Fondata a Mosca da Vitalij Komar e Aleksandr Melamid in piena epoca brežneviana, la Sots-art risuonò nel torpore culturale di quegli anni, e in risposta ad esso, come una sferzante risata. Utilizzando in parte gli strumenti e i luoghi comuni del loro corrispettivo statunitense, le sots-art decostruirono però un inconscio collettivo plasmato da altri paradigmi, storie, immagini: il mondo comunista. Se la pop-art americana individuava negli oggetti di produzione di massa e nell’estetica industriale il condizionamento primario dell’immaginario collettivo americano, nel mondo sovietico i significanti – visivi, letterari, sloganistici – erano altri: gli ideologemi comunisti. Oltre all’importante contributo al panorama filosofico post-moderno dell’epoca, la Sots-Art riscosse un successo popolare e di critica significativi, travolgendo la produzione underground e donandole nuove possibilità di espressione e dissidenza.
1972, Mosca
Komar e Melamid, due pittori concettuali, invitano un amico a visitare il loro atelier che, notando nei loro dipinti un forte ascendente degli elementi propagandistici dell’immaginario collettivo sovietico, definisce le loro opere come una variazione russa alla pop-art americana. Il paragone, seppur ardito, piace ai due artisti, che battezzano così il loro esperimento “Sots-Art”, un calco dall’inglese Pop art, in cui “sots” sta per socialističeskij, cioè socialista, e “art” per arte. Questo originale espediente segnala la duplice volontà dei suoi fautori per un verso di ironizzare sulla roboante retorica socialista, per l’altro di decifrarne il codice per prenderne maggiore consapevolezza: il materiale e la linfa della loro ricerca artistica, infatti, sono la retorica, gli slogan, le immagini di propaganda, ovvero i minimi comuni denominatori culturali della quotidianità sovietica che avevano colmato, si potrebbe dire quasi estenuato, di Significati – escatologici, totalizzanti, assoluti. Per questo, come tali, meritavano di essere storicizzati e moltiplicati come “oggetti di consumo, che, serializzati, avrebbero immediatamente perso la loro cacofonica aspirazione all’Assoluto, tramutandosi in un prodotto dal gusto neanche troppo velatamente kitsch finalmente consegnato nelle mani di chi, prima che loro consumatore, era stato da loro consumato: il popolo sovietico. Se all’apparenza si potrebbe dunque far combaciare l’esperienza statunitense con quella sovietica, quest’ultima, in realtà, si caricò anche di altri significati che ampliarono la portata e l’assetto del movimento artistico, poiché allo stesso modo il sostrato culturale da cui esso prendeva le sue mosse era molto più strutturato ideologicamente e non ancora pervaso dal vuoto postmoderno.
A proposito di quest’ultima considerazione, tuttavia, sarebbe opportuno procedere con cautela perché lo stesso realismo socialista, per quanto pregno di significato, da un punto di vista concettuale si può considerare a metà fra le due correnti modernista e postmodernista, e di entrambe conserva numerosi aspetti, senza che sia possibile ascriverlo completamente a una di esse. Nonostante infatti sia nato all’interno delle avanguardie e in parte riprenda gli impulsi messianici con cui queste tratteggiavano una realtà futura cui subordinare quella presente e nonostante condivida con il modernismo il rifiuto della tradizione e l’esaltazione autoreferenziale della sua produzione, il suo nucleo ideologico traccia con queste un sostanziale solco di discontinuità. Il realismo socialista, infatti, non creava una realtà altra cui aspirare, ma celebrava una realtà già approdata alla sua versione ideale, dettandole i paradigmi a cui adeguarsi. Il medium, in questo caso la propaganda, alla luce anche della lettura di Baudrillard del postmoderno, crea una versione della realtà detta simulacro, a cui sostituisce la versione che tenterebbe di riprodurre. Da riproduzione a riproduzione, la realtà si rarefa sempre di più, creando un gioco di rimandi interni infinito, detto iperrealtà, che si sostiene come se fosse un castello di carte. In questa cornice di senso, l’ideologia comunista si inserisce perfettamente, poiché non si proponeva di adattarsi alla realtà del Paese, ma di costruirne una parallela che la descrivesse perfettamente, cui il Paese si sarebbe dovuto adattare. Ogni realtà divergente dall’ideologia smetteva semplicemente di esistere, facendosi inghiottire dall’iperrealtà, che strombazzava la sua esistenza dai giornali e dai megafoni autoproclamandosi come l’unica possibile.
In via del tutto eccezionale, il realismo socialista si può considerare quindi come un doppio simulacro, che ricreava l’immagine dell’iperrealtà divenendo al tempo stesso una sua componente. Per questo motivo, esso fu in una certa misura un “segnologismo”, un -ismo nel quale i significati scomparivano per lasciare posto ai significanti che si chiudevano su se stessi in un cerchio autoreferenziale. Così, crollato il sistema di significati, non rimaneva che un’amara ironia che sarebbe riuscita finalmente a stemperare la passata retorica per sottolinearne l’inconsistenza e il vuoto, e a donare al popolo una possibilità di affermare la propria indipendenza, dando una risposta liberatoria alla violenza e ai soprusi dell’epoca staliniana: come osserva Piretto “gli artisti delle sost art risposero all’eroismo sacrificale dell’arte staliniana con una risata carnevalesca. Il riso catartico tornava in auge dopo il suo saccheggio effettuato dallo Stato e dal potere”. Tutto il materiale propagandistico del realismo socialista con la Sots-art venne personalizzato, contestualizzato e depotenziato nella giustapposizione a elementi stranianti che ne fecero oggetti comici. Tutto ciò che per decenni era stato Verbo, si faceva per la prima volta carne: carne nuda.
1973, Mosca
Gli esponenti del movimento vengono invitati a tenere una mostra ufficiale su invito della sezione giovanile dell’Unione degli artisti sovietici, di cui erano membri, portando in anteprima alcune delle loro opere appartenenti alla corrente Sots-art. Alla vista di queste, i membri del comitato annunciano immediatamente la cancellazione della mostra. Poco dopo viene comunicato che gli artisti – “i distorsori della realtà sovietica” – sarebbero stati espulsi dall’Unione, ma questo messaggio al posto di dissuadere gli artisti li fomenta verso un comportamento ancora più radicale. Questi, infatti, cominciano a organizzare performance non ufficiali e mostre in appartamento, durante una delle quali la polizia arriva improvvisamente e arresta tutti gli spettatori, fra cui lo stesso Komar.
1974, Mosca
Komar e Melamid iniziano a organizzare una grande mostra che avrebbe finalmente aperto la strada e battezzato come movimento artistico ufficiale la Sots-art. A loro si uniscono Alexander Kosolapov, scultore e pittore che realizza le sue prime opere in questo stile nel 1972, Eric Bulatov, gli studenti di Komar e Melamid, il team di performance collaborative di Victor Skersis, Alexander Yulikov, Mikhail Roshal e Gennady Donskoy. Insieme, questi artisti danno vita al manifesto del movimento e si fanno fotografare vicino al Mausoleo. Purtroppo, però, la mostra non avrà mai luogo perché non si riuscirà a trovare uno spazio autorizzato ad ospitarla.
Ancora 1974, ancora Mosca
Mostra dei “Bulldozer”. Ael settembre, Komar e Melamid decidono di partecipare a una mostra all’aperto organizzata da un gruppo di artisti moderni underground senza autorizzazione ufficiale, in seguito tristemente resa nota alla cronaca come la mostra dei “Bulldozer”. Seguendo il modello delle mostre inglesi e francesi, si sceglie un terreno abbandonato lungo la Moskva per allestirla, ma gli artisti partecipanti non faranno in tempo nemmeno a metterla in piedi per l’arrivo degli agenti del KGB che ne danneggiano le opere… insieme a tre bulldozer governativi.
La reazione eccessiva da parte della burocrazia sovietica, però, suscita una vera e propria tempesta internazionale che porta all’organizzazione di una seconda mostra ufficiale all’aperto a solo due settimane dalla prima, chiamata “Izmajlovo”, con la clausola da parte degli artisti che non avrebbero figurato opere pornografiche o antisovietiche. A pochi giorni dalla sua inaugurazione, arriva alle orecchie degli espositori che l’ingresso sarebbe stato limitato ai possessori di biglietto, ma questi non si lasciano intimidire, comunicando alla stampa estera di stanza a Mosca la loro intenzione di non dar seguito all’evento se si fosse verificata questa condizione. Così, il 29 settembre, succede l’inverosimile: oltre settanta artisti mostrano a quindicimila visitatori le loro opere senza alcun tipo di controllo. L’illusione, però, è breve: il potere stringe subito le cinghie intorno agli organizzatori spedendone alcuni in Altaj, rinchiudendone altri in ospedali psichiatrici e informando i pochi rimasti che in mancanza di lavoro regolare sarebbero stati processati per parassitismo.
Così si chiude – quantomeno in patria, poiché molti di questi artisti espatrieranno, continuando a dare valore al loro passato e al loro dolore attraverso questa corrente – uno dei più vigorosi e audaci movimenti artistici di quegli anni, che trovò barlumi di libertà solamente nella continuazione di mostre irregolari negli appartamenti, senza mai ottenere un riconoscimento ufficiale.