La fine del popolo sovietico: chi è Svetlana Aleksievič?

 

Chi è Svetlana Aleksievič?

Onestamente, questa è la prima domanda che mi sono posto dopo aver visto nella vetrina di una libreria una copia del suo più recente capolavoro: Tempo di seconda mano. Ricordo di non averci riflettuto più di tanto, in quel momento non ho neanche tentato di darmi una risposta, ho solo guardato quella copia in esposizione e, da severissimo giudice di copertine, sono rimasto fermo a guardare quella donna in rosso – un mazzo di fiori in una mano, la bandiera sovietica nell’altra. Ho immaginato subito che se avessi deciso di leggere quel libro (un tomo di seicento pagine circa) non sarebbe stata di certo una lettura leggera, nulla di comico, né di romantico; anzi, probabilmente avrei affrontato una delle letture più impegnative della mia vita, banalmente paragonabile a un Guerra e pace… Di fatto, a distanza ormai di un anno dall’aver terminato Tempo di seconda mano, posso affermare che non un solo capitolo è svanito dalla mia memoria. La Storia piace a poche persone: troppe date da ricordare, troppi eventi drammatici da studiare; quindi non racconterò di eroi sovietici impegnati a costruire il “radioso avvenire” sovietico, né della propaganda socialista, e tantomeno di colpi di stato. Preferirei piuttosto scrivere di Svetlana Aleksievič, e di quel popolo di «sovki» scomparso in una notte di Capodanno. 

A proposito dell’autrice (giornalista di origine sovietico-bielorussa) posso dire di essere rimasto estremamente sorpreso dalla tecnica “narrativa” adottata per Tempo di seconda manoDa veterano di Guerra e pace, Vita e destino, e Zulejka apre gli occhi mi aspettavo una prosa tolstojana, o qualcosa di simile, alla Grossman per l’appunto. Generalmente i docenti e i critici letterari insegnano a riconoscere nei vari personaggi romanzati una parte del romanziere stesso, e quindi tutte le sue possibili sfaccettature caratteriali (sicché perfino il grande Tolstoj potrebbe in cuor suo aver provato i medesimi impulsi amorosi e passionali della Karenina). Invece, leggendo i primi capitoli di Tempo di seconda mano, ho subito realizzato che non si trattava del tipico romanzo in prosa, bensì di qualcosa assai simile a un’intervista livestream con centinaia di ex-cittadini sovietici, e presto mi sono trovato a chiedere a me stesso dove fosse Svetlana Aleksievič, in quale figura interna al testo avrei potuto riconoscerla. La risposta che mi sono dato? Lei semplicemente non c’era, o quasi. Come si spiega ciò? Personalmente sono giunto alla seguente conclusione: a differenza di molti giornalisti che per svariate ragioni trovano più conveniente offrire al loro pubblico delle verità precedentemente assemblate, la Aleksievič ha evidentemente preferito lasciare che i suoi interlocutori si esprimessero in completa libertà, senza guidarli verso un proprio obiettivo, e ha così dato modo al lettore di sentirsi svincolato da ogni tipo di influenza. Il risultato? Semplice: non riusciamo a capire chi sia Svetlana Aleksievič, a meno che non decidiamo di cercare informazioni in rete. Non sappiamo quale vita abbia vissuto, quale sia il suo background storico-sociale e culturale, quale sia la sua opinione personale rispetto alle informazioni raccolte, ed è la stessa Aleksievič a stabilire che ciò debba rimanere un’incognita per il lettore, e dunque far sì che l’attenzione di quest’ultimo si focalizzi esclusivamente sulle figure interne al reportage. 

 

Le fotografie presenti in questo post sono tutte di Jean-Paul Guilloteau, che visitò la Russia poco dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

 

Qui giungiamo al testo. Sarò sincero – è innegabile che possa risultare difficile da comprendere, almeno durante i primi capitoli… In realtà non è una questione di registro linguistico, come si potrebbe pensare (per ciascun termine straniero, russo o non russo che sia, viene sempre fornita una specifica traduzione, o addirittura un’interpretazione laddove necessario). Io sono giunto a credere che si tratti piuttosto di una mancata struttura cronologica o argomentativa, e di un abituale intercalare fra un’intervista e l’altra che è completamente assente. Da ciò può derivare la sensazione di ritrovarsi catapultati da una conversazione a un’altra, da un contesto storico a un altro – prima l’epoca di Gorbačëv e poi quella di Stalin, prima le violenze di stampo razzista degli anni Novanta e poi il viaggio in orbita di Gagarin. Tuttavia, penso che nulla sia stato lasciato al caso. La stessa Aleksievič ha confessato in più occasioni di aver lavorato per molti anni alla stesura di questo testo. Perciò, quella che può apparire come una pessima organizzazione delle fonti potrebbe, invece, essere un tentativo da parte della stessa autrice di ricostruire (internamente al testo) il proprio “percorso giornalistico”, cosicché il lettore abbia la possibilità di immedesimarsi proprio nella Aleksievič, interloquire in prima persona (o quasi) con i vari personaggi, vivere le esperienze di vita altrui (forse) nella stessa sequenza in cui le ha vissute la Aleksievič conducendo le interviste. Se ci affidiamo a questa ipotesi, allora risulterà ancor più facile apprezzare il fatto che l’autrice abbia deliberatamente scelto di non figurare nel testo, se non a eccezione di pochi casi, nei quali la sua presenza risulta comunque ininfluente per il lettore. 

Dissolti i primi dubbi sull’eventualità di un libro scritto in modo drasticamente farraginoso, possiamo passare al contenuto. Qui si rende necessario precisare che il testo ruota non attorno a una singola tematica, bensì a un’infinità di esse. Malgrado ciò, è la stessa Aleksievič a suggerirci in una sorta di prefazione quale sia il denominatore comune di tutta l’opera, ossia la fine dell’epoca sovietica e l’inizio di un “tempo di seconda mano”. Anche per questa volta lasciamo da parte i sanguinosi scontri fra l’Armata Rossa e la Wermacht, l’economia pianificata del socialismo e i missili sovietici sparsi un po’ per tutto il mondo… Concentriamoci invece su questi «sovki», individui che troviamo menzionati già nei primi capitoli. Innanzitutto, chi sono? Qui entra in campo l’arte dell’interpretazione linguistica e dei giochi di parole, perché coloro che in Tempo di seconda mano vengono associati a delle palette da giardino, non sono altro che gli ex-sovietici. Esilarante, vero? Sebbene il termine russo “sovok” possa apparire in generale come un amabile vezzeggiativo di “soviet”, è sia vero che il “sovok” è la paletta tanto pratica che solitamente si usa per rimescolare il terriccio. A questo punto, in maniera del tutto spontanea, ci si dovrebbe chiedere perché il cittadino sovietico viene etichettato dispregiativamente come “sovok”, e perché sono gli stessi ex-sovietici a definire “sovok” i propri simili. Ma facciamo un passo indietro. 

Prima di tutto, sappiamo noi oggi cosa voleva dire essere un sovietico nell’epoca dell’«invincibile URSS»? Quale idea abbiamo noi oggi dell’esistenza umana sotto la bandiera rossa? Onestamente, reputo che la questione sia più o meno la medesima che sorge allorché si dica: «Io non avrei mai permesso che l’Olocausto avesse luogo». In breve: si pecca di onniscienza. 

 

Foto: Jean-Paul Guilloteau

 

Ciò che effettivamente bisognerebbe fare è una profonda analisi contestuale, tenendo bene in mente che il nostro cervello ragiona come ragionerebbe (inevitabilmente) un cervello formatosi nel XXI secolo, con i valori che contraddistinguono tale secolo rispetto al precedente. Questo significa che, anche con tutti gli sforzi possibili, il nostro cervello potrà solo avvicinarsi al comprendere l’uomo del XIX secolo. Premesso ciò, senza entrare nel dettaglio della storia dell’Unione Sovietica, possiamo comunque tentare di ricostruire l’esistenza-tipo di un comune «sovok» dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. Ipotizziamo che un qualunque cittadino sovietico avesse approssimativamente un venticinque per cento di probabilità di nascere in una famiglia di persone oneste (socialisti o non socialisti che fossero), un altro venticinque per cento di nascere in una famiglia di burocrati e uomini di partito, un altro venticinque per cento di nascere in una famiglia di “nemici del popolo” segnati nelle liste per le carceri, e un ultimo venticinque per cento di nascere ricco ma destinato a morire in strada sotto i proiettili sparati da chi un domani lo avrebbe derubato. Eccessivamente tragico? Molto probabilmente sì. 

Tuttavia, per quanto possano sembrare al limite della fantasia, questi sono quattro esempi concreti di possibile quotidianità nell’URSS (così come anche la stessa Aleksievič riporta), e, oggettivamente, questa idea potrebbe tranquillamente prender piede nella nostra mente allorché capiti di imbatterci in Tempo di seconda mano; potrebbe perfino essere da noi confermata e riconfermata man mano che procediamo nella lettura dei primi capitoli. Di fatto, questa associazione non è sbagliata – precipitosa, suggerisco io – ma non sbagliata. E ora immaginiamo il moderno cittadino (russo o di qualunque altra ex-repubblica sovietica), veterano del socialismo di guerra, investito da poco del potere dell’autodeterminazione, e con un bel novanta per cento di probabilità di poter condurre una vita normale: non risulta ancor più ovvia la ragione per cui un ex-sovietico debba affibbiare al “se stesso del passato” un termine dispregiativo quale è «sovok»? Insomma, risulterebbe più che appropriato immaginare la vita ai tempi dell’URSS secondo le quattro casistiche presentate prima; a dire il vero, potrebbe addirittura risultare inutile continuare a leggere un libro come Tempo di seconda mano (se effettivamente lo si ha già iniziato), poiché sicuramente le pagine restanti non ci descriverebbero nulla che non sappiamo già, nulla che non abbiamo già sentito nel corso delle lezioni di Storia, nulla che la nostra mente non ci abbia già anticipato. Davvero, il nostro primo e ultimo pensiero potrebbe essere che ci troviamo davanti all’ennesimo manuale storico: ecco che ci ripropinano il comunismo, il crollo dell’URSS e la fine del popolo sovietico. 

Foto: Jean-Paul Guilloteau

 

Arrivati qui, potrei concludere dicendo che Tempo di seconda mano è ad ogni modo un buon libro, un buon manuale, consigliabile a chiunque abbia del tempo libero a disposizione e ottimo per gli appassionati di Storia. Ciononostante, io sono convinto che questo non sarebbe un commento degno di Svetlana Aleksievič e del lavoro che effettivamente ha svolto, credo che non starei dicendo affatto la verità, mancherei di rivelare il motivo per cui io credo che Tempo di seconda mano non sia solo un buon libro. Mancherei di spiegare perché io considero tutto ciò che ho scritto nel paragrafo precedente una pessima rappresentazione della realtà. Perciò ripropongo la primissima domanda: chi è Svetlana Aleksievič? Il giornalista-tipo avrebbe semplicemente fornito un chiaro quadro della situazione come quello ipotizzato prima (in pratica: una cronaca nera del popolo sovietico), e avrebbe certamente scritto della giusta e benvoluta fine di un’epoca di paure e infelicità, di una trasformazione del mondo accolta a braccia aperte. Il giornalista-tipo avrebbe scritto ciò che è più ovvio – mi permetto io di aggiungere: di più superficiale. La Aleksievič, d’altra parte, ha fatto molto di più, e per comprendere ciò è necessario avere una visione completa del reportage, bisogna non scartare prontamente questo tomo traendo le conclusioni più affrettate, più comode, più sbagliate. Il testo, infatti, nella sua interezza presenta al lettore molte più casistiche di quelle che possiamo immaginare noi – situazioni ed episodi di quotidianità che sconfinano addirittura nell’amore. E così si può scoprire che la Storia non insegna tutto, lascia invece dietro sé elementi essenziali, quali sono i sentimenti umani. Solo attraverso questi sentimenti (fondati sui ricordi, sulle abitudini, sui singoli e piccoli eventi del quotidiano) il lettore può apprendere che l’URSS era molto più che un acronimo, o uno Stato; sono gli stessi «sovki» – gli ex-sovietici – a svelare quanti momenti di felicità, quante speranze e gioie abbiano scandito la loro esistenza, indipendentemente dal fatto che vivessero in un regime. Ecco perché non ci si può fermare davanti alle nostre associazioni, ecco perché Svetlana Aleksievič non si è limitata a riproporre la Storia “ufficiale”, ma si è avvalsa di testimonianze raccontate dalle persone più comuni. 

 

Foto: Jean-Paul Guilloteau

E allora di nuovo: perché Tempo di seconda mano non è solo un buon libro? Tempo di seconda mano non è solo un buon libro, perché un libro che custodisce dei sentimenti umani è molto più che un buon libro; Svetlana Aleksievič è molto più che una giornalista, e i «sovki» erano (e sono) molto più degli ex-sovietici che conosciamo tutti – erano uomini. I «sovki» sono stati uomini che – al di là di ciò che insegna la Storia – hanno vissuto la loro vita edificandola sui propri ricordi, anche più intimi, e questa vita l’hanno vista trasformarsi drasticamente, in molti casi (si impara) non su loro richiesta. Ecco perché la Aleksievič non è solo una giornalista: ha deciso di dar voce all’animo umano (e sappiamo quanto possa essere indecifrabile l’anima dell’uomo), ha descritto il dramma di uomini nati in un tempo e catapultati in un altro – uno che non riconoscono – di “seconda mano”, ha scritto della morte, dell’amore, e della memoria di un mondo che sembra sparito nel nulla – rinnegato da alcuni, e compianto da altri. Ecco cos’è Tempo di seconda mano

1 commento

  1. Ho vissuto 33 anni della mia vita in un paese comunista. Certo, Polonia non era USSR, le differenze furono moltissime, ma purtroppo anche le somiglianze non mancavano affatto. I libri come quello di Svietlana Aleksievic sono di una fondamentale importanza per qualcuno che non avendo vissuto tutto ciò, cerca di capirlo. E capirlo è un compito incredibilmente difficile. L’ho constatato tantissime volte cercando di spiegare ai miei amici italiani come era la vita oltre la “Cortina di Ferro”. Una cosa è sognare qualcosa di strano, anzi UMANAMENTE ESTRANEO e svegliarsi la mattina sospirando con sollievo “è stato solo un sogno”. Un’altra cosa è vivere UNA VITA in un ambiente completamente surreale. Una persona che non ha avuto le esperienze di questo genere no ha proprio la più pallida idea sull’impatto che questo possa avere sulla psiche.

    L’autore della recensione giustamente sottolinea “la questione sia più o meno la medesima che sorge allorché si dica: «Io non avrei mai permesso che l’Olocausto avesse luogo»”. La maggioranza dei cittadni europei di sinistra pensa ancora che il comunismo, se avesse vinto nei loro paesi, sarebbe diverso. E sbagliano. Hanno solo avuto fortuna di essere stati liberati dai americani e non dai sovietici. Ho sentito tantissime teorie, per es. che non è stato il comunismo ma “capitalismo dello stato”. Per quanto parzialmente vere, sono anche tragicamente false. L’utopia del comunismo è talmente estranea all’animo umano che per essere realizzata richiede la costruzione di un “uomo nuovo” (ovviamente “migliore”). E cosa fare nel frattempo con le masse di esseri lontani dall’ “ideale”, dall’ “uomo sovietico”? Non c’è altra strada che il terrore e la menzogna. Sottomettere qualsiasi pensiero puramente razionale, pratico, al strapotere dell’interesse politico.

    Non parlo dell’economia, anche se sono convintissimo dell’impossibilità di far funzionare in modo efficente un paese seguendo le teorie di stampo marxista. Ma la miseria che porta con se il comunismo e’ NIENTE al confronto con profonda devastazione dell’animo umano che questo NECESSARIAMENTE comporta. Devastazione così terrificante che non basta un’intera generazione per guarire la società, come si possa ben vedere in Russia e parzialmente anche negli altri paesi postsovietici. I genitori, inconsiamente, trasmettono ai figli una parte delle storture impresse nelle loro psiche distrutte, eradicate o almeno in buona parte distorte.

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