Il grande problema di Wisława Szymborska è il fandom.
Mi spiego meglio: ho sempre avuto una discreta difficoltà ad interfacciarmi con la discrepanza tra l’opera tangibile di Szymborska e l’aura mitologica costruita intorno a lei, il che sfociava spesso -almeno per me- in una costante sensazione di diffidenza, dettata dalla pura incomprensione riguardo all’essenza ultima dell’autrice.
D’altronde, restituire una dimensione umana a Szymborska, che ha sempre fatto dell’ironia e dell’osservazione del quotidiano la base della propria poetica, è necessario; è anche per tale ragione che Si dà il caso che io sia qui, graphic novel di Alice Milani sulla vita della poetessa, mi è piaciuto così tanto. Proprio per questo, quando ci venne comunicato che Michał Rusinek, segretario per sedici anni di Wisława Szymborska e autore del recente libro di memorie Nulla di ordinario, sarebbe venuto a Bologna per discutere con noi studenti di polonistica e rispondere alle nostre domande, ne fummo tutti molto felici.
Persisteva, però, un problema: quali domande?
Al di là del normale disagio nel fare domande ad una conferenza, c’è sempre il sentore che le domande poste impersonalmente davanti ad un pubblico siano una forma di violenza a sé, specie quando riguardano terzi, soprattutto se anche deceduti. Oltretutto, Nulla di ordinario è un testo assolutamente esaustivo, che, devo ammettere, mi ha aiutata molto nell’avvicinarmi ad una Szymborska umana, pulsante e concreta al di là dei panegirici, a cui è davvero impossibile non affezionarsi.
Abbiamo quindi deciso di fare un passo indietro (sic.) per registrare e trascrivere i due colloqui con l’autore, così da dare la possibilità anche a voi lettori di conoscere meglio una faccia della poetessa spesso rimasta in ombra, ringraziando ovviamente Sara per l’incrollabile volontà che le ha permesso di sbobinare ore di conversazione.
Riportiamo qui sotto il taglio la prima parte!
Andrea Ceccherelli: Buongiorno a tutti!
Cominciamo questo incontro con Michał Rusinek. Non c’è bisogno di presentarlo alla sala, perché il novanta per cento dei presenti sono studenti della polonistica bolognese, che quindi conoscono benissimo Szymborska e conoscono benissimo Rusinek.
Dico soltanto due parole. Rusinek è stato per sedici anni il segretario di Wisława Szymborska, dal 1996, quando Szymborska ha vinto il Nobel, fino al 2012, quando Szymborska è scomparsa. In questo libro racconta i suoi anni passati accanto a Szymborska, racconta quello che ha visto, quello che ha ascoltato, in modo molto particolare perché non è una biografia, non è un calendario della vita ordinato, è un flusso di coscienza, è un racconto che procede per associazioni, un racconto continuo, un flusso.
Siamo molto contenti e ringraziamo Michał di essere venuto a Bologna e di averla voluta includere nel suo tour attraverso l’Italia per presentare questo libro. Siamo molto contenti che, oltre all’incontro in libreria che sarà stasera alle 18, abbia voluto incontrare gli studenti di polonistica.
L’incontro è pensato proprio come un dialogo con gli studenti, fra voi e l’autore. Quindi io mi fermerò qua e passerò la parola agli studenti che faranno le loro domande.
D: Quale, secondo Lei, è la poesia di Szymborska che rispecchia di più la sua personalità?
Michał Rusinek: È una domanda molto difficile, perché la risposta giusta sarebbe tutte. Ma risponderò dicendo che Szymborska aveva un modo molto particolare di scrivere; uno degli ingredienti della sua poesia è sempre stato il tempo. E infatti si può osservare che le poesie scritte subito a caldo dopo qualche evento erano le sue poesie peggiori.
È vero che non era brava a fare questo tipo di scrittura pubblicista. Inoltre, una cosa notata anche dai critici è il fatto che Szymborska, quando scriveva, toccava molti argomenti, perfino una dozzina, e aveva approcci multipli a varie tematiche. Mi sembra che fosse così, che non tutti i temi meritassero una poesia. Succedeva spesso che i giornalisti facessero una domanda su un determinato tema e, se questo tema era importante per lei, replicava: “Non risponderò ora, ci dedicherò una poesia”. Se il giornalista era stupido si offendeva (ride), ma se era intelligente si rendeva conto di aver toccato un punto importante per la poetessa.
Penso ci fossero dei temi che meritassero di essere toccati soltanto durante le interviste. Quelli un pochino più importanti venivano affrontati nelle letture facoltative, ma quelli in assoluto più importanti per lei venivano inseriti nella cornice della poesia. Quanto alle letture facoltative, è bene ricordare che non erano recensioni di libri. Piuttosto, lei aveva qualcosa in mente, voleva scrivere su qualche tema, così andava in libreria e si sceglieva un libro per avere un pretesto per parlare di questo determinato argomento.
Succedeva anche che ci fossero delle tematiche che venivano affrontate esclusivamente nelle Letture facoltative, in questa forma, quindi, letteraria. Fu così per Ella Fitzgerald, che fu una cantante molto importante per Szymborska, a cui venne dedicato inizialmente un brano nelle Letture facoltative. Nell’ultimo libro della poetessa troviamo una poesia dedicata proprio a Ella Fitzgerald, quindi si può dire che è passata ad una categoria superiore: alla fine si è meritata una poesia.
Ma lei mi aveva chiesto una cosa leggermente diversa. Credo che nella poesia di Szymborska esistano due figure retoriche, due figure poetiche. Una è sicuramente l’ironia, ed è significativo che l’Accademia Svedese l’abbia menzionata conferendole il premio Nobel proprio per la sua ironia. Bisogna però ricordarsi -lo diceva anche la poetessa- che non esiste ironia senza autoironia. Quindi, sono due figure, una racchiusa nell’altra. L’ironia è sempre accompagnata dall’autoironia.
Ci sono però altre due figure che caratterizzano il suo sguardo sul mondo. Una è l’enumerazione, l’altra è quella che viene chiamata disposizione. La disposizione non le piaceva, vi si rivolgeva sempre in maniera negativa. La trovavamo lì dove impiegava delle parole come “sempre”, “tutto”, parole che noi semplici umani non possiamo trattare perché non abbiamo questa conoscenza. Dio, se esiste, è l’unico che può trattare questi temi, noi no.
Non le piaceva molto la gente che seguiva le ideologie, i dotti, i moralisti, i politici che operavano con queste categorie. Ed ecco perché lei ha scelto l’enumerazione, figura in cui è importante il dettaglio. È il completo contrario della disposizione.
Così, quando leggiamo le sue poesie, pensiamo spesso che siano “cataloghi” dei particolari. Ed è una figura che notò anche Umberto Eco, che incluse una delle sue poesie nel suo libro Vertigine della lista. Anche il penultimo libro di Szymborska avrebbe dovuto avere il titolo “Particolari”, ma lei stessa si rese conto che non sarebbe stato opportuno che un critico chiedesse ad un altro critico “hai già in mano i Particolari della Szymborska?”.
(ringrazia)
D: Abbiamo menzionato il Nobel, volevo quindi chiedere quale fosse l’opinione di Szymborska sul premio in generale, non solo sul suo, ma sul premio come riconoscimento di autori e scrittori e per la letteratura e lingua in cui viene prodotta.
M.R.: Credo che Szymborska avesse un approccio molto riservato verso il premio Nobel, e in generale verso i premi letterari. Penso fosse consapevole del fatto che esistessero tanti scrittori eccellenti che però vengono scartati, visto che i premi vengono conferiti una volta l’anno a una persona soltanto. E questo non riguarda solo poeti, poetesse o scrittori e scrittrici polacchi, ma mondiali.
Era pienamente consapevole del lato promozionale del premio Nobel, non solo nel senso che i libri di un premio Nobel si vendevano di più, ma anche per promuovere la letteratura. Non so se si sia fatta una statistica adeguata, ma ogni volta che viene assegnato un Nobel a un autore polacco, cresce il numero di studenti di polonistica nel mondo.
Vediamo l’anno prossimo se succede davvero (ridono).
D: Mentre scrivevo la mia tesi di laurea, ho letto un’intervista del professor Ceccherelli ad Olga Tokarczuk, e lì è stato menzionato che il primo libro di Tokarczuk era un libro di poesie. Lei ha affermato che era il periodo in cui aveva meno tempo di scrivere. La domanda, quindi, è: qual è il Suo approccio a questa affermazione dopo aver vissuto con la poetessa, ma anche dal punto di vista della sua produzione letteraria?
M.R.: Credo dipenda dal metodo di lavoro che uno si impone, perché ovviamente scrivere un testo più corto non significa impiegare meno tempo rispetto ad un testo più lungo. Non sono un esperto, ma devo dire che non mi fido dei poeti che scrivono tre poesie al giorno. Nel caso di Szymborska, il processo di scrittura era molto lungo. Uno degli elementi per me più commoventi dell’archivio della Fondazione è un determinato taccuino in cui Szymborska annotava i suoi spunti per le poesie. Alcune volte erano idee, oppure versi con o senza rima, oppure soltanto concetti e immagini. Una volta utilizzata l’idea, questa veniva cancellata dal taccuino. Lo dico perché, analizzando la sua scrittura, questo taccuino risale agli anni Sessanta. Una delle prime annotazioni di questo taccuino è stato un verso che poi si è rivelato un titolo, Ad alcuni piace la poesia, ed è il titolo di una poesia scritta trent’anni dopo. Questo vuol dire che l’idea doveva maturare, in un certo senso, e può anche voler dire che durante tutto questo tempo ci ha lavorato sopra. Penso che Szymborska fosse programmata così, in un certo senso, per la scrittura delle poesie. Lo si vedeva nel modo in cui guardava la realtà, perché era solita notare dei dettagli che noi comuni mortali non vedevamo neanche. Da quello che so, però, da bambina voleva scrivere un romanzo di più volumi. Ma dopo tre pagine abbandonò l’idea.
Una volta raccontò ad uno dei suoi incontri, quello in cui la conobbi (che risale a prima del Nobel), che quando lei e il suo compagno di vita Kornel Filipowicz erano ospiti di qualcuno, ne parlavano insieme in seguito, e si vedeva che lei ricordava l’atmosfera, le conversazioni, gli aneddoti raccontati, Filipowicz ricordava invece il materiale delle maniglie, o com’erano fatte le porte. Avevano uno sguardo diverso, evidentemente lui era più programmato per scrivere prosa, aveva bisogno di un altro tipo di dati dal mondo, un altro tipo di materiale. Non so esattamente perché Olga Tokarczuk abbandonò la poesia, ma credo che ogni scrittore debba trovare la propria forma di espressione con cui poter pienamente dire quello che vuole.
So che Szymborska apprezzava molto Olga Tokarczuk, ammirava la sua capacità di raccontare storie, perché diceva che nella letteratura contemporanea mancano dei romanzieri e dei romanzi che raccontino bene delle storie fittizie. Mi sembra quindi che ambedue le autrici abbiano trovato la forma di scrittura adeguata alla loro predisposizione. A quanto pare l’Accademia Svedese è d’accordo.
D: Volevo chiederLe quale sia la Sua poesia preferita di Szymborska e un breve commento sul perché proprio questo titolo.
M.R.: Grazie mille per questa domanda, è il genere di domande che non mi piacciono proprio. Mi è molto difficile rispondere a questa domanda perché non ho una poesia, una singola poesia preferita. Ho l’impressione che le poesie di Szymborska siano fortemente legate alle nostre esperienze quotidiane. Non so se suonerà bene, ma la sua poesia, in un certo senso, è una poesia utilitaria. Aveva la capacità di mettere sotto forma di parole esperienze che noi comuni mortali non sappiamo esprimere con la lingua. Quindi, in relazione a quello che succedeva nella mia vita, sceglievo le poesie di Szymborska che rendevano in letteratura ciò che stavo vivendo personalmente.
Esiste un saggio di Eliot dedicato ai poeti e a come i poeti dovrebbero scrivere. Eliot credeva che i poeti non dovessero scrivere le proprie esperienze, ma scrivere invece delle esperienze in modo tale che il lettore potesse trovare nel testo echi del proprio vissuto. Così, le emozioni che troviamo nelle poesie di Szymborska non sono emozioni di Szymborska, sono le mie emozioni, le nostre emozioni, le emozioni di coloro che leggono le sue poesie.
Queste esperienze di cui stiamo parlando, difficilmente traducibili in parole, sono momenti come la morte di qualcuno o la nascita di un bambino. Quando mi capitava di perdere qualcuno, le poesie che erano più vicine a me erano quelle della raccolta La fine e l’inizio, cioè le poesie dedicate alla morte di una persona. Quando nacquero i miei bambini, invece, la poesia che mi era più vicina era quella intitolata -credo- Compleanno (NB: era Un racconto iniziato). Szymborska non ricordava mai i titoli delle sue poesie, mi ha contagiato.
D: In relazione all’ultima domanda, vorrei chiedere qualcosa sulle mie due poesie preferite: La cipolla e Ritratto di donna. Volevo sapere se potesse dirmi qualcosa riguardo la genesi di quelle poesie, come sono state create, perché anche qui abbiamo a che fare con un certo modo di vedere il mondo.
M.R.: Non conosco la genesi di queste poesie, anche perché non ero ancora nato. Sono più giovane del professor Ceccherelli… È comunque una domanda a cui, anche se ero al mondo, non posso rispondere, perché Szymborska non parlava mai delle sue poesie.
Le poesie che ha menzionato lei… Per esempio, La cipolla è una poesia filosofica. Io la giudicavo anche postmodernista, definizione che a Szymborska non piaceva proprio. Metteva il muso quando le dicevo che era una postmodernista. Credo che questa poesia venga letta molto bene paragonandola ad una poesia di Miłosz, in cui parla di una certa “gazzezza”, l’essere gazza (Sroczość). È una poesia fenomenologia, un tipo di poesia molto estraneo a Szymborska.
Invece Ritratto di donna è la sua poesia più marcatamente femminista, perché raramente Szymborska assumeva un punto di vista apertamente femminista. E, visto che ci ha fatto questa domanda, diciamo due parole sul femminismo, perché mi sembra una cosa interessante. Sia nella sua poesia che nelle Letture facoltative, in cui lei è, in effetti, apertamente femminista. Tuttavia non le piacevano molto le divisioni, mi ricordo infatti che si arrabbiò molto quando qualcuno la voleva includere in una raccolta di poetesse, perché credeva fosse nocivo fare una simile divisione. Il professor Michałowicz, scrivendo un commento alla sua poesia, scrisse che lei era un grande poeta polacco, collocandola così al di là del genere di appartenenza.
Quando qualcuno si lamentava dicendo che alle donne andava sempre peggio, lei rispondeva che agli uomini andava ancora peggio. Devono mostrare tutto il tempo che hanno i muscoli e che sono virili e forti, ma gli uomini non devono dimostrare di essere forti. Raccontò una volta che, un giorno, prese sottobraccio uno dei suoi amici e questi subito contrasse il muscolo per mostrare quanto fosse sviluppato. Lei affermò che non dovevano farlo, non dovevano mostrare i muscoli.
D: Ricordo di aver letto una volta un’intervista con Szymborska, di poco successiva alla consegna del premio Nobel, in cui diceva di sé che voleva rimanere una persona e non un personaggio. Volevo chiederLe il Suo parere su questa affermazione.
M.R.: Dopo aver ricevuto il premio Nobel per lei era molto importante non cambiare le proprie abitudini, per esempio non smettere di scrivere e di scambiare lettere con gli amici, così da non far sentire loro che qualcosa era cambiato. Ciò che era più importante era però che Szymborska era diventata in un certo senso un’autorità. Molte persone le scrivevano, le inviavano poesie da recensire. Era come se fosse stata benedetta dal destino. Così si impose la regola di non scrivere giudizi sulle poesie altrui, non voleva diventar quel tipo di persona che decideva cosa andava bene e cosa male. Contrariamente a Czesław Miłosz, che il Nobel obbligò ad essere, nelle sue parole, un “giardiniere nel giardino della letteratura”.
È vero che il Nobel causa un mutamento d’approccio nelle persone nei confronti del laureato. Per non parlare del peso che Szymborska provava nell’essere riconosciuta per strada. E credo che quel processo di renderla un personaggio pubblico la mettesse in difficoltà col suo scrivere poesia ed essere autrice.
Una volta nel taxi ci capitò di incontrare un tassista, che ci disse che era un onore viaggiare con un esemplare come Szymborska. Riceveva spesso richieste di intitolare una via o una scuola a suo nome, ma non acconsentì mai, poiché per lei era come erigerle dei monumenti mentre era ancora in vita. Questo capitò proprio durante la riforma scolastica in Polonia, quando vennero istituiti molti ginnasi. Almeno una decina di scuole le chiesero di poter essere chiamate col suo nome, ma lei non acconsentì mai. La chiamavo la vittima della riforma scolastica.
D: Cosa ha scaturito la necessità di scrivere un libro su Wisława Szymborska? C’è stato un momento in particolare che La ha messa nella condizione di scriverlo o maturava questo progetto da tempo?
M.R.: A dire il vero ci fu una cosa davvero spiacevole, perché quando stavo ancora lavorando con Szymborska degli editori mi si rivolgevano con l’idea di avere già un libro pronto per quando lei non ci sarebbe più stata. Io declinai tutte le loro richieste, dal momento che non mi sentivo in grado dal punto di vista psicologico ed emotivo di scrivere un libro solo quattro anni dopo la sua morte.
La vera spinta che mi ha incoraggiato a scrivere questo libro è in realtà abbastanza banale. Gran parte del mio archivio era costituito da fax. Dopo qualche anno, i fax sbiadiscono e non si possono più leggere. Dopo quattro anni mi resi quindi conto che non sarei più riuscito a leggere quei fax. Purtroppo non avevo tenuto un diario durante il periodo di lavoro con Szymborska, ma per fortuna scambiavo molti fax con Joanna Szczęsna, una mia amica che poi scrisse la biografia Cianfrusaglie del passato. Fu uno scambio abbastanza regolare, e dopo qualche settimana riassumevo in breve cosa avevamo fatto. Ho però scritto questo libro grazie a un miracolo quasi divino: sono riuscito a recuperare tutte le nostre vecchie mail. Così potrei paragonare ciò che ricordavo con ciò che mi ero appuntato, anche se, a dire la verità, nei viaggi con Szymborska ricordavo solo quello che avevo mangiato, principalmente in Italia (ride compiaciuto).
Ho anche riflettuto a lungo su come scrivere questo libro, con quale linguaggio, in quale forma. Scrivendo di un maestro o di una maestra della parola è difficile scegliere le parole giuste che non entrino in sovrapposizione ad essa, che non esprimano troppo. Avevo sempre la fortuna di potermi nascondere dietro al lavoro scientifico perché lavoro all’università, ma non penso sarebbe stato giusto parlare in questo modo di ciò che volevo trattare. Così, ho pensato che la cosa più giusta sarebbe stato assumere il nostro tono di conversazione, lo stile con cui parlavamo abitualmente per rendere la nostra avventura in parole. Cercavo anche di mantenere la regola che Szymborska aveva quando scriveva le sue lettere, o nelle sue conversazioni giornaliere. Aveva una reazione allergica alle parole pesanti e alle parole patetiche, anche se ogni tanto dobbiamo servirci di quelle parole, perché descrivono quelle e non altre esperienze. Quindi Szymborska aveva questa regola d’equilibrio: quando usava una parola altisonante doveva subito equilibrare con una parola leggera. Ho pensato allora di scrivere il libro mantenendo questo equilibrio.
In ultimo, ho pensato di scrivere questo libro per gli appassionati di Szymborska. Mi è capitato che durante la presentazione del libro qualcuno si avvicinasse dicendo che non aveva mai letto questa Szymborska, ma ora, dopo aver letto il libro, la conosceva e apprezzava e questi erano gli incontri che mi piacevano di più.
D: Volevo chiedere, secondo Lei qual è l’opera che raggiunge al meglio la personalità, l’essenza di Szymborska?
M.R. (in difficoltà): È molto difficile dire quale opera in particolare. Per me il libro più bello di Szymborska è Sale, perché rappresenta il picco della sua creatività, il suo momento migliore. In Sale ci sono soltanto poesie meravigliose. D’altro canto, adoro anche gli ultimi libri poetici, quelli che ebbi l’onore di trascrivere. Devo anche dire che Szymborska aveva un rapporto ambiguo con l’interpunzione. Da polonista, non potevo sopportare che mancasse una virgola che ci doveva essere, e anche se avevamo un accordo in cui io non potevo commentare le sue poesie, chiedevo lo stesso di poter aggiungere qualche virgola. Lei mi rispondeva sempre: “Prego, le può mettere dove vuole”. Per questo mi piacciono gli ultimi libri di Szymborska, perché la maggior parte delle virgole sono le mie. Penso anche che dovrei pubblicare un libro da intitolare Virgole raccolte.
D: Prima di tutto volevo scusarmi per il mio polacco, perché non sono studente di polonistica e non parlo in maniera fluente, ma volevo chiedere quale fosse il rapporto di Szymborska con il potere politico durante la sua produzione.
M.R.: Prima di tutto il suo polacco è molto buono.
D: Sono sotto copertura.
M.R.: Ecco il perché di questa domanda! (ride) Credo che la risposta vada divisa. Non è un segreto che nell’immediato dopoguerra, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, lei fosse una dichiarata comunista. Era semplicemente affascinata da questo nuovo sistema entrato in Polonia. A questa domanda non si è riusciti a trovare una risposta, ma credo fosse una sorta di rivolta contro ciò che avveniva in casa sua, alle opinioni politiche che circolavano in casa. Suo padre, che morì prima della Seconda Guerra Mondiale, era un nazionalista. Forse per questo motivo dopo la guerra Szymborska si legò all’ambiente comunista. I suoi due primi libri poetici pubblicati da lei contengono molte poesie sul realismo socialista. Ancora oggi i commentatori su Facebook e su varie piattaforme di Internet la rimproverano per una poesia su Stalin.
La sua prima raccolta di poesie non politica è Appello allo Yeti. Da quel momento fu come se Szymborska si fosse allontanata dall’impegno politico. Più avanti legò con gli intellettuali prodemocratici in Polonia. Fu anche perseguitata dalla polizia segreta polacca, ma in modo piuttosto comico. La polizia segreta decise di non darle il passaporto, e nella Repubblica Popolare di Polonia era necessario il permesso per poter partire. Szymborska, però, odiava viaggiare, perciò non avere il passaporto era per lei un lusso. Era l’alibi perfetto, perché quando qualcuno la invitava ad un festival di poesia poteva rispondere: “Mi dispiace, non posso partire perché non ho il passaporto”.
La sua poesia politica migliore è comunque Un parere in merito alla pornografia. Era una poesia su quello che facevano i quadri della politica polacca, perché quando succedeva qualcosa di importante nei media si parlava del tema della pornografia per nascondere quello che succedeva veramente.
Dagli anni Novanta, invece, quando venne restaurata la democrazia e si avevano tutte le libertà, scriveva varie lettere di protesta quando sentiva che la democrazia era in pericolo. Nel 2005, quando le elezioni vennero vinte dalla destra quasi nazionalista, Szymborska si chiuse completamente, diceva che quella non era un’atmosfera in cui poter creare poesie. Si ricordava dei momenti peggiori del comunismo e dello stalinismo. I suoi amici le dicevano di spegnere la tv, che non doveva preoccuparsi, perché doveva scrivere poesie. Szymborska, però, era una di quelle poetesse che non riusciva a non accendere il televisore, aveva bisogno di tutto ciò che accadeva intorno a loro per poter scrivere. Al che, penso di essere contento che lei non possa vedere quello che sta succedendo in Polonia e nel resto del mondo.
D: Ricollegandomi al discorso dell’autorità poetica, volevo chiedere perché Szymborska non istituì mai una sua scuola poetica.
M.R.: È una domanda molto giusta, ma non sono in grado di dare una risposta. È un mistero. Prima pensavo che fosse perché non veniva presa sul serio dai poeti più giovani, come Różewicz, Miłosz e Herbert. Credo che il motivo sia nella patriarcalità della società polacca. Il poeta doveva essere un uomo, nessuno si sarebbe mai interessato ad una donna creando attorno a lei una scuola poetica. Ma in ogni caso, questo sarebbe dovuto cambiare dopo il ’96, dopo aver preso il premio Nobel.
La cosa interessante è che, dopo che Szymborska ammise di creare collage mostrando un certo talento artistico, si ritrovò con numerose persone che facevano collage e che, secondo loro, appartenevano alla stessa corrente artistica di Szymborska. Se però vi facessi vedere ora, su questo schermo, uno dei collage di Szymborska e uno dei collage di quegli artisti, sareste in grado di capire subito quale fosse quello di Szymborska.
Credo che in lei ci fosse qualcosa di inimitabile e impossibile da seguire.
D: Avrei una domanda abbastanza insolita. Sto scrivendo la tesi di laurea su Szymborska e ho una domanda molto specifica.
M.R.: Non la invidio.
D: Il mio lavoro si concentra sulle analisi delle poesie di Szymborska, in particolare con l’approccio della critica umanista ed ecologica. Visto che lei menzionava spesso la natura e gli animali nelle sue poesie, volevo chiedere quali sono gli elementi della natura che la poetessa apprezzava di più.
M.R.: Io non sono uno specialista della poesia di Szymborska, sono un teorico della letteratura. Credo comunque che il punto di vista che assumeva nelle sue poesie, l’io parlante, non era mai sopra la natura, sopra gli altri esseri viventi. La natura per lei non era una decorazione. Credo che ciò che caratterizza il suo punto di vista poetico è l’essere un elemento della natura, e assolutamente non il più importante.
Il fatto che nelle sue poesie ci siano così tanti animali era perché secondo lei le scimmie, che lei chiamava cugini, era perché lo erano davvero, e allora perché non dovremmo trattarli seriamente? A riprova di ciò lei ad esempio non diceva scimmia, ma diceva scimpanzé femmina.
Per quanto riguarda il postumanismo di cui lei chiedeva, sto pensando che, nel caso di Szymborska, si può usare il neologismo “extra-umanismo”, perché il suo punto di vista, il suo sguardo, era sempre al di fuori di noi, per questo non si può etichettare facilmente in nessun modo. Non era una poetessa di Cracovia, non era una poetessa polacca, non era una poetessa europea. Una volta mi lasciò una registrazione sulla segreteria presentandosi con “Buongiorno, qui parla una poetessa di Cracovia e dintorni”.
So che non ho risposto alla sua domanda, ma questa è una risposta che deve essere più riflettuta, più ragionata e molto più esaustiva.
D: Anche io ho una domanda sulla natura, perché in un frammento del Suo libro Szymborska parlava dei pini come alberi belli e carini, mentre Miłosz affermava che la quercia era un albero, oppure il faggio era un albero. Questa dovrebbe essere la metafora della sua poetica, ma non credo di aver capito veramente.
M.R.: A Szymborska piaceva il pino perché era un albero che poteva crescere ovunque, senza bisogno di condizioni particolari. Miłosz invece non lo considerava neanche un albero. Per lui l’albero era un essere che aveva una sua genealogia, una sua storia. Credo anche che per Miłosz fosse importante il luogo in cui l’albero cresceva. Per Szymborska non era importante il dove, mentre per Miłosz sì.
D: Volevo fare una domanda sull’approccio dei Suoi studenti a Szymborska, dato che Lei ha lavorato insieme a lei forse si aspettano un determinato modo di parlare della sua opera.
M.R.: Il mio corso non è sulla storia della letteratura, ma sulla teoria della letteratura. Non posso basarmi quindi solo sulla poesia. Cito Szymborska molto raramente. Dico sempre agli studenti che vengono da me per scrivere le tesi di laurea triennale o magistrale di non scegliere mai i propri autori preferiti, anche se amati profondamente e vicini al proprio cuore, perché risulta molto difficile assumere una visione critica e mantenere una certa distanza dalla loro opera. Ciò che noi facciamo spesso, da filologi, è una sorta di vivisezione, e farlo sulla persona che si ama è qualcosa di abbastanza perverso.
Credo di citare molto raramente Szymborska, faccio più spesso riferimento a Barańczak. Per questo sono diventato segretario di Szymborska, per non occuparmi della sua poesia e cogliere due piccioni con una fava! (Ride)