Praga come centro dell’arte contemporanea? Osipova, Horváthová e Nováková, passando per Badiucao

Perché, come il poeta Karel Toman afferma, «l’unica legge è germogliare e crescere, – crescere nella tempesta e nelle intemperie – a dispetto di tutto». E dunque: alla malora gli aruspici e le puttanesche sibille. Non avrà fìne la fascinazione, la vita di Praga.

 

Con queste celebri battute Angelo Maria Ripellino concludeva la sua Praga Magica, pubblicata da Einaudi nel 1973. Questa sua affermazione, posta non tanto in veste di auspicio ma, piuttosto, come solida constatazione, trova la sua conferma nell’aspetto in cui la città boema si presenta oggi agli occhi dell’osservatore contemporaneo. L’unicità e la fascinazione di Praga si rivelano in uno spettro culturale particolarmente ampio, abbracciando le manifestazioni estetiche più disparate. In quest’ampio bacino le arti figurative svolgono un ruolo di prim’ordine. 

 

Sebbene nel panorama italiano l’arte ceca goda di minore ricezione rispetto ad altri contesti come quello francese, tedesco e, in parte, russo, gli artisti cechi sono sempre stati in grado di inserirsi appieno nelle maggiori correnti europee, declinandole in soluzioni originali. Ciò avveniva in modo evidente alla fine del XIX secolo durante quella che in ceco viene definita Secese dal termine tedesco Secession impiegato per la prima volta sulla rivista monacense “Jugend” da Georg Hirth, giornalista e editore tedesco che promosse lo stile dettato dall’Art Nouveau. Mentre in Austria si affermavano pittori come Gustav Klimt o Egon Schiele, nei territori dell’attuale Repubblica Ceca – all’epoca sotto il dominio austriaco – emergevano figure come quelle dello scultore František Bílek o del pittore Alfons Mucha, che divenne particolarmente famoso negli ambienti parigini dell’epoca. A Praga si muovevano dunque i primi passi verso la progressiva costruzione di un dialogo artistico di stampo internazionale, bruscamente spezzato dallo scoppio della Grande Guerra. Una battuta d’arresto che ebbe una strabiliante ripresa nel periodo interbellico, la meziválečná doba.

 

In una Cecoslovacchia neoindipendente, nata dalle ceneri dell’Impero Austro-ungarico, iniziarono a svilupparsi circoli di artisti, letterati e intellettuali particolarmente floridi. Alla base di questa nuova stagione artistica si trovavano principalmente due spinte motrici. 

 

Innanzitutto, l’intenzione programmatica di far conoscere all’estero la cultura ceca e slovacca e, in secondo luogo, questa spiccata volontà di costruire un dialogo con la dimensione europea, prediligendo i contatti con la scena artistica francese. Difatti, Parigi rappresentava un punto di riferimento e, soprattutto, di scambio importantissimo per gli intellettuali cechi. Nutrirsi delle tendenze del panorama artistico internazionale significava aderire ai movimenti d’avanguardia che erano si erano affermati nei grandi centri europei come Monaco, Berlino e, ultimo ma non per importanza, proprio Parigi. 

 

La stagione delle avanguardie interessò il contesto cecoslovacco in termini quantitativi e qualitativi, insinuandosi nei diversi strati culturali che contribuivano a formare l’identità artistica del paese. Il progressivo affermarsi della città come una delle più importanti dimensioni artistiche non si è esaurito in questa parentesi ventennale, ma prosegue sino all’estrema contemporaneità secondo un processo che, per certi versi, manifesta una continuità assente in altri contesti europei. Un aspetto particolare ed insolito è, ad esempio, il fatto che il movimento surrealista ceco, che in ambito letterario venne istituito sotto la guida di Vítězslav Nezval – una delle voci poetiche più importanti della storia letteraria ceca – e che vide l’adesione di figure come quelle di Jindřich Štyrský o Toyen, ebbe una continuazione anche dopo la Seconda Guerra Mondiale grazie a Vratislav Effenberger e al contributo di artisti e letterati che credevano fermamente tanto nell’attualità dei principi estetici del surrealismo interbellico, tanto nella necessità del suo adattamento a una nuova fase della storia cecoslovacca che si sarebbe rivelata ben presto la sua tragicità.

 

 

 

 

 

Il panorama artistico contemporaneo non tradisce questa fisionomia dinamica e cangiante che ha nutrito la cultura ceca nel secolo scorso. Difatti, Praga si presenta come una città particolarmente ricca di mostre e iniziative artistiche. Quasi a mo’ di “guida turistica” di base si possono elencare alcuni di quelli che sono i luoghi “imprescindibili”. Innanzitutto, la Národní Galerie v Praze – NGP (Galleria Nazionale), allestita all’interno del Veletržní palác, edificio in stile funzionalista frutto della collaborazione degli architetti Josef Fuchs Oldřich Tyl e costruito tra il 1925 e il 1928. La particolarità di questa collezione – magistralmente musealizzata – è quella di offrire uno sguardo ampissimo sull’evoluzione dell’arte ceca e, in parte, slovacca attraverso soprattutto il XX secolo.

 

Un altro sito particolarmente interessante è il Museum Kampa situato per l’appunto a Kampa, l’isolotto separato dal canale Čertovka (Diavolessa). Sebbene la dimensione del museo sia di gran lunga inferiore a quello della NGP, esso rappresenta una vera perla espositiva che comprende sia una sezione dedicata ad allestimenti temporanei, sia una permanente dove viene ricostruita in modo molto dettagliato l’evoluzione artistica di František Kupka, altro pittore che, come Mucha, fece fortuna lungo le rive della Senna.

 

Un altro spazio espositivo che va a completare questo terzetto è il Centrum současného umění DOX (Centro dell’arte contemporanea DOX). Situato nel luogo in cui in passato sorgeva la Rossemann & Kühnemann Co, è stato aperto in tempi relativamente recenti, nel 2008. Esso si pone come primo obiettivo quello di permettere ai suoi visitatori di esplorare la dimensione contemporanea, non solo ceca ma anche internazionale.

 

A questi vi si potrebbe poi aggiungere un quarto spazio aperto nel febbraio di quest’anno, la Kunsthalle Praha. Interessante è, innanzitutto, la struttura architettonica: il complesso espositivo è stato situato all’interno di un edificio in stile neoclassico costruito all’inizio degli anni Trenta su progetto dell’architetto di Vilém Kvasnička che aveva la funzione di una stazione di trasformazione dell’energia elettrica. La riqualificazione dell’edificio, soprattutto degli interni, ha prodotto degli spazi sicuramente affascinanti e funzionali all’allestimento di esposizioni come quella dedicata all’arte cinetica (Kinetismus), che ne ha accompagnato l’inaugurazione. 

 

A completamento di questa introduzione occorre considerare un ulteriore aspetto già menzionato di sfuggita precedentemente, ovvero il fatto che la vitalità delle arti figurative a Praga non si esaurisce affatto nei luoghi indicati sinora. In particolare, la città brulica di spazi espositivi indipendenti, atelier e luoghi in cui operano non solo artisti affermati, ma anche e soprattutto coloro che appartengono alle generazioni più giovani. Un caso emblematico di questo fenomeno è sicuramente rappresentato dal quartiere di Holešovice, incastrato tra due dei più importanti parchi della città, il Letná e lo Stromovka. Quartiere in cui è situata AVU, Akademie výtvarných umění (il corrispettivo della nostra Accademia di Belle Arti), Holešovice si presenta come un quartiere particolarmente vivo dal punto di vista artistico, non a caso sede sia di NGP che di DOX.

 

A questo si può aggiungere un altro luogo particolarmente interessante, ovvero MeetFactory, con sede nel quartiere di Smíchov, un importantissimo centro e punto di riferimento per molti di coloro che partecipano alla vita culturale della capitale.

 

In chiusura, è bene segnalare l’esistenza del sito ArtMap, purtroppo accessibile solo in ceco, in cui è possibile trovare le principali iniziative artistiche organizzate non solo a Praga, ma anche in altre città della Repubblica Ceca.

 

 

 

 

Rapporti di potere. Qualche appunto sulle attuali installazioni di DOX



 
 

DOX merita sicuramente qualche appunto di come gli spazi, divisi in tre differenti edifici (A, B, C), siano organizzati e gestiti. Attualmente DOX offre tre diverse mostre temporanee, il cui fil rouge può essere individuato, in un certo senso, nelle dinamiche che intercorrono con la dimensione del potere in diverse sue forme. La prima è “(NE)MOC” (3/06 – 6/11) e si apre con la citazione del pittore Zdeněk Košek (1949-2015):

 

Nebyl jsem nemocný, byl jsem mocný až moc.

Non ero malato, ero troppo potente.

 

Il titolo contiene un gioco di parole che è, al tempo stesso, la chiave di lettura di tutta l’esposizione. Difatti, con un riferimento all’aggettivo “bezmoc” (letteralmente “impotenza” da cui deriva l’aggettivo “bezmocný”, tradotto con “senzapotere”), si potrebbe tradurre (NE)MOC con (Senza)potere – come appunto viene fatto nella versione inglese del sito –. Tuttavia, la parola “nemoc” ha in ceco anche un ulteriore significato, quello di “malattia”. Questo dualismo semantico è uno degli aspetti su cui il percorso di (NE)MOC si costruisce. L’intento è quello di indagare le modalità con cui si manifesta il rapporto che intercorre tra potere e senzapotere e di come questo si riversi nell’arte contemporanea ceca e internazionale.

 

Sebbene la maggior parte delle opere esposte siano realizzate da artisti cechi e slovacchi, si trovano anche esempi provenienti da altri contesti stranieri. Tra questi, è interessante ed emblematico osservare come la mostra si apra con uno spazio completamente dedicato a Elena Osipova (1945 -). Personalità non sconosciuta in Italia grazie ad articoli dai titoli bizzarri come “la nonnina russa che chiede la pace” (Repubblica) o accezioni quali “l’anziana sopravvissuta ai nazisti”, Elena Osipova è una pittrice e un’attivista russa. DOX sta esponendo alcune sue opere, tra cui Zverstva v Buče (La strage di Buča) del 24 aprile 2022, accompagnate da un video che mostra la sua partecipazione alle proteste pietroburghesi tra febbraio e marzo.

 

La scelta di collocare Osipova in una posizione così strategica come l’ingresso dell’esposizione accanto a opere del ceco Martin Kocourek (1976 -) che indagano anch’esse il tema del potere all’interno della dimensione bellica e un’opera dell’italiano Maurizio Cattelan (1960 -), è evidentemente significativa per due ragioni. La prima risiede nel fatto che chi visita (NE)MOC ha subito chiara questa struttura di interconnessione tra contesti artistici differenti e la seconda risponde all’urgenza di mostrare come gli eventi storici confluiscano in modo diretto nell’arte, rivelando una delle sue più importanti – e ora più che mai vitali – funzioni, ovvero quella di diventare un veicolo in cui incanalare la propria risposta a quest’ultimi, nel caso di Osipova questa corrisponde a un atteggiamento di radicale dissenso.

 

 

 

 

 

Si è detto che le varie opere esposte interrogano il potere nelle sue diverse manifestazioni, esplorando i suoi effetti tanto nella dimensione pubblica quanto in quella privata. Il concetto di potere si intreccia ad altri due importanti questioni, quella della libertà (del singolo e della comunità) e al concetto di abuso; in una società di abusi e abusati la libertà diventa al tempo stesso la più grande privazione e il più grande impulso alla lotta per la riconquista di quest’ultima. 

 

A questo proposito, nell’indagine degli effetti del potere una dimensione a cui viene dato largo spazio è quella psichica, ovvero come l’esercitazione del potere affligga la psiche di chi ne è vittima, come la condizione di abusato sia interconnessa alla sfera della malattia. Una malattia che affligge non solo l’uomo ma anche l’elemento inanimato, come nel caso delle città rappresentate dalla ceca Jana Kasalová (1974 -) attraverso una manipolazione delle cartine geografiche: accartocciate, cancellate, insanguinate, semplici oggetti dediti all’orientamento diventano simbolo in una dimensione caotica in cui regnano la perdita di riferimenti, la dimenticanza e l’abbandono.

 

 

 

 

 

 

La dimensione dell’abuso e i suoi risvolti sulla dimensione psichica vengono indagati anche nell’ambito privato. Nel contesto di (NE)MOC interessante è il caso dell’artista Iveta Horváthová (1967 -), in arte Rimini Fíli. Romani di origine, a Iveta appartiene un passato tutt’altro che semplice. Dopo essere stata abbandonata dalla madre, ha subito abusi da parte di una famiglia ospitante. Dovendosi guadagnare da vivere da sola già all’età di 15 anni, l’artista ha attraversato periodi particolarmente complessi sia da un punto di vista economico – trovandosi costretta a cambiare impiego e a vivere spesso per strada – sia in relazione alla gestione di gravi problemi psicologici. Ricoverata nel centro psichiatrico praghese di Bohnice, la dimensione artistica si è confermata essere un personale ed efficacie mezzo espressivo. 

 

La sua arte, caratterizzata soprattutto da un’impronta astratta che impiega la tecnica dell’automatismo psichico, è espressione diretta della sua percezione del mondo e rappresentazione di esseri umani e demoniaci, a cui si aggiunge anche una tendenza a rappresentare leader politici in chiave satirica. In un’intervista del 2015 le è stato chiesto “Lei dice che fa riferimento diretto alla sua vita, quanto la influenza la malattia?”. La risposta di Horváthová recita: 

 

Soffro di schizofrenia dall’età di otto anni. Da quel momento in poi i miei problemi mentali sono peggiorati sempre di più, finché un giorno sono esplosi come una pentola a pressione. Sono stata trattata come una malata di mente dall’età di vent’anni, quando ho cercato di togliermi la vita. Quando mi sentivo davvero male, venivo presa da un istinto maniacale, strappavo i miei dipinti, li distruggevo e poi li rimettevo insieme pezzo per pezzo. La malattia mi colpisce ad ogni passo. Forse è per questo che la mia ultima mostra si chiama Doppia personalità.

 

Interessante è anche osservare come risponde alla domanda “Quando ha dipinto il primo quadro?”:

Il primo? Quando avevo circa otto anni. All’epoca mi piacevano le illustrazioni nei libri e ho cercato di dipingere qualcosa di simile su carta. Ho iniziato a dipingere di più da adulta. È stato su istigazione di un medico dell’ospedale psichiatrico in cui ero ricoverato quando ho tentato il suicidio. Avevo vent’anni allora. Ricordo che mi disse di provare a dipingere uscendo dallo stato depressivo e l’ho fatto. Non dipingevo affatto nel modo che si potrebbe immaginare, sotto i miei pennelli sono emersi ritratti di artisti famosi o varie caricature. Il dottore mi disse che avevo talento e che potevo continuare a farlo. E vede, io continuo a farlo davvero. In quel periodo ho dipinto molti quadri, alcuni li ho dati ad amici e altri ne ho venduti. I miei preferiti li mostro al pubblico. […]

 

 

 

 

 

La questione del rapporto tra malattia e arte indagata in Horváthová le opere dello statunitense George Widener (1962 -), presente anche in un documentario dove l’artista racconta in prima persona le vicende relative alla sua evoluzione artistica, dove le sue strabilianti abilità mnemoniche vengono impiegate come mezzo strumento per la realizzazione delle sue opere. 

 

Questo dialogo interazione a cui si è fatto spesso riferimento sinora si fa più esplicito considerando che la seconda esposizione di DOX è invece legata a una figura molto importante nel contesto dell’arte cinese. “BADIUCAO: MADe IN CHINA” (13/05 – 18/08) presenta una selezione di opere dell’artista attivista cinese Badiucao (1986), pseudonimo impiegato in passato per proteggere la propria identità. Senza indagare nello specifico caratteristiche dell’arte satirica e di protesta di Badiucao, cosciuto anche in Italia a seguito della mostra “La Cina (non) è vicina. Badiucao – opere di un artista dissidente” tenutasi recentemente a Brescia tra il 13/11/2021 e il 20/02/2022, basti sottolineare l’emblematica selezione di opere effettuate dalle curatrici. Sebbene non sia molto ricca di opere, la scelta di concentrarsi su singoli temi si mostra molto efficacie. MADe IN CHINA si apre con l’opera Diario di Wuhan, con testimonianze tratte da coloro che hanno vissuto in prima persona le primissime fasi della diffusione del COVID-19.

 

Il secondo aspetto interessante è la scelta di esporre le recenti opere in cui Badiucao rappresenta il suo dissenso nei confronti della guerra in Ucraina. A ciò si lega l’ultimo elemento che rappresenta il terzo punto di forza dell’esposizione. La sala in cui questa si conclude è occupata dall’opera Amo il mattutino odore di soia. L’unica parete illuminata occupa un enorme ritratto che simboleggia il potere del governo cinese. La grandezza del dipinto è contrastata dal numero di bottiglie di soia poste sul pavimento. Queste, agghindate come delle bombe molotov, emanano un fortissimo odore di soia che investe tutta la stanza simboleggiando la lotta dal basso contro i poteri forti, la ribellione al Potere nella sua forma istituzionale e la reazione nei confronti degli abusi perpetuati da quest’ultima: un messaggio perfettamente in linea con il percorso proposto in (NE)MOC.

 

 

 

Via Vitae. Intorno all’arte di Věra Nováková

 

 

Via Vitae (36/06 – 16/12) è la terza e ultima esposizione ospitata da DOX, dedicata a Věra Nováková (1928 -). Sin dal titolo latino è possibile individuare come essa si proponga di essere un percorso attraverso l’evoluzione artistica della pittrice ceca. Sebbene non si tratti di una classica retrospettiva (manca infatti una distribuzione che segua un ordine cronologico e le singole opere sono state disposte senza seguire una vera e propria continuità), il percorso curato da Otto M. Urban e Michaela Šilpochová riesce appieno nell’intento di mostrare le peculiarità dell’arte di Nováková.

 

L’assenza di un ordine generale non è generatrice di caos, permette al contrario di percepire in modo diretto la grande sperimentazione pittorica e come l’indagine estetica abbia, in fasi diverse, attraversato diverse soluzioni stilistiche e compositive. A completare le opere esposte è presente anche un documentario girato in occasione della mostra, dove la pittrice si racconta e racconta il significato di alcune delle opere, sebbene le due linee narrative non procedano su binari paralleli, ma avviluppandosi lungo tutta la visione.

 

 

 

 

Di potere e di rapporto con il potere occorre parlare anche nel caso di Nováková. Prima di spiegare in che modo di sia sviluppato e contrastato questo rapporto, occorre prima brevemente introdurre la pittrice con pochi ed efficaci accenni biografici. Nováková nasce nel 1928 a Praga. Dopo aver completato gli studi liceali viene presa ad AVU nel 1947, dove inizia un percorso di studi sotto la guida di Vladimír Sychra. Tuttavia, il 1948 segna un precoce punto di rottura nella carriera della pittrice. 

 

In seguito alla presa del potere da parte del Partito Comunista Cecoslovacco guidato da Klement Gottwald, il destino di Nováková si accoda a quello di molti altri, tra cui colui che diverrà il suo futuro marito, Pavel Brázda (1926-2017), anch’egli pittore. Difatti, inseguito all’istituzione di una Cecoslovacchia comunista basata sul modello sovietico, ha inizio un periodo particolarmente complesso a livello sociale e, in particolare, per quanto riguarda gli ambienti artistico-letterari. Nel corso di questi eventi molti studenti vengono espulsi da AVU per motivi politici, che erano legati ai motivi più disparati, dalle origini famigliari al tipo di produzione artistica di cui erano autori.

 

Un’arte come quella di Nováková non avrebbe mai potuto incontrare e, di fatto, non incontrò mai il consenso ad essere esposta pubblicamente. Questa impossibilità non è tanto dovuta, forse, al tipo di temi scelti dalla pittrice nelle sue tele ma, piuttosto, al modo in cui questi temi venivano trasposti sulle tele. La realtà e, in particolare, la dimensione umana in ogni sua forma sono tra i soggetti maggiormente indagati – è la stessa Nováková ad affermarlo nel video proiettato all’interno della mostra, parole che a memoria suonano “è l’uomo a interessarmi”. Nelle opere esposte si può cogliere, come affermato, una sperimentazione che riguarda non solo l’approccio a diverse correnti, ma l’uso dei materiali: alla tela e al colore vengono aggiunti materiali “esterni”, come le pietre che acquistano così una funzione nuova nell’atto estetico.

 

A emergere sono, inoltre, temi ricorrenti come l’utilizzo di simbolo ed eventi biblici, l’interesse per la rappresentazione dei corpi, tra cui la sperimentazione dell’autoritratto tanto in chiave “tradizionale” quanto impiegando un filtro surrealista. Tra le sperimentazioni più interessanti c’è la tendenza a impiegare le lettere dell’alfabeto latino. Talvolta questi segni sono portatori del significato stesso del quadro, diventando rappresentazione di altro e parte integrante della struttura del soggetto raffigurato o scolpito. Tra queste lettere a svolgere un ruolo di primaria importanza è la S, che, come affermato da Nováková, è rappresentazione del movimento.

 

Si può ritornare dunque a quanto affermato all’inizio di questo breve excursus sull’arte di Nováková: le opere di cui il visitatore contemporaneo può liberamente fruire hanno potuto trovare una propria esposizione pubblica solo nei primi anni Novanta, dopo la Rivoluzione di Velluto che portò al crollo del regime. L’occasione per la pittrice di vivere una verità a lungo conservata nell’intimo ambiente domestico, trasportando su tela il dinamismo in un gesto di resistenza durato oltre quarant’anni.

 

Ho semplicemente reagito attraverso il mio lavoro a ciò che stavo vivendo, a ciò che mi faceva soffrire, a ciò che mi preoccupava, a ciò che mi rendeva felice. In realtà, ero libera.

 

 

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