Molto spesso, se non quasi sempre, quando si parla di architettura est-europea vengono subito in mente tonnellate di cemento armato sotto forma di enormi palazzoni prefabbricati grigi, sgangherati e tutti uguali, o in casi più rari qualche spomenik di epoca socialista. Nonostante di condomini tristi e mostruosi sia piena zeppa anche l’altra metà del vecchio continente, quello tra blok ed Europa orientale è un legame indissolubile e un’associazione spontanea e ricorrente, ovviamente con una connotazione negativa, se non addirittura dispregiativa. Niente che potrebbe mai varcare le porte di un museo o definirsi bello, neanche per i pochi feticisti occidentali del beton brut.
Dal 2020 in Bulgaria è attivo un duo di giovani artiste. Nell’ambito del loro progetto Slavki prikazki (“Favole slave”) lo scorso maggio hanno esposto alla Toplocentrala di Sofia le loro due creazioni: Blok No. 1989 e Apartament No. 2007. Si tratta di una coppia di plastici che ricostruisce nei minimi dettagli l’aspetto esteriore di un classico condominio bulgaro alla fine del periodo comunista (il primo) e l’interno di un appartamento tipo che compone uno di questi blok all’entrata in Unione europea della paese balcanico (il secondo).
Anna Ivanova e Kalina Ivanova, questi i nomi delle due autrici, sono anche le fondatrici della pagina Instagram kolko.slavko, interamente dedicata all’estetica bulgara “vintage” che ha fatto da sfondo alla loro infanzia, pubblicando riflessioni, dettagli e foto della quotidianità odierna e dei loro nonni e genitori. Figlie della transizione, con la loro produzione mirano a stimolare il dialogo intergenerazionale su questo periodo storico travagliato e controverso, all’interno di una società tuttora divisa e apparentemente incapace di fare i conti col proprio passato. Le abbiamo intervistate.
Il vostro progetto è nato mentre stavate frequentando l’università in Inghilterra, per via della nostalgia che sentivate e della visione distorta che c’è in Regno Unito rispetto ai bulgari (e non solo). Secondo voi questa idea sarebbe stata possibile se non aveste mai lasciato la Bulgaria? La distanza vi ha portato a rivalutare la quotidianità nel vostro paese d’origine?
Kalina: Ci sono stati diversi fattori che hanno portato alla cristallizzazione dell’idea di Slavki prikazki: l’iniziale distanza fisica da casa, l’età che avevamo, il fatto che lavoriamo in ambito artistico e non ultimo la pandemia, che è scoppiata proprio all’inizio del progetto. Cominciamo dal primo fattore. Il fenomeno dello “studente internazionale” è un qualcosa che può essere osservato in persone di tutte le nazionalità staccate dall’ambiente a loro familiare. Nel giro di un mese si inizia a sentire la mancanza di cose da cui non sapevi nemmeno che avresti avuto difficoltà a separarti: il cibo, il paesaggio urbano, gli odori, la lingua, l’umorismo, ecc. In combinazione con lo shock culturale del nuovo luogo porta a una distinzione molto chiara tra ciò che è tuo e ciò che è straniero.
Conoscere lo “straniero” in qualche modo ci ha dato più risposte su casa nostra. Noi bulgari per tradizione abbiamo l’abitudine di pensare che praticamente ovunque si viva meglio che nella nostra terra natale, e quindi se uscissimo mai di casa e non ci convincessimo che non è necessariamente così, vivremmo senza apprezzare il bello che abbiamo e soffriremmo il doppio per quello che ci manca. I fattori dell’età e dell’ambito di specializzazione a loro volta hanno creato il meraviglioso terreno per trascorrere molto tempo in quelle condizioni a dipanare questi fenomeni di internazionalità, nostalgia e identità nazionale.
Nei primi vent’anni una persona costruisce se stessa e nel suo bisogno di essere qualcuno cerca incessantemente etichette da attaccarsi addosso in modo che queste possano parlare per lui. Era difficile per noi attaccarci l’etichetta di “bulgare” con orgoglio vedendo la confusione e i segnali contrastanti che provenivano sia dagli inglesi che dai nostri connazionali. Per provare orgoglio della propria identità nazionale è necessario conoscerla molto bene e che questa sia manifesta.
Per questo in modo del tutto egoista nel nostro tempo libero abbiamo iniziato a scoprire e conoscere la nostra terra da lontano, con un interesse tale che non avevamo mai avuto prima, e in maniera assolutamente naturale questo interesse si è riversato sui nostri progetti artistici. E così finché una notte non abbiamo deciso che volevamo costruire insieme un blok – del tutto reale, di quelli che chiunque può scorgere da solo in un batter d’occhio visitando qualsiasi città bulgara. Un blok costruito durante il socialismo, in cui si vive ancora oggigiorno, che porta le tracce del tempo, ma non della vergogna.
Al culmine del lavoro su questo progetto è arrivato anche lo stato di emergenza, che ci ha costrette a mettere in pausa e tornare tra i veri paesaggi di pannelli prefabbricati che negli ultimi mesi avevamo visto in foto. Quello è stato un periodo chiave. Ognuno era isolato, da solo con i propri pensieri e sensazione di incompletezza. Tutto ci sembrava diverso e guardavamo il mondo intorno a noi con occhi nuovi. Allora abbiamo deciso di creare la pagina kolko.slavko, dove potevamo condividere questa visione diversa della nostra realtà urbana. Sospetto che in assenza di uno soltanto tra questi fattori non ci sarebbe stata nemmeno Slavki prikazki.
Quali sono state le reazioni inglesi al vostro progetto? Ha aiutato a smantellare e/o rivedere i concetti di Orientalismo e Balcanismo? Quali sono stati i fenomeni più difficili da spiegare e/o illustrare? Ci sono differenze tra la quotidianità bulgara e quella balcanica?
Anna: La presentazione di un progetto bulgaro talmente non censurato a un pubblico talmente occidentale come i nostri professori e colleghi come ci aspettavamo è diventato l’ennesimo esempio dell’abisso culturale tra Europa orientale e occidentale. Sebbene la riempitura di questa voragine sarebbe stato un risultato auspicabile del progetto, per molti aspetti siamo rimaste incomprese a causa delle enormi differenze tra i nostri paesi, legate sia alla quotidianità che alla società.
Le principali differenze che abbiamo delineato sono state proprio le abitazioni delle persone, che a loro volta riflettono il resto della loro personalità – chiusa o aperta, socievole o isolata, posseduti dall’apatia o animatamente coinvolti nella vita. Gli inglesi vivono nel loro bellissimo mondo color pastello e splendente di pulizia, scambiano sorrisi educati con i loro acerrimi nemici e chiedono soldi per la corrente ai loro ospiti. Nel bene e nel male i Balcani sono l’esatto opposto di tutto ciò ed è naturale che questo si rifletta nelle nostre abitazioni. Perciò abbiamo scelto di sondare la nostra cultura quotidiana proprio attraverso il blok di pannelli, qualcosa che non esisteva nella nostra temporanea residenza inglese.
È difficile spiegare la vita dietro la torre di cemento dei “barbari balcanici” a qualcuno che non ci si è mai avvicinato, non ha sentito l’odore dei peperoni ripieni, non ha ascoltato la musica dalle finestre, non ha passato ore ad analizzare la bellezza in questa dimostrazione senza filtri dell’umano, senza tende tirate, silenzio, recinzioni fitte e cose nascoste. Il fascino nel mondo dei pannelli non è evidente come quello nelle loro casette rosa, deve essere annusato, ascoltato, osservato, devi permettergli di essere bello così com’è, semplicemente perché è autentico e non nasconde nulla.
Per molto tempo ho condotto una battaglia concettuale con i miei professori, che nelle loro proposte sulla direzione del progetto mi indirizzavano ostinatamente verso note tragiche, descrivendo il mio mondo come “post-apocalittico” e “terrificante”, paragonandolo una volta persino alla tragicità dei campi nazisti. Non capivano il mio desiderio di ritrarre il modo in cui sono cresciuta come qualcosa di positivo o affascinante, perché per loro era solo una combinazione oggettiva di sintomi di povertà e insufficienza.
Per noi invece è qualcosa di completamente diverso e penso che dobbiamo prima condurre questa battaglia concettuale ed emotiva con noi stessi in quanto bulgari, balcanici ed est-europei, per comprendere e definire per primi i nostri valori culturali moderni, ed essere poi in grado di spiegarli e difenderli davanti all’Occidente. Troppo a lungo ci siamo sentiti inadeguati nel collocarci sulla scala culturale mondiale, e questo è dovuto proprio a fenomeni come Orientalismo e Balcanismo che trasformano la nostra cultura in una caricatura della quale noi ci affrettiamo a ridere affinché gli altri non ridano di noi. Questo si percepiva anche nelle nostre lezioni di storia dell’arte, dove l’arte nei Balcani e l’Orientalismo sono stati messi insieme con i cosiddetti “The other”, come se tutto ciò che è diverso dall’Europa occidentale fosse solo “l’altro” – il centro e la periferia, l’importante e tutto il resto. Questa indiretta gerarchia culturale influisce sull’autostima nazionale dei popoli colpiti, tra cui ci sono anche quelli balcanici.
Per quanto riguarda la nostra quotidianità, i paesi dei Balcani e anche su più larga scala dell’Europa orientale condividono radici comuni, passato, a volte confini di stato, quindi la nostra cultura è molto mista e strettamente intessuta. Ogni paese ha le sue specifiche, ma anche i suoi equivalenti in altre nazioni balcaniche, perciò crediamo che almeno al livello preso in considerazione in Slavki Prikazki, la quotidianità bulgara e balcanica siano estremamente simili.
Le vostre creazioni sono state esposte a inizio maggio alla Toplocentrala di Sofia, e la mostra è stata anche estesa per via del grande interesse suscitato. Quali sono state le reazioni dei bulgari? Ci sono stati dei riscontri negativi?
Anna: Le reazioni al progetto sono state prevalentemente positive, ma l’inevitabile contraddittorietà dell’argomento è stata accompagnata anche da una certa disapprovazione, come ci aspettavamo. Le generazioni più giovani, che non sono state direttamente colpite dal socialismo, hanno condiviso la nostra visione libera della realtà presentata e hanno preso a cuore il nostro desiderio di cercare il bello in esso. I modellini hanno regalato alla maggior parte delle persone una gioia autentica, dato che i sorveglianti della Toplocentrala una volta ci hanno confidato che tra di loro li chiamavano “sorrisi”, perché tutti lasciavano la mostra sorridendo. Questo ci rende felici più di ogni altra cosa ed è il vero senso del progetto, perché se delle piccole versioni del mondo che ci circonda possono renderci così felici ogni giorno, allora siamo un passo più vicini ad accettarlo maggiormente anche in scala reale.
Molti visitatori hanno condiviso con noi quanto l’idea del progetto abbia risuonato in loro e il bisogno che avevano di vederlo e sentirlo, il che ci ha convinto che i plastici hanno fatto la loro parte per riunirci attorno a qualcosa di familiare, qualcosa di nostro qui e ora, e che non avevamo bisogno solo noi di sondare e integrare il nostro passato recente nella nostra identità culturale. Slavki prikazki presenta la vita quotidiana bulgara nella sua forma più rigettata: con le tracce evidenti di un momento della nostra storia che si staglia come una ferita pulsante sul nostro essere bulgari e che abbiamo appena iniziato a medicare, perciò non tutti sono così pronti ad accogliere a braccia aperte l’affermazione che non è brutto.
Alcuni visitatori più anziani, che hanno vissuto durante il socialismo, hanno comprensibilmente avuto una reazione negativa nei confronti del nostro lavoro e delle nostre parole, come se non avessimo il diritto di parlare di qualcosa di cui non avevamo fatto esperienza in prima persona. È così. Per questo anche del periodo socialista parliamo soltanto in modo oggettivo, sulla base degli studi meno tendenziosi possibile che abbiamo condotto al fine di contestualizzare il progetto. Slavki prikazki non è politicamente connotato in sé, noi non sosteniamo l’ideologia del regime totalitario, ma essendo una sorta di studio antropologico tale contesto è inevitabile. La vita quotidiana e le case delle persone sono direttamente influenzate dalla situazione politica e sociale del proprio paese, quindi Blok No. 1989 e Apartament No. 2007 sono pieni di tracce di socialismo che si rivelano traumatiche per molti di coloro che hanno vissuto in quel periodo. Pensiamo che parlando di questi blok e appartamenti come di un qualcosa che fa parte di noi inneschiamo una reazione protettiva in chi è stato colpito negativamente dal regime, e di conseguenza otteniamo un feedback negativo.
Noi non puntiamo a invalidare le esperienze dolorose presentando queste abitazioni sotto una luce neutra, al contrario. Il progetto mira ad avviare una conversazione sul nostro essere bulgari a cui tutti sono invitati, e in questa conversazione c’è spazio sia per la rabbia che per il dolore, sia per il calore che per la nostalgia. Un elemento interessante di questa reazione è il posizionamento automatico dei plastici nel periodo prima del 1989, anche se ci sono molti marcatori che spostano la linea del tempo nel 2000 (1989 – 2007). Il progetto presenta il tempo della Transizione, che incombe scomodamente tra il vecchio e il nuovo, tra lo spettro del socialismo e l’ombra dell’Occidente in arrivo: un periodo difficile da definire che ha dato vita a persone difficili da definire, il quale include la nostra generazione. I nati dopo il 1989 vivono solo con l’eco del regime e la cicatrice che ha lasciato sulle persone e sulle loro case. Siamo cresciute con i suoi oggetti silenziosi – prefabbricati, mobili monolitici, armadi identici, caramelle economiche, telecomandi avvolti nella pellicola, con il bene e il male che è stato insegnato al nostro popolo.
Siamo cresciute con tutte le conseguenze del socialismo, ma non in esso, perciò non può essere qualcosa di nostro e non possiamo fare parte della conversazione, come se non ci fosse permesso di avere un’opinione sul mondo che ci circonda perché non abbiamo visto come è stato costruito. Slavki prikazki e le reazioni che sono seguite rispecchiano quanto siano confuse le persone dopo il 1989 e di quanto abbiano bisogno di avere voce in capitolo per essere arrabbiate, tristi, felici a riguardo ed elaborare le lezioni di quel passato. Un passato che, sia che ci incupisca o ci manchi, continua ad essere intorno a noi e dipende da noi come ci farà sentire e cosa significherà. A giudicare dal sostegno dei nostri coetanei, speriamo che i giovani siano pronti a costruire insieme una Bulgaria sfumata, in cui ci sia posto per ogni fase della nostra storia senza paura di conversazioni difficili, in modo che finalmente la questione nazionale abbia una risposta nazionale.
La bio della vostra pagina kolko.slavko recita: “quattro ragazze che si interessano delle foto di tua nonna… e anche di tuo nonno, dai”. Il feed è pieno di riflessioni e foto originali in cui compaiono i vostri nonni e i vostri genitori. Cosa ne pensano loro del vostro progetto? Perché, secondo voi, è ancora così difficile parlare di transizione e del periodo pre 1989?
Anna: Sebbene abbiano incoraggiato il mio interesse, i miei genitori per molto tempo non hanno capito il significato di ciò che facciamo e del perché scaviamo nel passato, dove secondo loro non c’è nulla di interessante, mentre io sento che una parte di me stessa è lì – una parte che non capisco e non conosco abbastanza. Le foto e i ricordi personali di quel tempo che raccogliamo ci dimostrano che le persone trovano il modo di essere persone, qualunque siano le restrizioni che vengono loro imposte, e ciò che ci collega a livello umano qui e ora è proprio l’essenza del nostro essere bulgari. Ecco perché siamo sempre stati interessati alla quotidianità delle persone – ciò che le entusiasma, intrattiene, rattrista, come cosa e dove festeggiano – scoprendo che queste cose non sono affatto soggette a cambiamento, il che umanizza il periodo pre 1989 ai nostri occhi.
In quanto figlia della transizione senti solo opinioni polarizzate sul regime oppure nessuna: un periodo fortemente odiato o amato per vari motivi e una sicura pietra dello scandalo nelle riunioni tra parenti e amici. Comprensibilmente ognuno ha esperienze diverse e come ogni regime politico ci sono stati pro e contro, ma le persone non sono pronte ad essere obiettive e non devono neanche esserlo. Io sono molto vicina a mia nonna e parliamo di ogni sorta di argomenti, poiché spesso mi racconta storie della sua giovinezza che sono facili da idealizzare viste da fuori: le cose appaiono un po’ più semplici nella mancanza di scelta e nella sicurezza del tuo percorso già predestinato. Conosci i binari lungo i quali devi muoverti e non puoi sbagliare, ma d’altra parte, se vuoi qualcosa di più e fai tante domande, diventi una persona scomoda; tempi che sono inimmaginabili per noi e per il mondo in cui viviamo oggi sia nei suoi aspetti positivi che negativi.
Oggigiorno noi abbiamo tutto ciò che mancava ai nostri genitori, ed è per questo che loro non vedono il motivo di guardarsi indietro e parlare di un passato che ha portato via molto alle persone. Secondo noi invece anche la situazione attuale non è perfetta e ogni aspetto della nostra storia deve essere analizzato in modo neutrale per imparare la lezione che ogni evento ci dà e continuare verso il nuovo con ciò che di buono c’è stato del passato, al posto di costruire caoticamente dal nulla. Questo succede nelle conversazioni intergenerazionali in cui il vissuto degli anziani e il suo effetto indiretto sui giovani può essere compreso ed elaborato da tutti.
Nonostante il malinteso iniziale, dopo l’enorme successo della mostra e dopo uno sguardo più approfondito al progetto, i miei genitori si sono resi conto dell’evidente necessità di queste discussioni e che le generazioni e i regimi politici non esistono in bolle nettamente separate, lontane l’una dall’altra. Penso che il progetto sia un buon catalizzatore per approfondire la comunicazione tra persone di età diverse, mostrandoci che le storie di tutti contano e che il mondo tanto diverso del socialismo non è più un argomento tabù da evitare a cena, anzi.
Esistono persone in Europa occidentale attratte da tutto ciò che rimanda al periodo socialista: edifici, oggettistica, visuali. Non tutti però vedono della bellezza in tutto ciò, anzi spesso dicono di amare proprio per la loro bruttezza e sgraziataggine. C’è anche chi organizza dei veri e propri tour alla ricerca di queste tracce. Che parere avete a riguardo? È un fenomeno positivo oppure un’altra percezione distorta della realtà balcanica?
Kalina: L’idea di Slavki prikazki è in gran parte proprio la lotta contro la feticizzazione di queste visioni tipizzate dell’Europa orientale, dei Balcani e della Bulgaria. Ridurre qualcosa di così grande e complesso a un “trend” è estremamente irresponsabile e superficiale. Ti priva dell’opportunità di approfondire la storia e le sfumature di una particolare cultura e ti impedisce di avere una visione d’insieme. La questione diventa ancora più delicata se consideriamo quanto sia importante per noi lo sguardo dell’Europa occidentale. Noi qui abbiamo perseguito per troppo tempo l’ideale dell’Europa occidentale. Cerchiamo di combattere l’ideale nazionale bulgaro e ci sforziamo di “europeizzarci” sforzandoci di purificarci anche da ciò che di positivo ci definisce.
Noi stesse fin dall’inizio analizziamo su kolko.slavko e poi su Slavki prikazki la bellezza nel “brutto”. Cerchiamo di osservare obiettivamente gli elementi della quotidianità circostante che sono generalmente considerati brutti e cerchiamo di arrivare alla radice del problema sfidando il pubblico a farsi domande. A chi giova considerarlo brutto?
Esiste un equivalente in un’altra cultura? Lo troviamo brutto in quel caso? Se guardiamo lo stesso scorcio con gli occhi di un bambino, lo troviamo brutta?
Molto spesso nel processo di risposta le persone si rendono conto che fino ad allora i loro pensieri avevano il pilota automatico e ripetevano cose che facevano parte di una mentalità ereditata o assorbita inconsciamente dai media che consumano. Riassumendo: tutto va preso con l’etichetta “consumare responsabilmente”.
Al momento avete portato a termine due progetti, il blok 1989 e l’apartament 2007. Quali sono state le difficoltà più grandi nella realizzazione? Quali sono le prossime idee che avete in cantiere?
Kalina: I due plastici sono stati realizzati in condizioni abbastanza diverse. Il primo, Blok No. 1989 è stato impegnativo, non tanto per la sua esecuzione tecnica, ma per il fatto che eravamo armate soltanto della necessità di portarlo a termine e all’inizio non era troppo supportato dai nostri professori. Nel processo di realizzazione abbiamo imparato di tutto e non avevamo idea di quanto lontano potessimo andare. La pandemia nel 2020 ha ritardato l’ultimazione del plastico di un anno e, dopo essere stato finalmente completato in terra natale nel 2021, ha vissuto nascosto in garage, armadi e studi e ha aspettato pazientemente di essere mostrato al pubblico nel maggio 2023.
Il nostro secondo plastico, Apartament No. 2007 è stato notevolmente più complicato da realizzare a livello tecnico. Le parti più sfidanti includevano la lunga e complessa candidatura per un finanziamento statale, l’attesa, il trasferimento in una nuova città e i primi scontri con la burocrazia, l’organizzazione di una mostra e la costruzione di un intero marchio attorno ai due progetti. Ancora una volta si può dire che la difficoltà nella creazione pratica del modello è stata la parte più semplice.
Tutto fino ad ora ci ha preparato per l’inizio della nostra carriera artistica dandoci una direzione e un significato, perché abbiamo ricevuto più reazioni calorose di quante ne avremmo mai sognate. Non c’è niente di più prezioso per un artista del sentire che il proprio lavoro viene percepito come una missione. I nostri progetti per il futuro sono molto ambiziosi, perché dopo la fine della nostra prima mostra abbiamo verificato la nostra ipotesi che quello di cui stiamo parlando è un sentimento collettivo. Senza rivelare niente di specifico possiamo confidare soltanto che i programmi futuri includeranno la coltivazione di una cerchia attorno all’idea di Slavki prikazki, in cui tutti hanno l’opportunità di farne parte.
Traduzione dal bulgaro di Giorgia Spadoni