Blue / Red / Deport: dentro la vita di un migrante afghano alle porte dell’Europa

Talib Shah Hossaini è un regista afghano che ormai da un anno è bloccato nel campo di Moria, sull’isola di Lesbo, nel campo rifugiati più grande d’Europa, prima che un incendio nell’autunno del 2020 lo radesse al suolo. È in attesa che le autorità greche decidano del suo futuro: se riconoscergli lo status di rifugiato politico, la sospensione della pratica a tempo indeterminato, o se rifiutare la sua richiesta ed espellerlo dalla Grecia. In Afghanistan, aveva realizzato degli sketch satirici sulla situazione politica del paese, in cui aveva detto che i talebani sono assassini e che erano costati a lui e alla sua famiglia ripetute minacce di morte. A Moria, invece che stare ad aspettare che la sua richiesta di asilo venga esaminata, realizza Picnic, un film sulla sua vita, sulla storia della sua famiglia e sulle condizioni di vita nel campo, sperando di dare una voce a troppe storie ancora inascoltate.

 

Lina Lužytė è una regista lituana, che arriva a Lesbo per realizzare un film sulla situazione dei rifugiati e lì conosce Talib Shah. Decide che il suo sarà un metafilm: segue Talib Shah nei momenti della sua vita quotidiana, ascolta la sua storia e quella del resto degli attori, gira il dietro le quinte del film. Realizza così Blue/Red/Deport un documentario dal taglio particolare, un film che parla un altro film, che però offre uno spaccato originale e autentico della vita nel campo di Moria. È stato quindi quasi automatico chiedere a Lina Lužytė, quando ho avuto l’occasione di intervistarla, da dove fosse venuta l’idea di seguire la strada del metafilm. Fin da subito, la conversazione ha preso una piega che non mi aspettavo. Davo quasi per scontato di sentirla parlare di voler documentare lo spirito di iniziativa dei rifugiati del campo, del rifiuto di non arrendersi al loro destino, della resilienza e della forza interiore. Al contrario, la storia che mi ha raccontato la regista è stata molto più schietta, diretta, forse meno idealizzata e più reale.

 

Se devo essere sincera, mi ha detto Lužytė, è successo un po’ per caso. Avevo a disposizione un finanziamento tedesco per fare un film e avevo carta bianca sul tema. Ho pensato subito ai rifugiati, ma in molti mi hanno scoraggiata, dicendo che ormai dell’emergenza migratoria nessuno ne parla più e che nessuno sarebbe stato interessato all’ennesimo documentario sui migranti. Proprio questo mi ha fatto riflettere sul fatto che fosse necessario continuare a parlarne, anche se non sapevo ancora in che modo. Poco dopo essere arrivata al campo, ho saputo che c’era un regista afghano tra i rifugiati e l’ho subito voluto incontrare. Sono stata io a proporre a Talib Shah Hossaini di realizzare un film sulla storia della sua vita, mentre io mi sarei occupata di girarne un altro, su di lui e sul film che stava girando. Lui ha accettato, sia per necessità e desiderio di raccontare la sua storia a qualcuno, sia perché la mia era una proposta conveniente, perché gli avrei fornito attrezzatura e mezzi per realizzare un film vero.

 

Avendo intuito che fin dal primo incontro si erano create dinamiche particolari tra lei e Talib Shah Hossaini, le ho chiesto di raccontarmi meglio della loro relazione. Ancora una volta sono stata sorpresa, non solo dalla risposta in sé, ma anche dalla sincerità con cui Lina Lužytė mi ha raccontato di questi dettagli.

 

Sicuramente, mi ha detto. La relazione più interessante che ho avuto è stata con Talib Shah. È stata una relazione complessa, perché mi sabotava in tutto. Se stavo facendo delle riprese, si avvicinava, mi prendeva il polso e scuoteva la telecamera quasi con atteggiamento di sfida. Se ci eravamo messi d’accordo per incontrarci alle sei del mattino per filmare una scena di loro che fanno colazione, io arrivavo alle puntuale e li trovavo che avevano già fatto colazione, oppure non li trovavo affatto. Allora mi sono chiesta perché mi stava sabotando. E mi sono risposta che probabilmente non stava sabotando me come Lina, ma me come rappresentazione dell’Occidente. Era per lui la prima volta che sentiva una persona europea dipendeva da lui per qualcosa, e se ne approfittava, visto che la loro vita era completamente nelle mani dell’Europa sia per il sostentamento di base sia per l’estenuante attesa del processo che avrebbe deciso se avrebbero ottenuto il permesso di restare in Unione Europea o se sarebbero stati deportati. Insomma, non mi permetteva di filmare, scappava da me, faceva promesse che non manteneva e io ho interpretato questo atteggiamento come una battaglia tra occidente e oriente. Allora, considerata la situazione, ho deciso di lasciarlo fare, gli permettevo di sabotarmi quanto voleva e ho accettato che tra noi si creasse questa relazione conflittuale.

 

 

 

 

Davanti alla complessità di queste dinamiche, che lasciavano quasi trapelare una mancanza di impegno e di volontà di realizzare entrambi i film da parte di Talib Shah Hossaini, ho voluto sapere anche quale fosse l’atteggiamento delle altre persone migranti coinvolte. E anche qui, seppur in misura minore, il racconto di Lužytė è stato diverso da quello che mi ero immaginata di ascoltare:

 

All’inizio erano tutti apparentemente entusiasti di essere parte di Picnic e Blue/Red/Deport, ma poi quando hanno visto che io ero seria ed assolutamente intenzionata a portare avanti il progetto, hanno perso motivazione. Solo successivamente, quando hanno capito che questo progetto era per loro un’opportunità di far sentire la propria voce, hanno di nuovo cambiato idea e sono diventati estremamente amichevoli, hanno iniziato a invitarmi a cena, farmi conoscere le loro famiglie e tenere in braccio i loro bambini. E questo non perché io facessi qualcosa di particolare, ma solo perché io ero il mezzo che permetteva che la loro storia fosse ascoltata.

 

Quando le ho chiesto se ci fossero state difficoltà nel guadagnarsi la fiducia delle persone che vivevano a Moria, Lina Lužytė ha confermato:

 

Se, dal punto di vista umano, creare connessioni con i richiedenti asilo afghani era molto semplice, le cose sono cambiate quando ho iniziato a fare domande più personali, sul motivo per cui sono scappati o sulla difficile situazione politica in Afghanistan: hanno iniziato ad essere più diffidenti. Temevano che condividere certe informazioni potesse metterli in difficoltà e ostacolare il già lunghissimo ed estenuante processo di ottenimento dei documenti che avrebbe permesso loro di restare in Europa. Alla fine, però, è stata più forte la loro estrema necessità di raccontarsi a qualcuno e di avere qualcuno disposto ad ascoltare le loro storie. Secondo me, il fatto di avere un ruolo nel film di Talib Shah Hossaini, era quasi terapeutico per molti di loro. Ho intervistato un uomo che in una scena di Picnic finiva per impiccarsi, incapace di sopportare le difficoltà della vita nel campo, senza prospettiva di poterne uscire. Mi ha detto che compiere questo gesto nella finzione è stata una cosa positiva, perché, avendolo fatto nel film, non doveva più farlo nella realtà.

 

Data questa forte necessità manifestata dai migranti di raccontare quello che avevano vissuto dopo aver lasciato l’Afghanistan e quello che stavano vivendo nel campo di Moria, mi è venuto spontaneo chiedere che ne fosse stato di Picnic, se diffonderlo e farlo vedere avesse in qualche modo contribuito a rendere giustizia a tutte le storie che sono raccontate al suo interno. Ancora una volta, la risposta di Lina mi ha sorpresa:

 

Questa è una domanda difficile, ha esordito. Talib Shah Hossaini si aspettava che fossi io a promuovere il suo film in vari festival, mentre promuovevo il mio. Gli ho spiegato che non funzionava così: noi avremmo potuto coprire le spese delle varie application e dare supporto materiale se fosse servito, ma che l’iniziativa della promozione del film sarebbe dovuta venire da lui. Quando c’è stata la premiere di Blue/Red/Deport a Colonia, lui, che adesso vive in Germania con la sua famiglia, mi ha contattata per chiedermi che ne fosse stato del suo. deluso che non avessi presentato anche quello. Quindi il film esiste da qualche parte in un hard disk, e ci sono molte persone che lo vogliono vedere, ma non succederà niente finché lui non prenderà l’iniziativa. Probabilmente lo pubblicheremo online, in futuro, se il numero di persone che lo vogliono vedere continuerà ad essere così alto.

 

Mettendo insieme tutti gli elementi che avevo raccolto fino a questo punto, sembra ragionevole porsi qualche domanda su quale fosse allora il significato, il messaggio che traspare da Blue/Red/Deport. In altre parole, che cosa l’autrice è riuscita a comunicare con il suo lavoro al di là di tante dinamiche complesse e relazioni conflittuali, al di là di quella che sembra una mancanza di iniziativa e determinazione da parte dei diretti interessati. Per capire questo, le ho chiesto quale fosse il suo obiettivo quando si è imbarcata in questo progetto.

 

Il mio obiettivo, mi ha detto, era semplicemente quello di conoscere le persone che erano arrivate alle porte dell’Europa e che presto si sarebbero trovate a vivere in mezzo a noi. Mentre giravo il film, ho letto il libro La nuova lotta di classe: Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicinidi Slavoj Žižek, in cui alla questione delle migrazioni viene affrontata la nota teoria delle fasi dell’elaborazione del lutto (o di qualsiasi evento traumatico). Secondo questo approccio, davanti ad un evento traumatico l’essere umano attraversa cinque fasi: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione. Žižek sostiene che abbiamo avuto un atteggiamento simile anche nei confronti dei migranti che sempre più numerosi sono arrivati in Europa negli scorsi anni: come società, abbiamo attraversato tutte le fasi, ma non siamo ancora riusciti ad accettarli. Non abbiamo ancora interiorizzato che nuove persone continueranno ad arrivare in Europa in cerca di un futuro migliore, che lo vogliamo o no. Tanto vale fare lo sforzo di incontrarli, capire il loro mondo e cercare di integrarli. Si può dire, quindi, che io sia andata a Lesbo solo con l’idea di avere un contatto reale con queste persone e capire meglio cosa stesse succedendo.

 

In effetti, questo approccio dal documentario traspare: Blue/Red/Deport è una testimonianza diretta, una finestra aperta sulle condizioni in cui vivono le persone migranti alle porte dell’Europa, una racconto pieno di umanità, senza filtri e idealizzazioni. Quando ho chiesto a Lina Lužytė di parlarmi di come effettivamente vivessero le persone nel campo di Moria, non mi ha parlato di condizioni estreme, di mancanza dei servizi di base, dell’ingiustizia del sistema di asilo europeo. Anche in questo caso sorprendentemente, abbiamo parlato principalmente di due temi: il senso di comunità e la dignità. Ho trovato, forse un po’ ingenuamente, che fosse molto bello che fossero questi valori positivi a trasparire da un documentario la cui genesi è stata così travagliata. Nelle sue parole:

 

La cosa che ho notato in molti paesi dove le istituzioni non funzionano bene o sono molto corrotte è un forte senso di comunità, complice anche la dipendenza reciproca che inevitabilmente si crea. Mi spiego: quando noi, in Occidente, abbiamo un problema, manteniamo un certo livello di fiducia nel fatto che ci sia, per esempio, un sistema sanitario che possa risolvere i nostri problemi. Ma se questa fiducia viene a mancare, se le istituzioni sono assenti, allora si sviluppa un senso di comunità molto presente e visibile.  Non c’è altra opzione: se sei malato vai da qualcuno che conosci e che ti sa curare, perché non ci sono gli ospedali. E questo era visibile anche sull’isola di Lesbo. Nel senso che la gente aveva, com’è normale che succeda, problemi di salute e, quando riusciva ad andare da un medico dopo anche un mese di attesa, l’unica cosa che riceveva erano antidolorifici, qualsiasi problema avesse, dalla depressione, al mal di denti. L’unica soluzione era quindi contare sugli altri, su reti di supporto reciproco. L’altro elemento molto presente è la dignità. Talib Shah e la sua famiglia, quando vivevano nel campo di Moria, si sono costruiti la loro casa, che sicuramente non era il massimo, ma hanno fatto del loro meglio. E tutte le mattine la moglie spazzava per terra e le ragazze arrotolavano le coperte e i cuscini per trasformare la camera da letto in un salotto. E in giardino, avevano un piccolo orto di cui si prendevano cura. E quando ricevano il cibo del campo, lo cucinavano nuovamente seguendo le tradizione afghane. Tutto questo, per non perdersi, per continuare a vivere una vita il più normale possibile.

 

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