Quando ho iniziato a leggere qualche libro sul tema dell’emancipazione femminile nella Russia dell’Ottocento con lo scopo di scrivere la mia tesi su questo argomento, mi sono imbattuta in una serie di nomi di donne appartenenti a classi sociali diverse e con ideologie diverse: nichiliste, femministe liberali o populiste, si trattava in ogni caso di donne che erano riuscite a contribuire in maniera significativa alla storia dell’emancipazione femminile in Russia. Quindi perché proprio Vera Figner? Inizialmente per convenienza: la sua autobiografia costituiva sicuramente un buon punto di partenza per la mia tesi.
Risponderei a questa domanda dicendo che averla scoperta è stato un privilegio: ciò che rende unica la sua storia è, paradossalmente, il fatto che Vera non può essere definita “martire” nel senso vero e proprio del termine, perché a differenza delle altre donne con le quali ha lottato per diffondere gli ideali del socialismo lei non ha avuto il privilegio (sembra un controsenso, ma Figner lo considerava tale) di essere condannata a morte e dunque di potersi sacrificare proprio come una martire. A lei come punizione è stato dato il tempo, vent’anni trascorsi all’interno della fortezza di Schlisselburg ed altri, da donna libera, a cercare di sanare l’ormai incolmabile frattura tra la sua generazione e quella nuova.
Chi era Vera Figner?
Nata il 24 giugno 1852 a Kazan’, Vera era stata preparata fin dall’infanzia alla sua futura vita da nobildonna. La sua famiglia faceva infatti parte della piccola nobiltà, essendo la madre figlia di un proprietario terriero e il padre prima ufficiale forestale e poi, in seguito all’emancipazione della servitù della gleba avvenuta nel 1862 un giudice di pace. Nonostante i suoi genitori non fossero conservatori desideravano comunque che le figlie avessero un’educazione tradizionale, che permettesse loro di inserirsi in società. Così all’età di undici anni Vera fu mandata a studiare all’istituto Rodionovskij insieme alle altre ragazze nobili, e solo dopo sei anni, nei quali aveva imparato poco o nulla, tornò a casa pronta a fare il suo ingresso in società.
In base a quanto scritto nella sua autobiografia, sappiamo che il periodo trascorso in istituto fu vissuto da lei come poco stimolante, e non aveva contribuito in alcun modo al suo sviluppo intellettivo e morale, ma allo stesso tempo sentiva che la monotona vita di campagna non faceva per lei. Il suo debutto in società nel 1871 le permise di conoscere Aleksandr Viktorovič del quale si innamorò. A differenza del padre di Vera, Aleksandr non era contrario alle aspirazioni della fidanzata, la quale aveva iniziato a prendere in considerazione l’idea di studiare medicina all’università. Così, dopo il matrimonio avvenuto l’anno successivo al loro incontro, i due decisero di partire per la Svizzera insieme alla sorella minore di Vera, Lidija Figner.
Riguardo al loro matrimonio vorrei aggiungere una riflessione personale: sebbene in nessuna parte della sua autobiografia Vera lascerà intendere che si trattava di un matrimonio di interesse, il fidanzamento così breve, il fatto che Aleksandr fosse disposto a far continuare gli studi alla sua futura moglie e che il matrimonio fittizio fosse molto diffuso all’epoca all’interno dei gruppi di giovani studenti nichilisti, sono tutti elementi che possono portare a pensare che, sebbene ci fosse dell’affetto fra i due, non è da escludere che il matrimonio potesse essere motivato anche da altri fattori. Inizialmente, in quanto donna sposata, Vera passava la maggior parte del tempo in casa e non aveva molti contatti con le altre studentesse sue coetanee, a differenza della sorella Lidija, la quale ben presto decise di lasciare l’appartamento condiviso con Vera per andare a coabitare insieme ad un gruppo di studentesse russe chiamate le Friči. Il nome derivava da Fritsch, il cognome della proprietaria di casa che affittava loro l’appartamento nel quale si riunivano per discutere di vari temi come la storia delle dottrine socialiste, le basi dell’economia politica o lo studio dei movimenti popolari e delle rivoluzioni.
A causa delle loro opinioni sul matrimonio, considerato come un’istituzione oppressiva nei confronti della donna, Vera fece più fatica della sorella a farsi accettare dalle Friči, ed effettivamente il suo destino è diviso da quello delle altre ragazze che a differenza di Vera erano molto più prese dal pathos rivoluzionario ed hanno iniziato prima quel percorso che le ha portate a radicalizzarsi e a lottare contro il potere. Nonostante le sue buone intenzioni, Vera fece inizialmente più fatica a dedicare tutta se stessa alla causa, nonostante dopo sia diventata una delle rivoluzionarie più conosciute e rispettate. Ed è anche grazie a lei se sappiamo dell’esistenza delle Friči e di come era fatto quell’ambiente di ragazze provenienti da famiglie nobili che desideravano istruirsi per poter partecipare attivamente ai dibattiti sui problemi sociali, politici ed economici del Paese. Certo è che le studentesse russe, che si riunivano tra loro per discutere di socialismo e lotta di classe, vestivano secondo la moda nichilista con abiti neri e capelli corti e conducevano uno stile di vita libero dalle imposizioni familiari, iniziarono ben presto a suscitare scandalo e ad essere motivo di preoccupazione per il governo russo. Nel 1873 fu emanato un decreto rivolto alle giovani donne russe che si trovavano a studiare all’ estero, nel quale veniva loro richiesto di lasciare l’università di Zurigo, motivando questa richiesta con varie accuse tra cui quella di farsi ammaliare dagli ideali del socialismo e di condurre uno stile di vita dissoluto. Le accuse più o meno esplicite fatte dal governo suscitarono indignazione fra le studentesse, soprattutto quelle più giovani. Vera racconta di come alcune studentesse volessero organizzare una manifestazione e siano state fermate dalle altre studentesse più grandi le quali, ormai vicine alla laurea, non avevano alcun interesse nel causare ulteriori disordini.
Così in molti, anche ragazzi, tornarono in Russia nell’estate del 1873 e si unirono agli studenti russi nella cosiddetta “andata al popolo” con la volontà di diffondere le idee del socialismo fra gli stati più bassi della popolazione, sperando che la popolazione, una volta istruita e capace di comprendere le teorie rivoluzionarie, iniziasse di sua spontanea volontà una rivolta contro le istituzioni che l’avevano oppressa fino a quel momento. Le studentesse rimaste all’ estero lasciarono l’università di Zurigo come richiesto nel decreto del ‘73 e si iscrissero ad altre università come quella di Berna o di Parigi.
Vera decise così di partire per Berna, mentre sua sorella Lidija e le altre Friči tornarono in Russia. Dopo un anno di studi a Berna, ormai vicina alla laurea, Vera fu costretta a prendere una decisione fondamentale: molte delle compagne tornate in Russia erano state arrestate e c’era bisogno di altri membri che prendessero il loro posto nella lotta contro l’autocrazia. Non senza difficoltà, Figner decise che era arrivato il momento di mettere da parte le aspirazioni personali per dedicarsi interamente alla causa del socialismo:
Le speranze di mia madre, le aspettative dei conoscenti e dei parenti che consideravano il conseguimento da parte mia di un titolo accademico come un brillante e difficile traguardo; l’amor proprio, la vanagloria! Dovevo distruggere tutto ciò con le mie stesse mani quando l’obiettivo era già davanti ai miei occhi.
L’attività all’ interno dei gruppi rivoluzionari
Nel novembre 1875 Vera ritornò in Russia, e una volta arrivata a Mosca, entrò a far parte di un gruppo di radicali il cui compito era di decodificare le lettere dei loro compagni in carcere e farle arrivare clandestinamente agli altri detenuti. Solo nell’ottobre del 1877 Vera riuscì realizzare il suo desiderio di lavorare come infermiera presso il villaggio di Studency, dove si rese conto che fino a quel momento aveva avuto una visione idealizzata del popolo e del suo compito di rivoluzionaria, e soprattutto che era inutile fare propaganda parlando di lotta e resistenza a persone che tutti i giorni dovevano lottare per sopravvivere. Questa sua convinzione su quale fosse per lei non solo la strada più giusta ma quella più auspicabile aveva avuto origine nella scelta di studiare medicina per mettere le proprie conoscenze a servizio del popolo : capiamo infatti fin da subito che la sua è una vocazione “pratica”, o meglio una vocazione alla pratica. Così per molto tempo Vera scelse di dedicarsi al suo compito di infermiera, e solo quando le circostanze glielo imposero lasciò il villaggio per andare verso la capitale, dove nel frattempo l’obiettivo dei rivoluzionari( detti anche populisti o narodniki in russo) era cambiato: dopo l’attentato di Vera Zasulič al generale Trepov, divenne sempre più evidente la possibilità di seguire la strada del terrorismo. Vera era fra coloro che pensavano che il terrorismo costituisse una fase seppur necessaria pur sempre momentanea, adottata principalmente per difendersi dagli attacchi del governo, e che in seguito i rivoluzionari sarebbero potuti tornare nei villaggi, a contatto con la gente.
Per questo motivo entrò a far parte dell’organizzazione Zemlja i Volja e diede il proprio supporto a quella fazione di rivoluzionari che stavano cospirando con l’intenzione di assassinare lo zar. In seguito alla conferenza di Voronež del 1879, le distanze ideologiche tra membri dell’organizzazione divennero sempre più marcate. Di lì a poco si crearono infatti due gruppi distinti, ovvero Čërnyj peredel (Spartizione nera) e Narodnaja Volja (La volontà del popolo). Vera non solo entrò a far parte di quest’ultima, ma divenne uno dei membri del comitato organizzativo. Partecipò all’organizzazione di diversi attentati diretti contro lo zar Alessandro II oltre che altre figure istituzionali. Prese parte anche all’attentato del primo marzo 1881 nel quale, dopo una serie di tentativi falliti, i membri della Narodnaja Volja riuscirono nell’intento di assassinare lo zar. Dopo la morte di Alessandro II la repressione divenne inevitabilmente più dura, e la polizia arrestò gran parte dei narodnovolcy.
Vera fu arrestata solo due anni dopo a causa del tradimento di Sergej Degaev, uno degli appartenenti all’organizzazione, e dopo l’arresto fu portata a San Pietroburgo alla fortezza di Pietro e Paolo nella quale rimase per più di un anno fino al giorno del suo processo, il 24 settembre 1884, che si concluse con la condanna all’impiccagione. Dopo poco però la sua pena fu commutata in carcere a vita e lavori forzati. Così il 12 ottobre 1884 Vera fu trasferita alla fortezza di Šlissel’burg, una prigione creata apposta per i terroristi più pericolosi appartenenti alla Narodnaja Volja. La prigionia di Vera all’interno della fortezza durò venti anni.
Furono anni di completa solitudine nei quali le fu vietato ogni contatto con il mondo esterno, compresa la sua famiglia, e che ebbero un impatto devastante non solo sulla sua salute fisica, ma anche e soprattutto su quella psicologica. Nel settembre del 1904 fu liberata dall’allora zar Nicola II, e mandata in esilio a Nënoksa, città situata a nord ovest rispetto alla capitale. Durante questo periodo, l’ormai celebre rivoluzionaria decise di continuare a sostenere la lotta per la diffusione del socialismo senza entrare a far parte di nessun movimento politico. Nel 1921 riuscì a pubblicare le sue memorie in un libro in due volumi dal titolo Zapečatlënny trud (“Opera conclusa”). Dopo aver speso tutta la sua vita a combattere per diffondere le idee del socialismo, Vera Figner morì il 15 giugno 1942 all’età di 89 anni.
Autobiografia populista e autobiografia femminile si fondono
L’autobiografia scritta da Figner è di particolare interesse perché rientra allo stesso tempo in due categorie, quella dell’autobiografia populista e quella dell’autobiografia femminile, permettendoci in questo modo di comprendere come questi due aspetti si siano scontrati e poi fusi per dare origine alla figura della donna rivoluzionaria. L’autobiografia è un genere che ha le sue radici in quello medievale dell’agiografia (in russo žitie) e vedremo che, nonostante in apparenza possa sembrare controintuitivo, l’autobiografia rivoluzionaria ha mantenuto la struttura e i topoi delle agiografie medievali. Se si considera poi che queste autobiografie non erano scritte da persone qualunque ma da rivoluzionari il cui scopo era quello di lasciare una testimonianza dei propri sacrifici in modo tale da tramandare e diffondere i valori per i quali hanno combattuto, è facilmente comprensibile come anche il più laico dei rivoluzionari abbia trovato nel modello agiografico un degno strumento per la trasmissione dei propri ideali.
Un altro elemento che spiega la presenza di elementi religiosi in autobiografie altrimenti laiche è anche il tipo di società all’ interno della quale vivevano questi ragazzi, caratterizzata da una forte disuguaglianza tra nobili e masse contadine sia in termini di possesso di beni materiali e ricchezze, sia in termini di accesso all’ istruzione. In altre parole, le masse non erano istruite, e questa ignoranza faceva da barriera al processo di secolarizzazione che da tempo aveva interessato la nobiltà. La religione colmava il vuoto che aveva occupato il sapere scientifico, la letteratura e gli altri passatempi mondani. Ecco che ad esempio, nei racconti di alcuni rivoluzionari sentiamo di come i bambini fin da piccoli sfogliavano e leggevano le agiografie sempre presenti nelle case dei credenti, osservavano i genitori pregare ed erano educati secondo i principi cristiani.
Sei a letto, ma tua madre ancora non si è coricata; sta in piedi e prega davanti all’ altarino. Ecco che si genuflette, e con lo sguardo fisso sulle icone prega intensamente, quasi appassionatamente bisbigliando parole impercettibili di supplica-preghiera…
L’autobiografia populista nasce e si sviluppa a partire da scritti brevi, come poesie o memorie, che avevano lo scopo di onorare la memoria di un compagno non più in vita. Dunque uno dei motivi principali era, come accennato in precedenza, la necessità di tramandare dei valori e degli ideali ben precisi e di fare in modo che coloro che si sono battuti per difenderli venissero ricordati. Un altro motivo è riconducibile al contesto storico nel quale queste opere sono state scritte, siamo infatti nei primi anni del Novecento, e i narodnovolcy hanno ormai fatto il loro corso, lasciando il posto ad una nuova generazione di rivoluzionari che li vede come un modello.
Gli ex-rivoluzionari iniziano a sentire una sempre maggiore responsabilità, soprattutto per quanto riguarda il tema del ricorso al terrorismo come arma: Vera Figner ad esempio, in quanto appartenente a quella fazione che fin da subito appoggiò il terrorismo come mezzo di sovversione dell’ordine costituito, sentiva la responsabilità di aver contribuito ad introdurre questo elemento all’interno della lotta rivoluzionaria. Questo anche perché le nuove generazioni sembravano essere inclini più alla violenza fine a se stessa che all’adozione di principi morali saldi. Da qui nacque dunque l’esigenza di spiegare quei principi così fondamentali da giustificare il ricorso al terrorismo.
Questa esigenza comune ha portato i diversi autori a strutturare le loro opere in maniera simile, andando a formare nel corso del tempo un vero e proprio canone di autobiografia populista. Come detto in precedenza, la struttura di base è quella dell’agiografia, motivo per cui anche in questi scritti il racconto della vita è suddiviso in tappe, momenti che acquisiscono significato in quanto indicativi di un percorso fatto dal rivoluzionario che lo condurrà prima alla presa di coscienza della profonda ingiustizia che caratterizza la società, poi alla conseguente “conversione”, rappresentata qui come l’ adesione agli ideali del socialismo, e infine il sacrificio e il martirio che porta all’ ascesi.
Questo percorso inizia a partire dall’infanzia: un topos comune è infatti quello della precoce sensibilità del rivoluzionario, che lo porta fin da piccolo all’ introspezione e lo rende per questo motivo diverso dagli altri bambini. Abbiamo un esempio di questo topos nella poesia Sestre (“A mia sorella”) scritta da Figner nel 1888:
E di sera sei tutt’orecchi: / ti raccontano una storia …/ narrando in essa dei dolori , di un destino avverso […] / e sento che, con infantile tristezza, / hai iniziato a piangere a dirotto!
Altro topos che caratterizza il periodo dell’infanzia è sicuramente quello della lettura vista come un momento di crescita spirituale che collega l’infanzia all’adolescenza. Spesso questo atto è solitario e si contrappone a quello dell’apprendimento in classe o a casa durante le lezioni degli istitutori. Si tratta dunque di una scoperta intima, dettata da quell’innata sensibilità e curiosità che porta il giovane rivoluzionario a sentire il bisogno di acculturarsi, di ampliare la propria visione del mondo. In questo senso, le letture fatte fin dall’infanzia sono di fondamentale importanza per il rivoluzionario, il quale ripercorrendole nella sua memoria cerca di trovare in esse un filo conduttore e di spiegare al lettore in che modo hanno contribuito al suo sviluppo intellettuale e alla formazione del suo pensiero.
La conversione, costituita dall’adesione alla dottrina socialista rappresenta il culmine del processo di sviluppo intellettuale e morale iniziato già durante l’infanzia, che porta il giovane rivoluzionario a cercare una soluzione alle ingiustizie sociali. A livello storico, questo fenomeno si concretizza nella figura del nobile penitente, ovvero del ragazzo colto e sensibile che capisce di avere un enorme privilegio, e che questo privilegio è stato pagato da altri, ovvero i contadini. Certo questa presa di coscienza non nasce nell’Ottocento, come dimostra l’opera di Radiščev del 1790 intitolata “Viaggio da Pietroburgo a Mosca”, nella quale il protagonista racconta sconvolto della miseria e dell’ingiustizia che caratterizzano la vita quotidiana dei servi della gleba, costretti a lavorare senza mai riposarsi, ad essere al comando di padroni crudeli senza avere alcun diritto.
Cosa è cambiato dai tempi di Radiščev? La totale messa in discussione del sistema di valori sul quale si basava il potere autocratico causata dal diffondersi del nichilismo. In questo nulla che si era creato, la soluzione sembrava essere il socialismo, con la sua promessa di uguaglianza e di redenzione per coloro che fino a quel momento avevano tratto beneficio dallo sfruttamento delle masse. Il sacrificio è forse una delle tappe più delicate, nella quale il rivoluzionario è messo alla prova, nella quale si trova a dover scegliere tra vita personale e vita dedita alla causa, tra io e noi. In cosa consisteva concretamente il sacrificio che questi ragazzi dovevano essere disposti a compiere? Innanzitutto è bene specificare che sotto molti aspetti, per le donne il sacrificio ha assunto un significato e delle forme diverse rispetto a quello attribuitogli dai compagni uomini, e tuttavia ci sono alcuni elementi in comune.
Il primo è senz’altro la rinuncia alle aspirazioni personali: questo significa che molti, tra cui Vera, furono costretti a lasciare l’università e a rinunciare alla possibilità di fare carriera per dedicarsi alla diffusione del socialismo. Questa sorta di annullamento dell’io in favore del bene comune portava anche alla rinuncia ad avere una famiglia o ad ereditare le ricchezze dei propri genitori. Si può dire insomma che un rivoluzionario doveva essere disposto a vivere una vita quasi ascetica, dedicando tutto se stesso alla causa e sopprimendo le aspirazioni personali.
Un altro sacrificio che veniva richiesto era essere disposti al martirio. Il martirio rappresenta la fase finale del processo di ascesi, il suo completamento, motivo per cui per un rivoluzionario è un privilegio diventare un martire per la causa. Tuttavia si tratta di un atto che porta in sé un evidente paradosso: diventando martire l’individuo accetta di annullare completamente se stesso al punto di rinunciare alla vita, ma allo stesso tempo la natura umana interferisce con la visione ascetica del martirio e ad essa ne sostituisce una terrena secondo la quale il martirio non è desiderabile come atto di totale annullamento ma al contrario, è desiderabile perché è l’unico modo per lasciare traccia, per rimanere nella storia ed essere ricordati. Questa contraddizione la vediamo anche nell’autobiografia di Figner, nella quale l’autrice ammette esplicitamente di bramare il martirio e la gloria che da esso deriva, e vive l’annullamento della sua condanna come una punizione anziché come una fortuna.
Una prospettiva diversa
È possibile delineare alcune caratteristiche presenti nelle autobiografie scritte da donne, una fra tutte la presenza di quello che Barbara Heldt definisce come “split subject” o soggetto frammentato. La frammentazione dell’io nasce dalla difficoltà nel conciliare vita pubblica e vita privata che caratterizza tanto la vita delle autrici quanto quella delle loro protagoniste. Si tratta infatti di un problema prettamente femminile, che ha le sue origini nel fatto che fino all’ epoca moderna, perlomeno all’ interno della società russa, le donne fossero limitate a vivere la loro vita all’ interno delle mura domestiche senza avere un posto all’ interno della vita pubblica.
L’autobiografia populista è un genere nel quale la vita pubblica prevale su quella privata, poiché è proprio la vita pubblica caratterizzata dall’attivismo politico che è degna di essere raccontata. Vediamo dunque un processo di emancipazione che porta le donne ad affermarsi all’ interno della vita pubblica grazie all’ attivismo politico, e tuttavia per ottenere questa emancipazione c’è un prezzo da pagare, ed è rinunciare alla vita domestica e ad avere legami affettivi in generale, anche con i familiari. Sebbene per molte ragazze non sia stato facile rinunciare alle proprie aspirazioni e ai propri affetti, questa scelta non era un vero e proprio sacrificio, almeno non dal loro punto di vista: se la famiglia era un’ istituzione oppressiva, rinunciarvi non era un peso ma una liberazione, e se l’attivismo politico permetteva loro di far sentire la loro voce, di istruirsi e partecipare alle discussioni sul futuro del paese, allora questo diventava un’ opportunità e non una rinuncia.
Questo modo di ragionare fa anche comprendere quale fosse l’approccio alla questione femminile da parte delle donne radicali : data la poca importanza accordata alla vita privata, il populismo non si interessava in particolar modo di questioni ad essa legate come quella dell’emancipazione femminile. Tuttavia esisteva all’ interno del populismo un’ opinione in merito, ovvero che l’emancipazione potesse essere ottenuta in maniera pratica rinunciando a conformarsi al modello di femminilità imposto dalla società, e dunque al ruolo di moglie e madre, e dimostrando di poter fare le stesse cose che facevano gli uomini, ottenendo così la parità di genere.
Per comprendere quale sia la differenza di prospettiva e quali sono le peculiarità sia dell’opera che della storia di Figner, è possibile analizzare la sua autobiografia considerando le varie tappe che costituiscono la sua autobiografia (infanzia, conversione, sacrificio, martirio) in quanto corrispondono a quelle che sono le tematiche principali se si parla di differenza di genere (nell’Ottocento e per certi versi ancora oggi) ovvero l’infanzia, l’educazione, il matrimonio e la famiglia e il concetto di sacrificio e sottomissione alla volontà del marito e alle norme sociali.
Nel racconto della sua infanzia, ovvero l’inizio del percorso di ascesi del rivoluzionario, oltre ai topoi visti in precedenza, Vera ne aggiunge altri. Primo fra tutti quello della famiglia: la descrizione della sua famiglia apre infatti il primo capitolo ed è molto dettagliata. La scelta di soffermarsi su questo argomento non è casuale, la famiglia era infatti un ambiente nelle quali le bambine facevano esperienza per la prima volta delle dinamiche di potere esistenti tra uomini e donne, tra mogli e mariti. Ecco che la descrizione del rapporto esistente fra i genitori assume importanza in quanto spunto di riflessione sul modo di reagire spesso remissivo proprio delle madri e su come questo atteggiamento nei confronti dell’autorità venisse insegnato anche alle figlie:
Durante questi scatti d’ira [mia] madre solitamente rimaneva in silenzio e sedeva con lo sguardo rivolto verso il basso: nemmeno una volta ha interrotto nostro padre in nostra presenza o discusso con lui, così come non hanno mai litigato tra di loro davanti a noi.
Altro topos delle autobiografie è quello dell’eccezionale sensibilità e unicità del rivoluzionario, che fin da bambino si distingue dagli altri. Dal punto di vista femminile questa unicità si caratterizza non solo dalla sensibilità ma anche dal rifiuto della propria femminilità percepita come frivola. Ecco che le rivoluzionarie come Vera ci tengono a precisare che loro non passavano il tempo a giocare con le bambole o a pensare al matrimonio come facevano le altre bambine della loro età, e se ammettono di averci pensato, commentano quel momento di frivolezza sostenendo che la vera realizzazione per loro sarebbe arrivata non con il matrimonio ma con la decisione di diventare rivoluzionarie. Vera ad esempio racconta di come da bambina le avessero accennato che sarebbe andata a studiare all’istituto Smol’nyj di Pietroburgo, istituto prestigioso fondato da Caterina la grande nel quale venivano formate le giovani nobildonne che dovevano fare il loro debutto in società.
Così Vera aveva iniziato ad immaginare che anche lei sarebbe diventata una dama, e che quasi sicuramente il futuro zar l’avrebbe convocata a corte per scegliere fra tutte le nobildonne la sua futura moglie. Sognava insomma che un giorno anche lei, come le principesse dell’antichità, sarebbe diventata zarina. Questo sogno infantile, raccontato con l’intento di divertire il lettore, diventa presto un’ opportunità per sottolineare che all’ epoca Vera ancora non immaginava che un giorno sarebbe diventata veramente una regina ma non a palazzo, bensì all’ interno della fortezza di Schlisselburg, dove i compagni avevano iniziato a chiamarla così per via del suo orgoglio di donna nobile che sebbene avesse avesse rinunciato alle ricchezze e ai privilegi della propria classe, conservava gelosamente quell’orgoglio e quella dignità che la contraddistingueva rispetto ai suoi compagni.
Ad ogni modo, la vita ha successivamente realizzato in maniera alquanto particolare le mie aspirazioni infantili , e ho ricevuto, se non un impero, quantomeno un regno. A Schlisselburg, dove tra i detenuti c’erano solo due donne, Volkenstein ed io, i nostri compagni rallegravano la miseria della nostra vita in prigione con un tocco di tenerezza, chiamandoci “le regine”. Eppure non indossavo porpora rossa ed ermellino bianco, ma una tuta da prigione grigia con una toppa gialla a forma di diamante sulla schiena.
Anche la conversione assume altri significati se vista dal punto di vista femminile. Mentre per gli uomini l’adesione alle dottrine socialiste era il frutto della presa di coscienza dell’esistenza di profonde ingiustizie sociali e, spesso un modo per poter ripagare il debito nei confronti delle masse, per le donne l’adesione al socialismo è strettamente collegata al tema dell’emancipazione. Il fatto che per le donne radicali “convertirsi” al socialismo sia stata un’opportunità di emancipazione è comprensibile se si considera che l’attivismo politico permetteva loro di inserirsi all’interno del dibattito sociale e di parteciparvi attivamente senza essere per questo giudicate dai compagni, permettendogli di trovare il loro posto all’interno della società, un’identità autonoma che non fosse invece legata a quella del marito. La possibilità di partecipare ai gruppi di discussione era un’occasione per poter dire la loro opinione su quali fossero i cambiamenti necessari da attuare all’ interno della società, facendo così emergere tutte le problematiche relative alla questione femminile.
Un altro contributo del socialismo all’ emancipazione femminile fu senz’altro l’aver cercato di stabilire una certa, seppur imperfetta, uguaglianza tra uomini e donne, per cui le ragazze avevano finalmente un’ altra prospettiva, un futuro a cui aspirare che non fosse fatto solo di vita domestica e anonimato ma bensì di partecipazione attiva alla diffusione del socialismo e dunque la possibilità di fare la storia. Nella sezione della sua autobiografia intitolata Nastroenije (“Umore”), Vera descrive la sua decisione di dedicare la vita agli altri diventando medico,e sottolinea come il motivo principale non sia stato un senso del dovere ma anzi la possibilità di essere libera nella sua scelta e di poterla quindi vivere con gioia, esprimendo appieno se stessa.
Non il pensiero del dovere nei confronti del popolo, né la coscienza del “nobile penitente” mi hanno spinto a studiare per il posto di medico di campagna. La mia motivazione principale è stata l’umore. Un eccesso di forze vitali delle quali ero inconsapevole, ma che permeava il mio intero essere, mi eccitava; e, dopo il periodo trascorso tra le quattro mura dell’istituto, una gioiosa sensazione di libertà riemerse. Era questo eccesso di felicità […] a costituire l’origine delle mie aspirazioni altruistiche.
Quello del sacrificio è forse uno dei topoi che cambia in maniera più drastica dal punto di vista maschile a quello femminile. A mio avviso, il sacrificio ha due forme principali, ovvero la rinuncia che riguarda la vita privata, e il martirio che riguarda invece quella pubblica. Alle donne era stato insegnato solamente il primo tipo di sacrificio, essendo costrette a vivere la loro vita tra le mura domestiche, mentre agli uomini veniva insegnato a identificarsi e combattere per una causa comune. Questa sorta di suddivisione dei ruoli si era purtroppo conservata, come visto precedentemente, anche all’interno dei gruppi rivoluzionari, dove gli uomini avevano il compito di organizzare e partecipare agli attentati, mentre alle donne venivano solitamente lasciati i compiti meno rischiosi come fare propaganda o aprire attività commerciali che servissero da copertura per fare in modo che un gruppo di populisti potesse incontrarsi liberamente all’ interno del negozio senza destare sospetti.
A tal proposito Vera racconta di come ad un certo punto si sia dovuta imporre per fare in modo che i suoi compagni la lasciassero partecipare all’ esecuzione di un attentato:
Siccome per me era insopportabile il pensiero che mi sarei dovuta fare carico solamente della responsabilità morale senza partecipare concretamente ad un atto per il quale la legge minacciava i compagni con le punizioni più severe, allora ho fatto il possibile affinché l’organizzazione mi desse un qualsiasi incarico nell’esecuzione del suo piano.
Questo passaggio è interessante per due motivi: il primo è che inizialmente le è stata negata la possibilità di partecipare all’ attentato insieme ai suoi compagni proprio perché a causa dei pregiudizi si pensava che quello non fosse un ruolo adatto ad una donna. Il secondo risiede nel fatto che qui Vera parla esplicitamente di “responsabilità morale”, sottolineando così che si trattava di azioni che non sarebbero normalmente giustificabili a livello morale, compiute solo in nome della libertà del popolo. Il terzo e ultimo motivo è che, ancora una volta, il sacrificio ci viene presentato nella sua natura ambivalente: Vera vuole sacrificarsi per la causa, per lei è un onore ancora prima che un dovere; come lascia intendere quando non obietta al rimprovero del comitato organizzativo, che l’ha accusata di cercare un suo momento di gloria personale anziché pensare alla causa.
Per quanto riguarda l’ultimo topos, quello del martirio, è possibile individuare un altro episodio nel capitolo nove intitolato Golodovka (“Sciopero della fame”). Qui viene descritta una protesta avvenuta in seguito alla decisione da parte delle autorità di rimuovere dalla biblioteca della prigione tutti i libri che contenevano idee giudicate sovversive. Per esprimere il loro disappunto, Vera e altri decisero di comune accordo di iniziare uno sciopero della fame. Purtroppo però Vera fu una dei pochi a continuare lo sciopero, mentre gli altri detenuti dopo nove giorni decisero di interrompere il digiuno. Verso il dodicesimo giorno di protesta, due detenuti amici di Vera le comunicarono che se lei si fosse lasciata morire di fame allora anche loro si sarebbero suicidati. Questo ultimatum non le fu gradito, e nelle sue memorie ha scritto a tal proposito:
Quello era un ricatto morale, e ciò mi mandava su tutte le furie. Ma come! Questi uomini che prima erano d’accordo con me e dopo, per di più senza avermelo chiesto, si sono tirati indietro, ora osano pretendere lo stesso da me! Il loro ego maschile non può ammettere che lì dove loro hanno rinunciato, una donna si sia dimostrata più coerente e moralmente salda di loro; si vergognano e vogliono portarmi al loro stesso livello; non volevano morire, e così mi costringono a vivere!
In questo passaggio Vera racconta in maniera esplicita di come non ha creduto nemmeno per un attimo che la richiesta dei due compagni fosse motivata dall’affetto che provavano nei suoi confronti, e che il vero motivo era che si sentivano feriti nell’orgoglio per non essere riusciti a resistere al sacrificio mentre lei che era una donna c’era riuscita. Nonostante si tratti di una supposizione, è probabile che, anche se inconsciamente, i suoi compagni restassero comunque influenzati da certe idee relative al sacrificio e alla capacità delle donne di sopportarlo. La tradizione cristiana infatti insegna che il martirio richiede, oltre al coraggio, una forza fisica che solo il sesso maschile possiede. Nel contesto della prigione la sofferenza si sposta su un piano prettamente fisico e questo contribuisce a rendere più evidenti quelle differenze a livello di genere che fino a quel momento erano state ignorate.
Anche se i rivoluzionari potevano accettare che le loro compagne di sesso femminile avessero la loro stessa forza di volontà, tuttavia faticavano a concepire che delle donne potessero avere più coraggio di loro e la capacità di sopportare meglio di loro la sofferenza fisica data non solo dal digiuno, come in questo caso, ma dalla prigionia in generale. Il fatto che Vera sia riuscita a sopravvivere a quella condizione e a sopportare la fame e l’idea della morte a differenza degli altri detenuti di sesso maschile, mette in discussione dei preconcetti secolari.