Polonia: “l’inferno delle donne” in due secoli di femminismo, arte e storia

L’11 giugno, in mezzo al tumulto delle proteste di Black Lives Matter, arrivate anche in Italia, si riapriva la ferita di un portato nazionale col quale non si è mai giunti a patti. “Il mito degli Italiani brava gente aleggia ancora come uno spettro su una nazione che si autoassolve sempre dai crimini che commette”, scriveva Igiaba Scego, mentre l’opinione pubblica si frammentava intorno al significato simbolico delle statue, all’ormai abusata e annosa questione della separazione dell’arte dall’artista, alla doverosa revisione storica della figura di Indro Montanelli. Il 17 giugno, Martina Neglia discuteva insieme a Yasmin Riyahi, dottoranda in storia dell’arte presso l’Università La Sapienza e podcaster su Exibart, del valore simbolico delle statue e del potenziale artistico e performativo degli atti di protesta, con delle grafiche che Elisa Lipari ha ricreato per noi in salsa polacca per l’occasione.


È arrivato poi il 22 ottobre, giorno della decisione della Corte costituzionale polacca che avrebbe reso illegale l’aborto anche in caso di malformazioni del feto, e che ha portato centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza contro questa misura che, de facto, avrebbe criminalizzato l’aborto praticamente del tutto. È trascorso ormai più di un mese e le proteste non sembrano voler cedere di un passo, ma avendole seguite con particolare attenzione ho notato una specificità tutta polacca nelle modalità di dissenso, dalla performance art nelle strade alla risignificazione dei propri riferimenti culturali in nuove chiavi di lettura, a dimostrazione che l’arte è sempre una questione ideologica. Ma, per le donne, è una questione più che ideologica: è un campo di battaglia dove il corpo femminile è stato oggetto di secoli di costruzione e rielaborazione, e la cui ultima sfida all’autonomia non è che l’ennesima riproposizione di una narrazione estranea alla realtà fisica, in quanto legata al percorso di indipendenza e identità nazionale della Polonia.


L’intenzione di questo articolo è pertanto quella di fornire un inquadramento storico e culturale per rendere più comprensibili, nelle loro sfaccettature, le immagini di dissenso più forti, ricostruendo una cronologia della costruzione e, soprattutto, della decostruzione del corpo femminile nella cultura polacca. Una decostruzione in atto sia nell’arte, con le opere di Natalia LL, Dorota Nieznalska e altre artiste e performer, sia nella critica femminista, con il lavoro di teoriche come Maria Janion e Agnieszka Graff, di cui è disponibile un pezzo tradotto su InGenere.

 

Un manifestante sostituisce il cartello della rotonda Roman Dmowski con “rotonda Diritti delle donne”

 

Partiamo quindi dal principio, dai polacchi. Popolo di santi, poeti e, nel migliore dei casi, entrambe le cose. O meglio: popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di colonizzatori, di colonizzati e, proprio come noi italiani, di individui alquanto restii a fare i conti con il passato e con le problematiche che la propria identità nazionale porta con sé – soprattutto in un contesto in cui la costruzione non solo dell’identità, ma della stessa unità nazionale è stata guadagnata con sangue e sacrificio. Come ogni anno, l’11 novembre in Polonia si festeggia il giorno dell’indipendenza, anniversario della data di riunificazione del Paese nel 1918 dopo oltre un secolo di spartizioni e, come ogni anno da almeno una decina d’anni a questa parte, il corteo viene cooptato dai nazionalisti, da membri dei gruppi di estrema destra e anche dai fascisti di tutta Europa. Sarebbe facile analizzare questo fenomeno con gli occhi degli europei occidentali, leggerlo in chiave europeista o anti-europeista facendo riferimenti alle peculiarità sociopolitiche del Gruppo di Visegrád, come del resto è anche stato fatto, ma un’interpretazione del nazionalismo polacco non può limitarsi al solo Novecento o a un concetto di nazionalismo incentrato sulla sola patria.


Come avevamo già accennato nella live sul canale di Myssborg dedicata a Strajk Kobiet, la questione del nazionalismo polacco ha le sue radici nel sostrato romantico, e la religione cattolica ha da sempre ricoperto un ruolo centrale nell’idea di patria. Alcune delle foto della marcia dell’indipendenza di quest’anno ritraggono anche gruppi ben lontani dall’immaginario degli skinhead, dei fascisti e degli ultras che hanno lanciato razzi, bruciato appartamenti e sfasciato vetrine: persone a volto scoperto, che portano una croce con la scritta “Dio, onore, patria” illuminata da luci al neon. Nell’articolo sopra citato, l’autore scrive che la narrazione di una Polonia non fascista e patriottica ma non nazionalista non viene mostrata perché non funziona a livello mediatico. Eppure, il problema di una narrazione politica problematica (da cui peraltro sono scaturite le proteste sull’aborto che continuano dal 1993) esiste a monte, e ha origine nel periodo delle spartizioni.


La trattazione del nazionalismo polacco non può limitarsi alla parte storica né prescindere da quella letteraria e soprattutto culturale, dal momento che le basi su cui si fonda il patriottismo polacco condividono molte delle istanze per cui in questi giorni le donne sono scese in strada. La coscienza nazionale e nazionalista polacca è un’eredità romanticaè legata a doppio filo all’identità cattolica. Sono molti gli epiteti storici della terra polacca: Polonia semper fidelis, intrinsecamente cattolica, dalla conversione al cattolicesimo del sovrano Mieszko I nel 966, o antemurale Christianitatis, baluardo della cristianità, titolo guadagnato dopo la vittoria di Jan Sobieski a Vienna sull’impero ottomano. Entrambi gli eventi risalgono al periodo precedente alle spartizioni, quando il concetto di “polonità” e di appartenenza alla nazione non era correlato all’etnia o alla religione. Lo spiega bene Micol Flammini, che restituisce un quadro sintetico ma esaustivo della situazione dal Cinquecento a oggi. La riflessione che intendo fare, tuttavia, muove da questo testo di Geneviève Zubrzycki, dove l’autrice eviscera in profondità il tormentato e persistente legame tra polonità e Chiesa. Zubrzycki fa partire la sua analisi dagli anni della Confederazione polacco-lituana, epoca in cui il concetto di nazione non era correlato all’etnia (il regno polacco-lituano riuniva infatti sotto la propria egida popolazioni di diversa etnia e religione, tanto che nel Cinquecento si parlava di Polonia come di un paradiso della tolleranza), bensì alla fedeltà al sovrano da parte della piccola nobiltà, la szlachta. Al fine di unificare le diverse etnie facenti parte di questo mosaico, venne creata la narrazione mitica di una comune discendenza dai Sarmati e dagli Sciti, garantendo una coesione -almeno simbolica- tra le parti.


Il punto di rottura furono ovviamente le spartizioni, l’ultima delle quali durata dal 1795 al già citato 1918. Con le spartizioni si verifica un mutamento radicale nel concetto di nazione polacca, giacché la sopravvivenza del concetto di “Polonia” non poteva più legarsi all’esistenza di confini concreti. Svanita la repubblica multietnica e multireligiosa, ciò che restava era un portato emotivo condiviso, una narrazione comune e collettiva da mantenere viva nelle menti e nei cuori in un periodo in cui, almeno formalmente, la Polonia non esisteva più. In letteratura, quest’epoca coincide con il periodo romantico: la figura del poeta si riveste di un’aura eroica, il poeta diviene vate, apostolo, missionario devoto all’ideale supremo della patria libera. Iniziò ad affermarsi il mito di una Polonia “Cristo delle nazioni” che, forte delle proprie sofferenze che ricalcano quelle messianiche, avrebbe redento l’Europa e l’umanità. Il concetto stesso di sofferenza viene messo al servizio di un ideale patriottico che idealizzava il martirio, e che vedeva nel sacrificio estremo il fine ultimo del vero patriota polacco. L’utilizzo del linguaggio, dei simboli e delle pratiche del cattolicesimo venne da sé.


Nelle parole della sociologa Elzbieta Matynia, resistere la narrazione storica dominante significava resistere a un passato che ha assolutizzato la nazione e costruito una mitologia culturale come una guarnigione a tutela di un’identità nazionale esclusiva. La nuova idea di nazione che si impose all’epoca faceva leva sull’immaginario post-spartizioni di comunità violata, il cui simbolo per eccellenza era il nucleo familiare. Questa narrazione, sebbene apparentemente neutra sotto la lente del genere, nasconde in realtà numerosi aspetti problematici, che avrebbero contribuito insieme agli ideali cattolici alla formazione di un modello femminile tutt’altro che idilliaco. In questo interessantissimo articolo di Mikołaj Gliński viene analizzata la rappresentazione nelle arti della Polonia come donna, che in epoca romantica è generalmente dipinta come sconfitta, in catene o persino crocifissa. Il discorso sulla patria è sempre stato al centro dell’analisi e della costruzione (o decostruzione, nell’opera di alcuni autori del Novecento) letteraria, ma la stessa attenzione andrebbe rivolta al concetto di “matria”, ricalcando una polemica di qualche anno fa, o -in questo caso- di Matka Polska.

 

Polonia, 1863 – dipinto di Jan Matejko

 

In un saggio incluso in un’antologia sull’arte contemporanea polacca alle prese col sostrato romantico (il cui titolo è, ironicamente, lo stesso della famigerata installazione che celebra Papa Wojtyła), la storica dell’arte Izabela Kowalczyk dibatte sulle problematiche di rappresentazione femminile sviluppatesi proprio in epoca romantica. Scrive Kowalczyk:


Quando la Polonia perse la sua indipendenza nel 1795, le donne polacche si ritrovarono a dover fronteggiare una sfida che perdurò per altrettanti anni. Poiché il mantenimento dell’identità nazionale dipendeva dalla presenza di generazioni future che potessero preservarne la cultura, l’educazione dei figli diventò un imperativo politico. “Quando i loro mariti erano rinchiusi in prigione, mandati in esilio o avevano preso parte a rivolte da cui non sarebbero più tornati, le donne dovevano badare alla casa e alle attività di famiglia. E ricoprivano i loro ruoli straordinariamente bene. La necessità di dover far fronte a tutti questi doveri portò alla creazione di una sindrome da donna eroica, in grado di sopportare qualunque fardello, la Matka Polka (Madre polacca).


Per Kowalczyk, l’utilizzo di questo topos dell’eroina incline al sacrificio e alla sofferenza, che genera ed educa i figli per la patria, si rivelò essenziale al mantenimento degli ideali nazionali, e venne celebrata dal poeta vate per eccellenza, Adam Mickiewicz, nel suo componimento intitolato Alla madre polacca, tradotto in italiano da Mazzini. La critica al ruolo femminile nella poesia di Mickiewicz non si limita alla sola analisi di Kowalczyk. Nel suo articolo Strangers in the Country of the Poet, la poetessa e critica letteraria Julia Fiedorczuk lamenta l’alienazione femminile nel panorama letterario polacco, puntando il dito contro Mickiewicz per essere stato il principale colpevole dell’elemento più deleterio della mitologia politica polacca, vale a dire la folle idea della Polonia come “Cristo delle nazioni”. Il fascino e l’oblio di questa concezione messianica non si esaurirono in epoca romantica, scrive Fiedorczuk, perché l’immagine di una Polonia risorta e salvatrice si sarebbe indissolubilmente legata alla necessità del martirio e a un senso di predestinazione, pronta a emergere anche nei successivi momenti di crisi. Quest’eroismo disperato è stato riscontrato anche da Maria Janion, critica letteraria, accademica e teorica femminista tra le più importanti del Novecento polacco, che nella narrazione dell’insurrezione di Varsavia del ’44 vide una continuazione del mito romantico, quel mito che nel ruolo di eroi, di santi, di poeti e di artisti ha visto quasi sempre soltanto uomini.


Il problema dell’ideale del sacrificio femminile in Mickiewicz, narratologico e al tempo stesso riscontrabile sul piano reale, sta nell’aver costruito un modello di donna la cui unica speranza di autonomia risiede nell’immolazione, un modello a cui le donne aspirano pur contro ogni evidenza, e che è definito dal suo rapporto morale e spirituale con i soggetti che agiscono. È questo il modo in cui una donna in Polonia può liberarsi, scrive Janion nel suo Kobiety i duch inności. Non è parlando dei diritti delle donne, né enunciando teorie astratte su di loro (motivo per cui Mickiewicz criticava le donne europee, NdA), bensì attraverso il sacrificio che le donne ottengono il loro posto nella società. […] Ma in seguito agli obblighi romantici, la donna polacca si abituò a portare nell’ombra e in silenzio il fardello della famiglia e della vita pubblica, solo per vedersi trasformata in martire”.


Sebbene infatti il ruolo di eroe nella memoria collettiva fosse generalmente riservato agli uomini -con rare eccezioni, tra le quali ricordiamo Grażyna di Mickiewicz, poema che narra le imprese di una mitica donna guerriera- dagli studi di Maria Janion emerge un quadro diverso. Come dimostrato da Gliński, la rappresentazione del corpo di donna in epoca romantica era diviso tra la Matka Polka, la madre polacca, e la Matka Polska, la Madre Polonia. Eppure, è proprio nella rappresentazione della patria Polonia che il corpo di donna diventa un prodotto della tragedia nazionale filtrato dallo sguardo maschile. Nel definire questo portato culturale, diffuso capillarmente per tutti i territori occupati per mezzo di cartoline e tradizione popolare orale di canti e rappresentazioni religiose, Matynia utilizza esplicitamente il termine matriarcale: fu grazie a questa narrazione del femminile che le donne, in epoca romantica, godettero di una reverenza quasi sacrale, che nei fatti si traduceva nello sminuire automaticamente il loro contributo concreto alla causa.


È bene specificare tuttavia che la Chiesa cattolica, in tutto ciò, non era sempre allineata con l’ideale romantico. Condannandone gli empiti rivoluzionari e vedendo nella narrazione messianica un terreno fertile per l’eresia, l’istituzione religiosa fu la prima a diffidare dell’intero apparato iconografico del Romanticismo. Ciononostante, fu solo grazie alla presenza della Chiesa nei territori occupati (nella fattispecie quelli russo e prussiano, i più impegnati nel tentativo di distruzione del sostrato linguistico, sociale e culturale della Polonia) che i polacchi ebbero modo di riunirsi e aggregarsi fuori dalla russificazione o dal Kulturkampf, adducendo come motivazione la pratica religiosa, che veniva peraltro svolta in polacco in uno spazio sicuro dalla dominazione straniera. Il nazionalismo cattolico, pertanto, fu costruito retroattivamente, ma si cementò come narrazione portante dopo la riunificazione del 1918.


Il Romanticismo, infatti, non fu l’unica delle correnti nate sotto le spartizioni. Dopo il fallimento delle insurrezioni del 1830 e del 1863, che contribuirono alla narrazione eroica della Matka Polka, segnata dalla morte del marito e dei figli immolatisi per l’indipendenza, giunse l’epoca del Positivismo, che rigettò il mito messianico a favore dell’impegno sociale e dal coinvolgimento di tutti gli strati della popolazione in un progetto collettivo di istruzione e presa di coscienza. Da concetto astratto, la Polonia divenne quindi un territorio concreto dove l’azione, seppur limitata, era possibile. Questo impegno sociale, tuttavia, escludeva a monte dalla narrazione categorie marginalizzate come le donne e gli ebrei, discriminazioni che divengono oggetto di una cospicua fetta di letteratura femminile dell’Ottocento. Fu proprio in quell’epoca che si andò costruendo un concetto di Polonia contrapposta agli “altri”, fossero questi altri i tedeschi, i russi o gli ebrei; e in seguito alla riunificazione la narrazione patriottica si spostò dalla lotta per gli ideali alla lotta per l’integrità entro i propri confini, contro un nemico stavolta visibile e all’interno della nazione.


Nel corso della Seconda Repubblica, che corrisponde al periodo interbellico tra indipendenza e Seconda guerra mondiale, la Polonia divenne uno Stato di e per polacchi etnici e madrelingua (corsivo di Zubrzycki), sebbene comprendesse al suo interno anche territori delle attuali Lituania, Ucraina e Bielorussia (non a caso, Lukašėnka ha fatto leva sul sentimento che questi trascorsi evocano ancora oggi). Le masse subirono una nazionalizzazione, le minoranze una polonizzazione e i territori chiave vennero colonizzati al fine di erodere spazio e potere ai tedeschi e agli ebrei che risiedevano nei territori occidentali. Il cittadino modello della Seconda Repubblica venne codificato nella figura del “Polak-katolik”, una politicizzazione ibrida tra polonità e cattolicesimo propagandata dall’allora ministro degli esteri Roman Dmowski, il padre del nazionalismo polacco moderno. Nelle sue parole si cristallizzò definitivamente il mito romantico, che vedeva l’origine dell’identità e della forza polacche nell’eredità cattolica, con la Chiesa nel ruolo di protettrice della nazione: l’esito infausto di questa ideologia si ebbe in una gerarchizzazione sapientemente costruita a tavolino, che vedeva nel punto più privilegiato il polacco etnico di religione cattolica, e ai margini l’ebreo. Le ricerche di Brian Porter, accademico le cui aree di competenza si concentrano sui complessi equilibri di potere tra la comunità polacca e quella ebraica, dimostrò che la Chiesa stessa si schierò in prima linea a fianco della destra nazionalista nella propaganda antisemita.


Giunti quindi al periodo della Repubblica Popolare di Polonia, la Chiesa assunse il ruolo di protettrice e guida della nazione, ricalcando la narrazione epica della resistenza all’oppressore sperimentata durante le spartizioni. L’opposizione al Partito si svolse sul piano pratico, con la creazione di spazi di aggregazione, discussione e lotta e con i finanziamenti ottenuti grazie all’Occidente cattolico, ma anche su quello simbolico, con l’utilizzo di allegorie specifiche nel corso delle celebrazioni. Il ruolo di Papa Wojtyła fu decisivo per questa narrazione: “Qui, sempre, siamo stati liberi”, dichiara al santuario di Częstochowa, casa della leggendaria Madonna nera che restò intera durante le guerre contro gli svedesi, tuttora importantissimo luogo di culto nazionale, a rimarcare il ruolo della religione come sito storico di resistenza, e del cattolicesimo come base per la lotta. Julian Stryjkowski definì questa visita epocale “il secondo battesimo della Polonia”. Negli anni Ottanta, a fianco della Chiesa entrò in gioco Solidarność, il celebre movimento di massa cattolico e anticomunista iniziato come sindacato libero, il cui discorso politico si costruiva anche attorno al riconoscimento dell’autorità religiosa. Durante gli scioperi che scossero Danzica nel 1980, non era raro vedere accanto agli operai, inginocchiati durante la messa, fiori e immagini del Papa, in diretta continuità con il mito romantico del messianismo delle spartizioni. 

 

Una manifestazione di Solidarność del 1980

 

La Chiesa assunse il ruolo di mediatrice tra il Partito e il movimento operaio, lo stesso simbolo cristiano della croce venne secolarizzato e trasformato in simbolo collettivo contro il regime, portato in strada durante le manifestazioni, dipinto sulle cartoline e sui poster di Solidarność. E il mito della Matka Polka sopravvisse, scrive Kowalczyk, lungo tutto il corso del Novecento, ma la più grande difficoltà delle donne sotto il socialismo era l’imperativo di essere almeno due donne diverse, propagandate da un lato dagli organi del Partito, dall’altro dal sostrato culturale polacco: l’operaia, appartenente alla sfera pubblica e parte della vita collettiva della Repubblica, e la casalinga, costretta al lavoro riproduttivo e di cura non salariato e soggetta alle norme patriarcali della sfera privata. Kowalczyk differenzia il periodo dal 1947 al 1954, in cui la mancanza di lavoratori e il deficit economico portarono all’impiego di numerose donne nel settore operaio -non senza discriminazioni salariali e di accesso al lavoro-, dai decenni successivi, durante i quali il governo si appellò nuovamente all’immagine dell’angelo del focolare, che riportò le donne tra le mura domestiche. Contrariamente all’uguaglianza propagandata dal Partito, la situazione per le donne, soprattutto in un contesto di dominazione nel quale l’alternativa era la Chiesa, non era delle più rosee.


Furono infatti molte le immagini di donne e di madri elogiate per il dovere civico (una su tutte Agnieszka, celebre eroina de L’uomo di marmo di Andrzej Wajda), ma la forza del simbolo della Matka Polka rimaneva insuperata. Sotto il comunismo la Matka Polka fu una presenza malinconica che infonde speranza dalla sfera domestica, e per descriverla Kowalczyk cita una descrizione cinica e calzante di Graff: Ancora una volta gli uomini combattono per la Polonia. E ancora una volta le donne piangono,  preparano panini e mandano i figli a combattere nell’impresa. Anche Eva Stachniak, nel ricordare l’esperienza femminile sotto il comunismo, scrisse: Le nostre madri continuavano a ricordarci che le donne polacche sono sempre state compagne eroiche e affidabili per i loro uomini. Il nostro ruolo era sacro. Ci sentivamo potenti, venerate, e non abbiamo mai guardato oltre il mito.


Sarebbe quindi il momento di parlare di Solidarność, ma il suo inquadramento corretto, suddiviso nella memoria storica tra il movimento operaio nato dal basso per motivi prettamente pratici e la lotta per l’indipendenza dell’ideale polacco, è ancora oggetto di discussione. In questo articolo, la storica Magdalena Kubow menziona l’importanza che le donne ebbero nel movimento operaio, dimostrando la maggiore efficacia degli scioperi femminili rispetto a quelli maschili, già documentata in The Gender of Resistance in Communist Poland. Il successo delle donne era radicato nella loro capacità di estendere alla sfera politica i problemi della sfera sociale, in quanto consumatrici più pragmatiche; e grazie all’impiego di proteste non violente e alla loro tenacia di fronte alle risposte dell’establishment maschile, furono in grado di raggiungere risultati concreti.


Con la caduta del comunismo e l’avvento della democrazia, il cambiamento fu radicale: il corpo della donna divenne insieme oggetto di consumo, nella miglior tradizione occidentale, e terreno per la propaganda cattolica. La prima legge che avrebbe limitato l’aborto è datata 1993, e sancì il ritorno della Matka Polka declinata questa volta in chiave religiosa, con una particolare devozione alla tradizione. Venuto meno l’elemento patriottico della Polka, tutto ciò che restava era la Matka, la cui caratteristica più encomiabile è la sua capacità di generare una prole numerosa alla nazione.  Ma nonostante l’incompatibilità di questa figura eterea e idealizzata con la donna reale, fatta di carne e sangue, la questione di un dibattito pubblico femminista era ancora in nuce nella Polonia degli anni Novanta. Con la quarta conferenza internazionale sulle donne, tenutasi nel 1995 a Pechino, si dimostrò l’inefficacia e l’insufficienza metodologica del discorso femminista occidentale applicato all’Europa centro-orientale, esplorato dall’arte femminista degli anni Settanta di Natalia LL e Maria Pinińska-Bereś, modellata però sui canoni occidentali, scrive Kowalczyk. Il discorso postcoloniale, del resto, si interroga ancora oggi sulla singolarità dell’ex blocco socialista, etichettato come Secondo mondo e spesso trascurato da ricerche altrettanto accurate. In un suo articolo pubblicato su The Polish Review, Halina Filipowicz esamina la recente nascita dell’interesse per la critica femminista che andò maturandosi al tramonto del secondo millennio. Secondo la studiosa, a dare il via all’incremento di questo discorso critico furono da un lato la pubblicazione di due antologie di critica femminista sulla rivista Teksty Drugie nel 1993 e nel 1995, e dall’altro la delusione nel constatare che il nuovo establishment democratico aveva fallito nel coinvolgimento delle donne nella sfera pubblica.


La narrazione matriarcale descritta da Matynia, infatti, non si esaurì con la transizione alla democrazia che avvenne dopo il 1989: il culto nazionalista e secolare della donna era un ideale difficile da smantellare, ma ancor più difficile era esserne all’altezza. Tutto il valore di cui la donna godeva attraverso quest’immagine nei periodi più bui sembrava essersi volatilizzato una volta ottenuta l’indipendenza dal regime. Era necessario, secondo la sociologa, denazionalizzare le donne per emanciparle dal loro giogo simbolico. L’intera scena letteraria e artistica si era ripiegata sull’esplorazione del quotidiano, del banale, fuori da narrazioni dalla portata simbolica e universale che idealizzavano il ruolo della donna e dell’artista.  Negli anni Settanta e Ottanta l’arte femminista esisteva come pallida imitazione di quella occidentale, ma un discorso locale di ridefinizione del genere andava finalmente formandosi proprio in quegli anni, e trovava una forte eco in campo artistico. Scrive Matynia:


Sebbene la “sfera pubblica” generata dalla società antecedente al 1989 non fosse esattamente pubblica, era energica e rigogliosa, e quasi sicuramente fu proprio la società ad aver dispiegato il cambiamento democratico. Dieci anni dopo l’accordo epocale negoziato con il regime comunista, una sfera pubblica, ora realmente pubblica e libera, si è trovata in circostanze simili a quelle della società civile ottimizzata professionalmente, a cui era assegnato uno spazio appropriato nel contesto di una democrazia formale. […]


La nuova democrazia, impegnata com’era con l’avvio di procedure, meccanismi e istituzioni, indebolì e marginalizzò la stessa società civile che l’aveva cresciuta. Divenne ben presto chiaro che le sole istituzioni non bastano a fare una democrazia. Non esiste democrazia senza persone che combattano per i suoi ideali, per i suoi principi, per la sua etica. Non esiste democrazia senza persone che hanno introiettato i principi di pluralismo e uguaglianza davanti alla legge. Non esiste democrazia senza cittadini illuminati, tolleranti e dotati di spirito critico.


C’è una somiglianza funzionale e strutturale impressionante tra le attività artistiche proposte oggi dalle donne e le attività sviluppate vent’anni fa nella lotta contro il regime comunista portata avanti dalla cultura dissidente. Sia la società antecedente al 1999 che quella antecedente al 1989 erano state fondate con e portate avanti da donne, che solo di rado hanno ricevuto pieno riconoscimento per i loro contributi.


Non furono solo le attività artistiche a fiorire. Secondo Filipowicz, negli ultimi decenni si è verificato un enorme interessamento alle tematiche di genere, dalla proliferazione di corsi di studio all’integrazione della metodologia femminista negli ambienti accademici, impegnati nel recupero di un intero patrimonio dimenticato. La creazione di un discorso su scala nazionale rese possibile la formulazione di un apparato critico dalla specificità locale, in grado di resistere all’egemonia di un femminismo occidentale inapplicabile sul territorio polacco, e della rielaborazione di un portato culturale della differenza (sebbene le ricerche letterarie si siano spesso focalizzate solo sull’epoca romantica) – pur con il limite noto dell’insufficienza dei discorsi femministi portati avanti solo nelle istituzioni, a cui la maggior parte delle donne non ha la possibilità di accedere.

 

Fotogramma di Seksmisja

 

Una delle critiche sociali più importanti mosse dal femminismo polacco è quella che si traduce nell’articolo di Agnieszka Graff Patriarchat po Seksmisji, “Il patriarcato dopo Seksmisja”. Seksmisja, film del 1984 di Juliusz Machulski ormai divenuto un cult in Polonia, è la storia di una distopia che vede in un futuro non troppo lontano una dittatura matriarcale, insegnandoci che un mondo governato da donne è non soltanto fantascienza, ma anche una commedia. L’articolo si apre con una dichiarazione pronunciata durante la discussione del Sejm in merito al disegno di legge sull’uguaglianza tra uomini e donne:


La donna in Polonia è sempre stata trattata con riguardo, e lo è ancora. Le veniva portato il dovuto rispetto e le venivano presentati onori e uno status di grande dignità. Ha avuto e ha tuttora la possibilità di una carriera professionale, scientifica e politica. Può realizzarsi in molti ambiti e in molti aspetti della sua vita. Veniamo descritte con orgoglio come “Matki Polki” per enfatizzare il nostro ruolo importante nella vita privata e nazionale. Siamo un Paese in maggioranza cristiano e cattolico. E nella nostra religione cattolica la donna occupa un posto speciale. Dio ha creato l’uomo e la donna dando loro dei ruoli diversi nella vita. Non si dovrebbe cambiare questi ruoli e cercare di correggere l’operato del Creatore.


Ciò che preoccupò Graff fu la giustificazione in termini religiosi di una divisione biologica assoluta tra i sessi, così come il discorso politico di esclusione su base identitaria di un’intera fetta di popolazione. Il problema dell’Europa orientale, scrive Graff citando l’analista politica Peggy Watson, risiedeva nella radicale depoliticizzazione della differenza operata dal regime comunista. L’impotenza politica era un problema che affliggeva tutti i cittadini, e Shana Penn, autrice di uno studio sulla condizione femminile in Solidarność, si meravigliò dell’assenza di una coscienza femminista nelle donne del movimento. Il ripristino della differenza sessuale nella transizione alla democrazia si ebbe con una serie di leggi restrittive sul corpo femminile e sulla forza lavoro riproduttiva. Il terrore di una società sempre più “omosessualizzata” dalle politiche di uguaglianza iniziò a serpeggiare già negli anni Novanta, ebbe un ritorno sulle scene con l’ingresso della Polonia nell’UE (le cui politiche neoliberali avrebbero acuito le differenze di classe, ormai un tabù dopo il crollo dell’URSS), e si manifestò nella sua ostilità più aperta con le famigerate zone LGBT-free. Il terrore di un’uguaglianza formale che avrebbe demascolinizzato la società è proprio l’assunto su cui si fondano l’esplorazione e -purtroppo- la comicità di Seksmisja. E se il ritorno alla mascolinità tradizionale fu possibile solo grazie a Solidarność, diventa evidente quanto patriottismo (e nazionalismo), cattolicesimo e mascolinità siano tuttora legati nell’opinione pubblica. La transizione alla democrazia sembrava ormai il migliore dei futuri possibili, ma, per quanto roseo, nascondeva anch’esso le sue zone d’ombra.


L’emergere di una società dei consumi si rivelò una sfida a cui far fronte, e che per Kowalczyk divenne una delle questioni cruciali dell’arte concettuale. Se il 1989 fu il punto di svolta definitivo per la libertà polacca, l’ombra del consumismo, delle forze conservatrici e del ritorno ai valori cattolici (ricordiamo la legge sull’aborto, la mancanza di educazione sessuale e di accesso ai contraccettivi, problemi per i quali si protesta ancora oggi) iniziò a stagliarsi sul Paese. La storica dell’arte e curatrice Susanne Altmann, in un articolo sull’arte femminista in Polonia tra critica sociale e censura, denuncia la ripetuta serie di opposizioni morali e giuridiche alla cultura artistica post-1989, adducendo a esempio non solo lo scandalo sollevato dall’opera di singole artiste, ma anche il clima restrittivo e apertamente censorio incoraggiato dal governo, facendo l’esempio di Nan Goldin, celebre fotografa che si scontrò contro il moralismo della gestione museale di Varsavia, e delle accuse mosse dai media locali alla mostra femminista Kobieta o kobiecie (La donna a proposito della donna).


Questa cultura artistica del dissenso sviluppatasi in Polonia era prima di tutto una cultura critica, mirata a un approccio discorsivo su cui creare delle basi per un dibattito sui ruoli di genere che presentasse le donne come persone, non più come ideali, ma dalla provocazione aperta virò poi negli anni Duemila verso l’utilizzo dell’ironia. Con la caduta del comunismo e la transizione alla democrazia, il fermento artistico uscì dalle sfere underground per sfondare le porte dell’opinione pubblica mainstream: l’arte divenne una modalità di attivismo e di creazione, modalità su cui il pubblico era invitato a riflettere, una sfida all’eredità romantica. Uno dei primi concetti su cui il panorama artistico si impegnò a creare un dialogo fu quello dell’interazione tra spazio e genere, oggetto di The Men’s Bathhouse, video-installazione di Katarzyna Kozyra che rappresentò la Polonia alla 48^ Biennale d’Arte di Venezia e che suscitò particolare clamore in patria, e la mostra collettiva Architectures of Gender, tenutasi allo Sculpture Center di New York e alla quale parteciparono sedici delle artiste polacche di punta.


The Men’s Bathhouse di Kozyra, che riscosse un meritatissimo successo alla Biennale vincendo addirittura una menzione d’onore, non ebbe la stessa fortuna in Polonia. O meglio, la copertura mediatica fu enorme, ma i pareri della stampa generalista non furono altrettanto entusiasti. L’idea del video, salutato dai media polacchi con lo slogan “L’arte polacca cambia genere”, è semplicissima: nel 1997, l’artista si recò alle terme Gellert di Budapest con una videocamera nascosta, dove filmò il bagno delle donne. Due anni dopo, fece la stessa cosa ma nel bagno maschile, truccata con barba finta e un pene prostetico. Scopo dell’opera era la rappresentazione di corpi femminili autentici, lontani dalle bellezze patinate delle riviste e dei media che giungevano dall’Occidente, dentro un un ambiente privato di sole donne, per definizione fuori dallo sguardo onnipresente dell’Altro maschile. Dopo le riprese della controparte maschile, la riflessione di Kozyra si sofferma sulla costruzione e sulla performatività dei ruoli di genere, destabilizzandone l’assunto assolutista ed evidenziandone i comportamenti e le idiosincrasie in contesti omosociali. La controversia che circondò l’opera non coinvolse soltanto la scelta dei temi trattati, rigettati da alcuni perché troppo sensazionalisti e da altri perché facenti parte di una corrente artistica che strizzava l’occhio all’ideologia femminista, ma anche per l’etica della rappresentazione di immagini girate senza il consenso dei soggetti rappresentati.

 

Fotogramma di The Men’s Bathhouse, con Kozyra in primo piano

 

Architectures of Gender, invece, fu la prima mostra collettiva di artiste polacche ad aver luogo nella Grande Mela. Composta da una serie di spazi separati occupato ciascuno da un’installazione riguardante un diverso aspetto del discorso femminista o dell’esperienza femminile, la mostra fu una svolta decisiva nella costruzione di un dibattito che mettesse in contatto le esperienze più disparate, costruendo all’interno del museo un’eterotopia in grado di accomunare il vissuto del suolo polacco con quello del visitatore. Le varie installazioni avevano lo scopo di stimolare nello spettatore una riflessione sulla sessualità, sull’attraversamento dei confini tra spazio pubblico e privato, sulle proprie emozioni. Tre erano gli ingressi alla mostra, composti dall’area verde di Julita Wojcik alla sequenza di porte sempre più piccole di Monica Sosnowska, passando per il contributo di di Jadwiga Sawicka, che conduceva i visitatori fino all’installazione di Sosnowska lungo la scia di un nastro rosa sulle pareti, sul quale campeggiavano dati sulla guerra in Iraq, sulle proteste che ne conseguirono e sulla scia di morti che stava lasciando dietro di sé.


All’interno dello Sculpture Center, il percorso procedeva attraverso le cartoline di Anna Plotnicka, piene di storie di vita vissuta; la performance culinaria Through the Stomach to the Heart di Elżbieta Jabłońska, sostituita nei giorni successivi al vernissage da un video in loop che la vedeva nel corso dei vari lavori domestici nella sua casa natale; un corridoio fiancheggiato dall’opera di Zofia Kulik The World as War and Adornment, dove due rivisitazioni grottesche e post-ironiche del Mosè michelangiolesco, private della loro mistica solenne, testimoniano un potere patriarcale ormai ridicolo e indebolito; e la già menzionata The Men’s Bathhouse di Kozyra. Scendendo le scale che dall’atrio portavano nel seminterrato dello spazio espositivo, si passava a fianco dell’installazione Habitat di Katarzyna Józefowicz, un complesso architettonico minimalista accuratamente costruito assemblando mobili in miniatura, per poi procedere nel corridoio allestito da Dominika Skutnik, pioniera delle illusioni ottiche e dell’arte sensoriale, che con il suo The Field creò un bozzolo di cavi di rame mettendo in guardia da un “forte campo elettromagnetico” i visitatori, che il più delle volte si allontanavano preoccupati.


Giunti quindi al seminterrato, spazio finale della mostra, si poteva assistere a un’installazione fotografica di Natalia LL, pioniera dell’arte femminista in Polonia già dagli anni Settanta. L’opera, intitolata Allusive space, combinava la gestione spaziale delle installazioni con l’arte concettuale basata sulla metafora e sulla ripetizione. Lo spazio allusivo del titolo è, nelle parole dell’artista, una possibilità di associare significati diversi attraverso forme semplici di un potere simbolico radicato. Soggetto delle fotografie, riprodotte in serie su tessuti che riempivano la stanza di onde, degli anturi, fiori dalla simbolica ambiguità erotica che strizzano l’occhio ai dipinti di Georgia O’Keefe. Poco distante, Omnipotence gender:male di Dorota Nieznalska: una sala a metà tra palestra e stanza delle torture, illuminata da luci rosse, in sottofondo il suono registrato in una sala pesi; e va sottolineato che la stessa decostruzione della mascolinità era presente  in quegli anni anche in artisti uomini, come nel caso di Jerzy Bereś e nelle opere dell’iconoclasta Zbigniew Libera, tra cui ricordiamo Universal Penis Expander. A terminare il percorso, Cautiously di Karolina Wysocka, un semplicissimo corridoio attraversato da due file di paletti in vetro, l’una di forma fallica, l’altra con una vulva all’estremità.


Tutte queste opere agiscono in una cornice di ricontestualizzazione dell’arte e della narrazione femminile a partire dallo spazio, che pur rappresentato in Architectures of Gender come una serie di spazi privati nei quali vengono riprodotte o sfidate le norme di genere diventa, nel momento in cui esiste in un contesto come un museo o uno spazio espositivo, uno spazio pubblico. Si crea scandalo quando l’occupazione di uno spazio implica la possibilità di risemantizzare l’intera sfera pubblica, di ridimensionare dei valori che sembravano intoccabili o di crearne di nuovi. Se analizzato sotto questo aspetto, lo scandalo può diventare il segnale di una presa di coscienza in atto, un terreno di dibattito che quando smosso è in grado di mobilitare l’opinione pubblica verso una riflessione più complessa di un monito in pietra.

 

 

A provocare le più feroci ondate di indignazione, tuttavia, furono due opere in particolare, non facenti parte di alcuna mostra collettiva: Olympia, della già citata Katarzyna Kozyra, e Pasja, di Dorota Nieznalska. Scrive Matynia:


L’onnipresenza della sofferenza spirituale, mescolata al fervore messianico e alla religiosità popolare – tutti prodotti della mentalità romantica, poi fortificatisi con la repressione comunista della Chiesa cattolica – costituisce uno degli aspetti chiave dell’ideologia culturale polacca. Nel coraggioso tentativo di denunciare questa forza ormai esaurita, divenuta irrilevante dopo la liberazione definitiva ottenuta nel 1989, l’arte concettuale diede il via a un passaggio dalla sfera simbolica e spirituale a quella fisica e sensuale, e dall’approccio intuitivo, passionale ed emotivo a uno razionale e discorsivo.


È nel tentativo di decostruire il discorso culturale sulla mistica del corpo che si muovono le esplorazioni di Kozyra e Nieznalska, la cui opera si incentra sulla costruzione del femminile per la prima e del maschile per la seconda. Per Kozyra, questa vivisezione della mistica femminile si tradusse nella sua fotografia Olympia, richiamo all’opera omonima di Manet e allo scandalo sulla rappresentazione del nudo che ne conseguì, in cui l’artista, proprio come il soggetto del dipinto, si ritrae nuda e distesa su un lettino d’ospedale, senza capelli né forze per la chemioterapia, sullo sfondo un’infermiera che regge la flebo al posto della serva. Se il riferimento a Manet ha un significato che, agli occhi degli occidentali, appare immediato e già di per sé sufficiente a giustificarne la risignificazione da parte di Kozyra, la sua potenza sovversiva appare ancor più intensa quando letta con gli occhi dei polacchi e delle polacche, ancora saturi di immagini di una sofferenza femminile spirituale, patriottica e idealizzata. L’esperienza intima della malattia, resa pubblica ed esplicita dalla narrazione di Kozyra, suscitò scandalo per aver infranto il tabù della fragilità del corpo, nudo e vulnerabile oltre il regime del desiderio sessuale in cui domina lo sguardo maschile.


La pietra dello scandalo fu tuttavia l’installazione  di Dorota Nieznalska del 2001 Pasja (Passione), grazie alla quale l’anno seguente l’artista si ritrovò al centro di uno dei processi con la maggiore risonanza mediatica della storia polacca recente. L’installazione si componeva di due elementi, una gigantesca croce greca in metallo sulla quale campeggiava l’immagine di un pene e una videoinstallazione del primo piano affaticato di un uomo alle prese con il sollevamento pesi, il volto sufficientemente stremato e contratto da alludere alla sofferenza da un lato e al piacere sessuale dall’altro. Lo stesso titolo, Pasja, strizza l’occhio alla passione di Cristo. L’intenzione, non necessariamente blasfema in primis, era quella di rappresentare la costruzione del concetto di mascolinità, in equilibrio tra violenza, performance e sacralizzazione del potere patriarcale. Nieznalska non era nuova a questo genere di esplorazione, già attuato in Omnipotence gender:male.


Se però l’obiettivo di Nieznalska era quello di porre l’accento sulla sofferenza necessaria all’ottenimento e al mantenimento della mascolinità -non senza un certo autocompiacimento masochistico, sembra suggerire-, la battaglia legale preferì occuparsi della rappresentazione  artistica, ritenuta oltraggiosa e blasfema. L’arte di Nieznalska, da sempre interpretata come un tentativo di “restituire lo sguardo” indagando sull’identità maschile attraverso un occhio femminile, ebbe in questo caso l’effetto di aver toccato un nervo scoperto, ossia la rappresentazione della mascolinità con gli stessi strumenti mitopoietici che plasmarono secoli di immaginario sulla donna. Poco importa che Pasja, anche nella sua ironia più caustica, abbia alluso alla difficoltà di rientrare negli opprimenti canoni di mascolinità egemonica.


La testimonianza dell’artista in tribunale, riportata in questo articolo del 2005, anno della seconda udienza, chiarisce bene la sua posizione: Pasja è la critica del modello culturale di mascolinità, un tipo di comportamento dei giovani uomini che si infliggono violenza torturando il proprio corpo. Ciò che ne risulta sono l’esercizio estremo in palestra e una grande sofferenza. La stessa sofferenza che ho paragonato all’immagine della croce.

 

 

Nella sua analisi del caso, durato più di venti udienze ed esaminato anche da un comitato di teologi, esperti di critica d’arte, antropologi e sociologi riuniti da tutta la Polonia, Magda Romanska scrive:


Il rapporto tra il patriarcato e la religione è sempre implicito: il pene dev’essere sempre nascosto dietro la sua costruzione fallica. Come ha sottolineato Jean-Joseph Goux: “Il fallo è una fabbricazione. È un modello costruito a tavolino. È un artefatto che simula ciò che è mancante, rendendolo enorme sacro al tempo stesso per farne un oggetto di culto”. Nieznalska l’ha involontariamente esplicitato, sollevando reazioni emotive scomode. […] I simboli sono strumenti di potere, e la giustapposizione di sacro e profano di Pasja ha reso visibile un legame concettuale tra fede, obbedienza e mascolinità.


Sono stati molti, del resto, i tentativi di inquadramento dell’opera in riferimento alle accuse di blasfemia. Anne-Marie Korte, studiosa di teologia femminista dell’università di Utrecht, ritiene che l’insorgenza di un tale discorso pubblico sulla blasfemia, originatosi nella riflessione su religione e sessualità, individuale e collettivo, sia parte integrante di un cambiamento culturale nelle società che si stanno secolarizzando. Il cambio di rotta testimonia la crescente importanza della sfera sessuale nella definizione dell’identità individuale, in cui il concetto di religione non è più importante; e la blasfemia si inserisce nel tentativo di scalfire il confine tra sacro e profano. Nel parlare del panorama critico in Polonia, spesso in contatto con le realtà cattoliche, Kowalczyk parla di questa nuova rappresentazione religiosa come una ribellione consapevole contro l’ipocrisia di una società che non vuole parlare del corpo, della sessualità, dell’Aids o dei momenti storici più traumatici. Secondo Kowalczyk, questa modalità rappresentativa decostruisce il privilegio di alcuni gruppi mettendo in risalto la messa al margine di altri, rendendo manifesto il doppio standard della società polacca. Gli stessi nomi menzionati nell’articolo vengono citati come i principali fautori di una corrente che mirava a mettere -letteralmente- a nudo i paradossi e le influenze della morale cattolica nel discorso sul genere. 


Quale forma di decostruzione simbolica, allora, soprattutto violenta, è più efficace del colpire le statue, simboli per eccellenza della virtù esemplare traslata nello spazio urbano? L’assalto alle statue da parte di attiviste, attivisti e collettivi, anche in Polonia, è una pratica che si inserisce nell’intento di demitologizzare e riproblematizzare una memoria scomoda eretta su un piedistallo a modello nazionale. In questo caso, Wojtyła è stato il bersaglio privilegiato degli attacchi delle e dei manifestanti proprio perché l’intento è di rimuovere dalla sfera pubblica i valori che egli -e con lui il substrato cattolico- incarna. Se le statue, i monumenti e gli spazi pubblici sono un’emanazione della memoria collettiva che si vorrebbe preservare, una memoria collettiva che proviene dall’alto, l’attacco al simbolo diventa un’azione dal basso, un’opposizione a un’eredità già di per sé fortemente politicizzata che implica la continuazione dello stesso clima che ha creato gli scontri per il diritto all’aborto, perché l’eredità culturale ha sempre implicazioni politiche. Allora troveremo da un lato una risignificazione costruttiva, come la Sirena di Varsavia con i simboli di Strajk Kobiet sui paramenti a proteggere la causa; dall’altro la damnatio memoriae ai danni del Papa, le cui statue sono state vandalizzate, prese di mira o verniciate di rosso sulle mani, come nel paese di Konstancin-Jeziorna.


E proprio tra questi esempi troviamo una delle immagini più forti che ci sono giunte dalle proteste, le manifestanti gettatesi nella vasca colorata de La fonte avvelenata, installazione di Jerzy Kalina che ha suscitato un gran numero di controversie, che Alessandro Ajres spiega in maniera chiara ed esaustiva in questo articolo. Riassumendola brevemente, l’installazione di Kalina, composta da una statua di Giovanni Paolo II in procinto di lanciare un meteorite in una vasca riempita con acqua colorata dai toni del rosso, è una ripresa diretta de La nona ora di Maurizio Cattelan. La statua di Cattelan destò scandalo già nel lontano 2001, quando, esposta a Varsavia, venne “soccorsa” dall’ex eurodeputato conservatore Tomczak e dalla parlamentare Nowina-Konopka, che liberarono le gambe di Wojtyła dal meteorite. La sollevazione di popolo non si limitò a questo salvataggio improvvisato, ma prese d’assalto anche l’organizzazione museale, e sebbene lo stesso Cattelan si meravigliò della serietà e del livore con cui la sua opera, un esercizio di assurdità -come l’aveva definito-, era stata recepita in Polonia.

 

 

La risposta di Kalina, tuttavia, non è stata altrettanto giocosa. L’obiettivo di questo nuovo Wojtyła, a metà tra il grottesco e il titanico, è l’annientamento della fonte scarlatta che si trova ai suoi piedi, chiaro riferimento al comunismo da un lato e ai nuovi strascichi dell’ideologia rossa -ossia le rivendicazioni femministe e pro-LGBT- dall’altro, stando alle parole dell’artista. La risposta dei connazionali non si è fatta tardare, una reazione di imbarazzo, sospetto e ilarità; ma la peculiarità ricorrente delle reazioni è stata ben più in linea con il modus operandi di Cattelan, ossia il ricorso a meme, ironia e contro-performance come quella messa in atto nel corso di Strajk Kobiet. Quanto avvenuto durante le proteste è infatti, nelle parole di Valentina Tanni, una performance identitaria: un utilizzo astuto e consapevole della viralità dei media come lavoro simbolico di di rottura delle regole sociali, una scelta di comunicazione basata sulle immagini, di per sé veicolo privilegiato in grado di trascendere la lingua, un triplo rovesciamento di significato, un détournement in cui l’arte diventa oggetto di pratiche di appropriazione.


Se quello che le recenti polemiche sulle statue ci hanno insegnato, ossia che la lotta passa per i simboli e la loro risignificazione, l’operazione delle attiviste è stata sicuramente fra quelle con l’impatto visivo e la potenzialità di diffusione più efficace. Nel corso dell’ultimo secolo sono stati molti gli scrittori a cimentarsi nella stessa impresa, che hanno dato voce al loro dissenso verso questo “culturalismo di salvezza” e verso il potere del tempo come legittimazione del racconto nazionale eroico: Gombrowicz, Miłosz, o, più di recente, Tokarczuk, ma tutti con risultati più o meno altalenanti.  Perché i simboli sono strumenti di potere, ce l’ha insegnato il processo a Nieznalska, ma sono necessarie una presa di coscienza e di azione collettive. E la scelta di combattere questo potere dal basso, con i mezzi della guerriglia urbana e di internet (uno su tutti, i meme come campo di battaglia), è un modo di dimostrare che, fuori dall’establishment e dagli ambienti che il potere ce l’hanno, si può ancora ridefinire il significato di oltre duecento anni di cultura.

 

 

 

Ringrazio tantissimo Martina e Yasmin per le consulenze e gli spunti interessantissimi sulla questione statue (ancora una volta, potete recuperarvi la loro chiacchierata cliccando qui), Elisa per le grafiche e Gaia per alcune preziosissime informazioni sulla storia della teoria femminista in Polonia.