Pur non essendo carico di titoli in grado di attirare un ampio pubblico, come Joker l’anno scorso o First Man e The Favourite quello prima, quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia ha avuto una sua importanza molto particolare: è stato il primo grande festival cinematografico di portata internazionale tenuto fisicamente in seguito all’inizio della diffusione del virus.
La line-up di quest’anno era relativamente di “nicchia”, il che ha ulteriormente diminuito le presenze, oltre alla mancanza del solito red carpet – quest’anno blindato – che generalmente attraeva una vasta folla di fan ammassati, pronti a tutto per ottenere un selfie o un autografo con il vip di turno. Ovviamente, un rischiosissimo assembramento evitato. Oltre ai capillari controlli della temperatura, nelle sale a capienza dimezzata vigeva l’obbligo della mascherina, obbligo rispettato dai più. Ho personalmente potuto assistere con soddisfazione all’intervento della polizia (ebbene sì) che ha scortato fuori un individuo che si rifiutava di indossarlo.
Nonostante tutto, quest’anno mi è parso di notare che, tra tutti i problemi che ha avuto l’industria cinematografica mondiale, quella est-europea è riuscita a cavarsela degnamente e a presentare a Venezia svariate opere interessanti, di cui sono riuscito a vedere personalmente una buona parte. Vorrei iniziare menzionando i titoli che non ho potuto vedere, ovvero quelli delle Giornate degli Autori, il festival/spin-off di Venezia. Quest’anno quattro sono stati i film est-europei in selezione di questo festival: Preparations to be together for an unknown period of time di Lili Horváth, la coproduzione Serbo-Sloveno-Bosniaco-Francese Oaza (Oasis) di Ivan Ikić, Konferenstiya (Conference) di Ivan I. Tverdovskij, di produzione italo-russo-estone, e Kitoboy The Whaler Boy di Filipp Jur’ev, film belgo-polacco-russo, che ha ottenuto il GdA director’s award.
Purtroppo, non avendoli visti, posso limitarmi soltanto ad elencare i titoli, ma è importante notare che sempre alle Giornate degli Autori fu presentato Corpus Christi (Boże Ciało), film polacco candidato in seguito all’Oscar al miglior film straniero, perciò è bene tenere d’occhio questi titoli.
Passiamo alla selezione vera e propria della 77ma Mostra del Cinema di Venezia. Mentre in “Orrizzonti” ho riscontrato la assenza di film propriamente dell’est (forse il greco Mila di Christos Nikou, ma difficilmente considereremmo la Grecia un paese est-europeo e quindi lo escludo da questo resoconto), in concorso sono stati presentati tre film prodotti in est-europa e balcani, più un film nordamericano diretto da un regista est-europeo: il bosniaco Quo Vadis, Aida? Di Jazmila Žbanić, il polacco Śniegu już nigdy nie bedzie (Never Gonna Snow Again) di Małgorzata Szumowska e Michał Englert, il russo Dorogie Tovarišči (Dear Comrades) di Andrej Končalovskij e Pieces of a Woman, diretto dall’ungherese Kornél Mundruczó.
Quo Vadis, Aida?
Al venticinquesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, la regista Jasmila Žbanić, già vincitrice dell’orso d’Oro di Berlino, sceglie di raccontare gli eventi di quei giorni del 1995 attraverso gli occhi di Aida, una interprete bosgnacca che lavora per il contingente olandese della NATO. La storia procede senza artifici o stilismi, nemmeno “falso-realistici” (stile documentario, la classica telecamera a mano libera), à la Paul Greengrass. Pur essendo finzionali, la protagonista, la sua famiglia ed un altro paio di personaggi interagiscono con i reali protagonisti del massacro: non solo Mladič stesso, ma anche il colonnello Karrenman delle stesse Nazioni Unite, il cui atteggiamento ambiguo viene giustificato in parte come incompetenza ed in parte dovuto al disinteresse dei suoi superiori.
In modo scioccante, come ha già fatto con Il Segreto di Esma (Grbavica), Jasmila Žbanic si sofferma in più occasioni a sottolineare la natura fratricida delle guerre jugoslave, mostrando in che modo i due schieramenti erano composti da vicini di casa e conoscenti. Un film importantissimo, insomma, che spero venga distribuito internazionalmente su vasta scala.
Śniegu już nigdy nie będzie (Never Gonna Snow Again)
Ho trovato davvero difficile comprendere il significato di questo film. Le sinossi sono fuorvianti, lo dipingono come un thriller che si focalizza su un massaggiatore/illusionista paranormale che manipola la sua clientela. Thriller certamente non è, se non per i primi cinque minuti, in cui effettivamente il personaggio del massaggiatore, interpretato da Alec Utgoff (conosciuto come il russo simpatico che beve smoothies di continuo in Stranger Things) assume un ruolo sinistro, ma questa direzione sembra essere del tutto abbandonata. Il protagonista lavora come massaggiatore a domicilio in uno di quei quartieri residenziali recintati che ultimamente sono molto in voga tra i cittadini della classe media o benestanti dell’Est Europa, ed attraverso il suo lavoro, che mischia illusione a massaggi, riesce ad aiutare in modi diversi quel microcosmo di clienti che gli si presenta. Pur restando misterioso, e decisamente dimostrando doti soprannaturali, non diventa mai un antieroe o un personaggio veramente negativo. L’epilogo e il messaggio ambientalista finale, che si ricollega al titolo, non mi sembrano legati troppo saldamente alla trama del film, magistralmente interpretato e fotografato peraltro, intriso di riferimenti a Tarkovskij e di elementi metafisici ma che mi ha lasciato un po’ confuso, ma in positivo.
Dorogie Tovarišči (Dear Comrades)
Končalovskij è un veterano di Venezia: ha già presentato vari film, tra i più recenti, Le notti bianche del postino (Belye noči počtal’ona Alekseja Trjapicyna) nel 2014 e Paradise (Raj) nel 2016, con il quale vinse il Leone D’Argento alla miglior regia. L’assai arzillo ultraottantenne (che agli inizi della carriera co-scrisse Andrei Rublëv di Tarkovskij) vince ancora una volta a Venezia, stavolta il Premio Speciale della Critica, con un film che ritengo faccia parte di un dittico insieme a Paradise. Questo non solo per le evidenti forme stilistiche simili (la scelta del bianco e nero, il 4:3) o la presenza della stessa protagonista femminile, Julija Vysockaja, ma per il trattamento simile dell’ideologia totalitarista. La protagonista di questo film dimostra continuamente il suo completo indottrinamento allo stalinismo, al quale guarda con nostalgia durante gli eventi degli scioperi di Novočerkassk del 1962, in una dinamica simile a quella presentata in Raj attraverso il personaggio dell’ufficiale nazista. Paradise e Dear Comrades sarebbero, secondo la mia interpretazione, rappresentazioni dei due poli totalitari opposti, intrisi delle ideologie che criticano: per questo Paradise ha un elemento metafisico, oltreumano, potremmo dire; mentre Dear Comrades è saldamente legato all’esperienza “reale”. Per farmi capire meglio: Dear Comrades inscena l’oppressione del regime comunista usando gli stessi canoni di aderenza al mondo empirico e concreto professati dal comunismo stesso.
Mi è parso di notare necessari rimandi ad un capolavoro del cinema sovietico muto delle origini, Sciopero di Sergei M. Ėjzenštejn del 1925, ad ulteriormente sottolineare il paradosso di uno sciopero soffocato nel sangue da un regime che trae le sue origini dalle sommosse dei proletari.
Pieces of a Woman
Pur essendo un film dell’Europa centrale e non orientale, ho giudicato fondamentale includere il primo film in lingua inglese di Kornél Mundruczó, regista e attore ungherese che ha ottenuto la notorietà internazionale con White God – Sinfonia per Hagen. Questo film, per il quale Vanessa Kirby ha ottenuto la Coppa Volpi come miglior attrice (dandole buone probabilità per gli Oscar – nel 2018 Olivia Colman vinse lo stesso premio e successivamente l’Oscar come miglior attrice) e giudicato recentemente “sorprendente”da Martin Scorsese (che in seguito ne è diventato produttore esecutivo), è un dramma costruito attorno ad una gravidanza finita male e le conseguenze che questo evento ha sui genitori ed i parenti. Diviso in otto atti, ognuno a distanza di circa un mese dall’altro, questo film ha un’atmosfera dal gusto tipico di Bergman. Ho visto molti paragoni con le pellicole di Cassavetes, ma secondo me non c’è quell’effetto improvvisato riscontrabile nel regista statunitense. Al contrario, si tratta di un’opera scritta (da Kata Wéber, già collaboratrice di Mundruczó per White God) in modo rigoroso, in cui tutto torna, dove le varie sequenze mi ricordano più Sinfonia D’autunno di Volti. A questo vanno sommate le performances, non solo di Vanessa Kirby ma anche di Ellen Burstyn e Shia Labeouf, e la fotografia, i vari piani sequenza, di cui uno dalla lunghezza di ben 36 minuti circa. Wéber e Mundruczó hanno annunciato che la loro collaborazione continuerà.
Questo è quanto sento di raccontare riguardo ai film dell’est proiettati alla Mostra del Cinema di Venezia. Aggiungo un ultimo titolo interessante: l’iraniano Dashte Kamoush (The Wasteland), il vincitore del premio Orrizzonti, intriso di riferimenti a Béla Tarr (ammessi dallo stesso regista), che testimonia, insieme alla fortissima line-up dell’Est Europa, che il cinema esteuropeo contemporaneo è ancora lungi dall’essere secondario, nonostante il periodo per nulla facile.