Anche io sono stata a Bucarest.
Torni così: che Bucarest non ti piace, ma la dovevi vedere, che non ne capisci la logica e il senso e sotto mille strati di intonaco cerchi l’identità di questa “piccola città o grande villaggio” e non la trovi. Se poi decidi che la logica la vuoi capire, un senso lo vuoi dare, leggi Bucarest. Polvere e Sangue di Margo Rejmer, ma sai che da questa lettura non ne uscirai illeso. E certo probabilmente continuerà a non piacerti Bucarest, ma sarai stato trascinato a capofitto nel caos, nel cuore della storia e li potrai scegliere la tua verità.
Bucarest. Polvere e Sangue (2022, Keller) è una narrazione prismatica, un reportage vorticoso in cui voci, storie e memorie si intrecciano e ricostruiscono la storia, riscrivono episodi e nella loro unicità, nella loro visione singolare danno nuova forma al reale. Margo Rejmer è un’autrice che dedica la sua scrittura alla ricerca delle radici del presente, si interroga sul terreno dove affondano e indaga la loro condizione.
Rejmer nasce nel 1985 in Polonia e si laurea in Studi Culturali a Varsavia. Viene nominata per i premi Gdynia Literary Award e the Award of the Polish Society of Book Publishers per il romanzo Toximia (Parlesia, 2019). Per Bucarest. Polvere e sangue viene nominata ad alcuni dei più prestigiosi premi letterari polacchi, il Paszport Polityki, al Nike Literary Award e al Beata Pawlak, e si aggiudica il premio “Newsweek” Teresa Torańska e Gryfia. Un successo che si consacra anche con il seguente romanzo Mud sweeter than Honey (2021) ora in traduzione per Keller, per il quale ottiene il riconoscimento Polityka Passport, il premio della Fondazione Kościelskich e un’ulteriore nomination al Nike.
Le storie raccolte sono quelle di chi ha vissuto la Romania degli anni dal 1967 al 1989 fino ai tempi più recenti, intrecciate con le impressioni dell’autrice della città, della sua storia ed i suoi personaggi.
In un’intervista pubblicata dal Manifesto l’autrice ci mostra la città attraverso i suoi occhi:
Ad ogni passo c’era qualcosa di bello e qualcosa di sgradevole. Un po’ come se Parigi avesse fatto una capriola su sé stessa. Bucarest era occidentale se paragonata al retaggio comunista che in qualche modo mi era familiare e al tempo stesso conservava innumerevoli tracce balcaniche, orientali, cose che viste dalla prospettiva dell’austerità di Varsavia mi davano un’impressione di esotismo.
Così come scrive un’altra voce estremante preziosa del panorama letterario della Romania, Ioana Morpurgo, la città si presenta come sospesa, una sorta di “metropoli fluttuante” e caotica, che ha lasciato che le sue memorie, il suo passato, le sue chiese venissero trascinate via dal Dittatore, che ha riscritto la storia del paese partendo dalla megalomania architettonica che è la Casa del Popolo.
I capitoli del romanzo Bucarest seguono ciascuno un filone, una traccia che risale la storia prima e dopo la dittatura più segnante del passato romeno, quella di Nicolae Ceaușescu. La narrazione dell’autrice si snoda anch’essa in capriole tra le fatiscenti origini latine del Paese e la rivoluzione del ’89, mancata o effettiva che si voglia credere, fino ai tempi più recenti. Questa struttura narrativa rende il reportage estremamente accattivante, con un ritmo narrativo mai uguale o gravoso. L’autrice impiega un fil rouge di storie e memorie personali che coinvolgono alcuni dei temi sociali che più hanno sconvolto in passato e ancora lacerano la società rumena del presente.
La prima parte del romanzo si intitola “Comunismo. Oro e fango”, e ripercorre, divisa in capitoli, la genesi del comunismo rumeno. E così come tutte le favole rumene iniziano con “A fost odată ca niciodată”, c’era una volta, Rejmer ripercorre la nascita, l’infanzia e la scalata politica dello “Stalin Rumeno”. Parte la macchina comunista con la storia di Elena, sorella di un partigiano, che viene inclusa, insieme a tutta la sua famiglia, nella caccia ai traditori della patria, che dà alla luce una bambina in reclusione e che avrà la forza di non smettere mai di cercare. Si susseguono storie che parlano di atrocità, torture, prigionia senza fine come “l’esperimento di Pitești” e storie di lunghe code per ricevere un pezzo di pane.
Rejmer riassume brillantemente tragicità, indifferenza e ironia in alcuni aneddoti esemplari:
Nicolae e Elena tornano in elicottero da un viaggio all’estero: – Ah, che bei fiumi abbiamo – dice Elena tutta emozionata. – Non sono fiumi, sono strade – risponde Nicolae. Il pilota si volta: – Non sono strade, è gente in coda.
I capitoli si inoltrano in storie folkloristiche che attraverso il fantastico scoprono la radice della realtà, e allora la “Ballata del mastro Manole” assume le tinte della leggenda introducendo una delle opere più mastodontiche della storia, il Palazzo del Popolo, e i suoi tributi di sangue. L’autrice ci guida in un luogo che nessuno vuole svelare per quello che è davvero, un cimitero monumentale “visibile da qualsiasi angolo di Bucarest”.
“Culle e bare”, invece, svela la parentesi macabra dello Stato che controlla le nascite, che punisce l’aborto e vieta i contraccettivi. Da quel momento cotone idrofilo e preservativi hanno il valore dell’oro. Conosciamo Stefan, che parla della sua storia e della madre, medico, istruita, reduce di ghiaccio di due aborti.
Arriva a concludere la prima parte il racconto della Rivoluzione del 1989, non compresa appieno, carica di menzogne e mai davvero affrontata. Lo smarrimento della popolazione che si sveglia da un giorno all’altro da un sogno o da un incubo come brillantemente espresso dalle parole di Adriana Oprea Popescu, intervistata dalla scrittrice: “Arriviamo da un luogo che non c’è e non siamo diretti da nessuna parte. Non saremo mai più quelli di prima”.
Prima del capitolo intermedio che fa da spartiacque tra le due parti siamo già nell’anno 2011, con una generazione che non sa come leggere il passato e certamente non si aspetta un futuro. A metà del libro si apre infatti una parentesi tra le due guerre, e questo salto temporale si rivela fondamentale per il tentativo di Rejmer di ricomporre i pezzi di un passato rumeno ancora da comprendere. Troviamo in questa sezione una galleria di istantanee, da Carlo II di Romania “Redentore” e “Rigeneratore”, alle prostitute più famose come Mița la Ciclista a figure politiche come Nicolae Iorga.
La seconda parte fa della contemporaneità il focus principale e si apre con “L’Agnellina”, epopea sul destino e la morte che mette al centro la questione dell’identità rumena e quanto siano oggi importanti le sue radici. Il capitolo successivo, “Romano di Dacia”, ci proietta al tempo di Traiano, ai simboli e monumenti che oggi troviamo nella città e che ripercorrono un’epoca di mito.
Non è però solo storia quella che si respira nella città di Rejmer, perché la contraddizione fa da padrona lungo strade piene di rifiuti, con cani randagi al governo delle strade; una città che trema profondamente al ricordo della scossa di terremoto del 1977, che si degrada sotto i colpi della corruzione, disorientata dall’architettura folle in cui l’arte di Ion Bârlădeanu “sbuca dal cassonetto”. Siamo di fronte a una patria dagli insulti coloriti, dalla lingua esuberante, dalle superstizioni incerte che è resa estremamente affascinante capitolo dopo capitolo.
Di tutte le testimonianze personali che si intrecciano, senza dubbio è cruciale la singola voce, il singolo racconto, l’unica e irripetibile memoria di ciascuno come narrazione veramente autorevole contro i proclami, la propaganda e la riscrittura della storia che tanto ha fatto comodo agli eroi fasulli del passato. Nel suo Tempo di seconda mano, la giornalista e scrittrice bielorussa Svjatlana Aleksievič parla della crucialità dell’individuo che ricorda:
Scrivo, raccolgo briciola dopo briciola la storia del socialismo “domestico” … “interiore”. Il modo in cui la gente lo viveva nella propria anima. Proprio questo piccolo ambito mi ha sempre attirato – l’essere umano…la singola persona. In realtà è lì che ogni cosa accade.
E anche in questo romanzo,
è lì che ogni cosa accade, a chi c’era per la costruzione della devastante Casa del Popolo e chi è morto per essa, a centinaia, a migliaia, che rappresentano il “tributo di sangue” alla nazione. E l’edificio è invisibile a molti, ha “lacerato il tessuto della città” per altri, “è bello! È grande! “si dice.
Ed è lì che ogni cosa accade, a chi era figlio della voracità dello stato, dei decreței e si è ritrovato senza famiglia, un fantasma nato per un aborto mancato o letale e a chi sa cosa vuol dire non avere altra scelta come donna del paese: “non riesco più a guardare una donna che lavora ai ferri senza provare un brivido. Per me i ferri da calza vogliono dire una cosa soltanto”.
Ed è lì che ogni cosa accade, nella memoria di chi ricorda un eroe ammazzato e in quella di chi l’eroe lo avrebbe fatto fuori con le sue mani: “La morte di Ceaușescu mi ricorda la storia di quello scienziato che mette in piedi un folle esperimento e poi viene assassinato dalla cosa che esce dalle sue mani”.
Ed è lì che ogni cosa accade, nel morso di un cane randagio, nella sua infestante presenza nella città, maledizione o “angelo custode”.
Ed è proprio lì che ogni cosa accade, nelle parole di Margo Rejmer che creano un reportage esemplare e accattivante nella Bucarest che vortica intorno a mille passati, che è come un albero che si cura della chioma e dei mille strati di foglie verdi, ma che non guarda mai abbastanza alle radici che affondano nel terreno, che si consumano e marciscono.