente da Mondadori. A differenza dei titoli citati, però, qui il calcolo delle probabilità non è applicato alla letteratura né alla biologia evoluzionistica: nell’indagine al cardiopalma tra Napoli, Parigi e Roma di Febbre da fieno, l’ossessione di Lem per il caso e il destino, temi mutuati dalle sue esperienze biografiche, si dipana per tutto il corso del romanzo misurandosi con il pensiero di autori come Popper. E, come nei migliori testi di filosofia, l’epilogo non è la risposta, ma l’inizio delle domande.
Il conte Luna, Alexander Lernet-Holenia
(2022, Adelphi, trad. Giovanna Agabio, 174 pp.)
Una delle ultime uscite Adelphi, Il conte Luna si inserisce a pieno titolo nel canone del Novecento mitteleuropeo. Definito “un intreccio tra black comedy e giallo metafisico”, questo romanzo di Lernet-Holenia attinge all’eredità dei fasti asburgici, con l’annoso problema della memoria dopo due guerre mondiali, ribaltandone la serietà con la leggerezza del Witz ebraico, diventando una crasi unica tra il Singer de Il mago di Lublino e lo Zweig de Il mondo di ieri.
Il protagonista, Alexander Jessiersky, è un esponente della piccola nobiltà che ha ereditato l’attività di famiglia suo malgrado, che ha messo su famiglia suo malgrado e e trascorre la sua vita viennese in quella tipica indifferenza austriaca descritta e vituperata da autori come Jelinek e Bernhard. In seguito all’Anschluss del ’38, Jessiersky espropria delle terre al conte eponimo, che viene poi deportato a Mauthausen. Nonostante gli aiuti ricevuti in segreto durante la guerra e la preoccupazione che Jessiersky prova per le sorti dell’uomo (pur senza averne attivamente impedito l’arresto), del conte si perderanno ufficialmente le tracce dopo il ‘45, ma una serie di avvenimenti funesti fa presagire a Jessiersky il suo ritorno e la sua sete di vendetta, lasciando questi nel terrore. Dopo una serie di peripezie tragicomiche scaturite da un’incontrollabile paranoia, Jessiersky fugge a Roma, dove incontrerà il suo destino nelle catacombe, in un crescendo allucinato di motti di spirito e meditazioni erudite sulla morte.
A sovrastare questo teatro di grotteschi equivoci, la figura evanescente del conte Luna e della sua storia familiare. Ma chi è questo conte Luna? È fisicamente un satellite? Questa è l’interpretazione che ne dà uno Jessiersky in preda al panico, di cui ci si può facilmente convincere a una lettura approssimativa. L’apparato iconografico di Lernet-Holenia sembra tuttavia alludere (quando non parodiare) alla complessa rete di senso di colpa, apatia e nostalgia dei fasti asburgici e i loro orpelli, nella quale l’Austria del dopoguerra si ritrova impigliata. Una satira sicuramente meno caustica di quella dei già menzionati Nestbeschmützer, ma proprio per questo adatta a una lettura scorrevole e pluristratificata.
La città e la città, China Miéville
(2011, Fanucci, trad. Maurizio Nati, 361 pp.)
Un titolo inglese può sembrare un’eccezione impropria a questa lista, ma l’ambientazione di questo romanzo di China Miéville può fregiarsi di una particolarità tutta esteuropea – o quasi. Ambientato nelle città gemelle di Besźel e Ul Qoma, che occupano lo stesso spazio ripartito in zone, alcune delle quali appartenente all’una, all’altra o a spazi intersezionati tra le due, il romanzo unisce la forma più codificata dell’indagine procedurale con la weird fiction, rendendo questa croccantissima lore la vera protagonista della vicenda.
La ripartizione geografica non è la qualità più peculiare delle due città, né lo è la loro diversità strutturale, sociale, linguistica e culturale (Miéville si ispira alle capitali mitteleuropee per l’una e alla pluralità balcanica per l’altra, così come numerosi sono i riferimenti geografici a luoghi realmente esistenti, come Varna, Bucarest o l’Ungheria); è invece l’obbligo di disvedere, ossia sfocare o cancellare dalla vista e dalla mente, gli edifici, gli abitanti e gli eventi dell’altra città, pur riconoscendole nel proprio campo visivo, a connotare l’esperienza dell’indagine e della lettura. A mettere in moto la vicenda è l’omicidio di Mahalia Geary, giovane archeologa statunitense che oltre al lavoro negli scavi sembrava condurre ricerche clandestine su Orciny, una leggendaria e misteriosa terza città situata tra le due, al centro di numerose polemiche e contestazioni politiche dalle frange nazionaliste sia di Besźel che di Ul Qoma.
Per quanto non tecnicamente esteuropeo in sé, La città e la città è un romanzo che rinnova nella commistione di generi la tradizione letteraria di narratori come Kafka e Schulz – posto peraltro in esergo. Ed è proprio nella forza delle suggestioni delle due (o tre?) città e delle loro atmosfere, delle loro vite e dei loro incastri che risiede la bellezza del romanzo.
Un solo appunto: ci sentiremmo di consigliare la lettura in originale, per chi mastica l’inglese.
L’albergo dell’alpinista morto, Arkadij e Boris Strugackij
(2022, Carbonio, trad. Daniela Liberti, 248 pp.)
Pur da appassionata di fantascienza dell’Est Europa e fan affezionata dei fratelli Strugackij, a farmi iniziare L’albergo dell’alpinista morto non è stata la mia naturale inclinazione al genere, bensì la raccomandazione di Diletta (qui il suo blog), che me l’ha consigliato per la totale assurdità degli avvenimenti e per lo stile volutamente farsesco. Ispirandosi al Dürrenmatt de La promessa, gli Strugackij partono proprio dalla volontà di mettere per iscritto il requiem per il romanzo giallo e sovvertire tutte le regole del genere, riunendo tutti i cliché della detective story per poi stravolgerli e unirli alla fantascienza e al thriller spionistico.
In un remoto resort di montagna, il poliziotto Peter Glebski, non un veterano della scena del crimine ma un impiegato preposto ai reati fiscali, diventa testimone di un crimine di cui è difficile non solo smascherare il colpevole, ma persino stabilire l’identità della vittima. È un essere umano, uno spettro che infesta l’albergo, un alieno, uno zombie, un robot da un altro mondo? Si tratta di un omicidio per cui valgono le regole degli Sherlock Holmes, dei Maigret e di Poirot, dove ogni sospettato è un archetipo umano delle possibilità intrinseche al delitto? Ma si può davvero parlare di archetipi umani, quando tra gli ospiti ci sono un mago, una creatura dal genere fluido e imperscrutabile, un San Bernardo senziente e uno svedese che non è un vero svedese? E come si può indagare se, in perfetta ottemperanza al vivere sovietico, sono tutti ubriachi?
Nonostante le premesse più che rodate per i conoscitori del genere, che sembrano preludere a una classica investigazione su un delitto a porte chiuse commesso in una località isolata, questa parodia di Agatha Christie in chiave pop-sovietica forse non è il titolo più indicato per gli amanti degli intrecci più classici. Ma con un fascino tutto suo, un po’ Dürrenmatt e un po’ Vanzina, L’albergo dell’alpinista morto riesce a conciliare elementi e registri discordanti in un pastiche riuscito, divertente e persino commovente vent’anni prima di Twin Peaks. Con la sola differenza che nemmeno David Lynch avrebbe raggiunto le vette di umorismo paranormale degli Strugackij, che con questo romanzo sono riusciti nell’impossibile impresa di trasportare Lovecraft a Cortina.
Un cult istantaneo, sicuramente il mio personalissimo libro dell’estate tra quelli che consiglio qui.