Il corpo femminile come trincea: le vittime invisibili delle guerre jugoslave

Chi ha osservato in presa diretta le guerre jugoslave dall’altro lato della Cortina di Ferro ricorda le immagini dei telegiornali. Uomini ridotti a scheletri nel campo di concentramento di Omarska, non dissimili dai Muselmann dei lager nazisti, a meno di cinquant’anni da quel genocidio che si riteneva impensabile potesse riproporsi nel cuore dell’Europa del Novecento. Le pile di cadaveri rinvenuti negli scavi delle fosse nei dintorni di Srebrenica, il peggiore massacro dai tempi della Seconda guerra mondiale. Le giustificazioni dei Caschi Blu olandesi, il cui non intervento e dunque complicità nel massacro screditò l’Europa a livello mondiale. Le fiamme che languiscono la Biblioteca di Sarajevo, depositaria della cultura antica e multietnica che ha sempre contraddistinto l’area balcanica. La città assediata, puntellata dai cecchini chini sui tetti, i fori dei proiettili sui muri degli edifici.

 

 

Tuttavia, le guerre jugoslave si sono combattute su più fronti, e uno dei terreni di battaglia che ha trovato meno spazio nelle notizie dei mass-media internazionali riguardava il corpo delle donne. Come per la violenza sugli uomini bosgnacchi, per comprendere la magnitudo della violenza di genere e di come questa sia stata strumentalizzata e pianificata nel corso delle guerre jugoslave, è necessario ricorrere nuovamente ad alcuni fotogrammi.

L’Aia, Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, 22 febbraio 2001. Al banco degli imputati si trovano tre uomini: Dragoljub Kunarac, Radomir Kovač e Zoran Vuković. I tre soldati serbi di Foča hanno appena ascoltato il verdetto, che assegna loro rispettivamente ventotto, venti e dodici anni di carcere.  Le accuse sono di tortura, schiavitù, oltraggio alla dignità umana e stupro di massa a danno delle donne bosgnacche. Per la prima volta, le Nazioni Unite riconoscono ufficialmente lo stupro come crimine di guerra contro l’umanità, e come atto di genocidio e pulizia etnica.

Sono trenta le donne chiamate al banco dei testimoni: coperte da uno schermo che nasconde i loro volti, le loro voci sono artificialmente distorte. Sono donne senza nome: FWS-87 o FWS-50, oppure menzionate con le loro iniziali. Anche se separate da una barriera di vetro e da un drappo calato su di loro per proteggerne l’identità, si trovano faccia a faccia con i loro aguzzini. Una delle trenta donne chiamate a testimoniare si rivolge direttamente a Kovač, responsabile per lo stupro della figlia di soli dodici anni, poi venduta per duecento marchi tedeschi a un soldato montenegrino; dopo dieci anni, non ha ancora ottenuto nessuna informazione sulla figlia. Una dopo l’altra, le voci alterate e meccaniche delle donne vengono chiamate a testimoniare: c’è chi racconta di quando, minacciata col coltello alla gola, era stata costretta a camminare nuda per le strade di Foča; un’altra ragazza che ammette di essere stata violentata da venti uomini nel suo primo giorno al campo, lo stesso giorno in cui sua madre era stata uccisa dai soldati serbi. Dopo avere violentato una ragazza di soli quindici anni, Vuković la rassicura dicendole che avrebbe potuto essere molto più brutale, ma che non lo è stato semplicemente perché aveva una figlia della stessa età.

Il Tribunale Internazionale dell’Aia ha una regola: dinanzi ai giudici, ogni accusato deve dichiararsi colpevole, o non colpevole. Tutti i criminali di guerra si dichiararono non colpevoli, con poche eccezioni. Dei tre uomini di Foča, solo Kunarac in un primo momento si dichiarò colpevole, per poi cambiare repentinamente posizione.

Ciò su cui facevano affidamento i tre uomini di Foča era la segretezza con cui le donne bosgnacche avrebbero mantenuto il silenzio sulla violenza subita. Ora, invece, si ritrovano a essere accusati da diverse donne che non solo avevano portato le loro testimonianze fuori dai confini nazionali, ma persino al cospetto del Tribunale penale internazionale. Inoltre, a giudicarli era una donna, per di più straniera: Florence Mumba, originaria dello Zambia, dunque una figura extra-europea, che – pensavano loro – difficilmente avrebbe colto la complessità del conflitto jugoslavo. Al momento della sentenza, i tre condannati sembrano confusi: com’è possibile ottenere una condanna dai dodici ai quasi trent’anni, si chiedono, senza avere nemmeno commesso un omicidio?

 

 

Mentre i tre uomini di Foča stanno lì ritti ad ascoltare la sentenza della giudice Mumba, separati da una barriera di vetro, in mezzo al pubblico siede una donna che registra tutto ciò che vede e sente, anche ciò che è invisibile: la giornalista e scrittrice croata Slavenka Drakulić. Quello sul caso Foča, intitolato “Boys just had fun”, è solo uno dei numerosi reportage che compongono il suo volume They would never hurt a fly – War criminals on trial in the Hague, pubblicato per la prima volta nel 2004.

Erede del pensiero arendtiano sulla banalità del male, Drakulić ricerca e si interroga su quali siano state le matrici che hanno portato questi uomini a commettere violenze e stupri di massa. Come viene anche ripetuto nel corso del processo all’Aia, i soldati non ricevevano ordine di stuprare, discriminante cruciale rispetto all’ordine di uccidere. Tuttavia, uccidere e violentare hanno costituito, nel corso delle guerre jugoslave, i due metodi principali d’azione bellica, il cui unico scopo era annichilire e annientare l’etnia opposta.

 

Donne vittime della guerra in Bosnia / fonte Loza Foundation

 

Nel corso delle guerre jugoslave, lo stupro è stato utilizzato come strumento di pulizia etnica e arma biologica, tanto che si stima che le vittime di stupro si aggirino tra le 25.000 e le 60.000. Sebbene le violenze a danno delle donne siano state commesse da tutte le forze in causa, è indubbio che le donne che ne hanno subito l’impatto e trauma maggiore siano state quelle bosgnacche.  Attraverso l’impiego sistematico dello stupro etnico, le milizie serbe miravano a garantire i seguenti obiettivi: umiliare gli uomini della comunità nemica, rendendoli inermi e incapaci a sottrarre le proprie donne dalle violenze, attaccando e svilendo irreversibilmente la loro mascolinità; inoculare nella vittima il senso di colpa per avere arrecato disonore alla famiglia, nonché distruggere la personalità della donna, il rapporto con il suo corpo, con se stessa e la sua comunità; attuare una forma di pulizia etnica, obbligando le donne a generare i figli del nemico, soppiantando la razza inferiore per generarne una nuova e superiore – quella serba. Lo stupro etnico non è un atto singolo, bensì un progetto di violenza perpetrato verso tutta la nazione nemica, finalizzato all’annichilimento dell’identità collettiva e comunitaria, che vede il corpo delle donne – e in particolare il loro grembo – come campo di battaglia più immediato.

Nelle “stanze delle donne” presenti nei campi di sterminio serbi, i soldati forzavano la gravidanza sulle loro vittime, assicurandosi che uscissero dalla prigionia solo una volta che fosse stato troppo tardi per abortire. Queste donne si trovavano costrette a dare luce a bambini e bambine frutto della violenza subita.  Nei villaggi di montagna, custodi di un sistema patriarcale dove ogni bambino appartiene all’etnia del padre, la colpa dello stupro ricadeva sia sul nemico che sulla donna. Infatti, oltre al trauma personale, quando tornavano a casa si trovavano a fronteggiarne uno più comunitario: a causa del disonore arrecato alla famiglia, venivano spesso abbandonate dai mariti e costrette a vivere da emarginate, senza nessun tipo di indennizzo statale o assistenza. Il fenomeno diffuso dei bambini figli degli stupri etnici, è quello dei cosiddetti “bambini invisibili di Bosnia”.

La scrittrice e giornalista bosniaca naturalizzata italiana Azra Nuhefendić, scriveva: “delle vittime, in generale, non si parla, si sussurra. […] Sacrificate sull’altar della “pace a tutti i costi”, dal momento che è stato loro imposto il silenzio, oggi le vittime di stupro etnico sono un problema per un paese come la Bosnia che vuole dimenticare la guerra.

Mentre la Drina diventava una tomba di massa, l’Hotel Vilina Vlas diventava un campo di stupro. Tuttavia, all’indomani del conflitto la struttura ha riaperto come se nulla fosse, nonostante le diverse petizioni che chiedono la rimozione del sito turistico dalle ricerche Google. Cambiando il mobilio e la carta da parati, si cerca di riscrivere la storia: se i massacri si lasciano scie di cadaveri, riemersi dalla terra nonostante i numerosi tentativi di occultamento, le donne sopravvissute agli stupri etnici portano con sé la loro testimonianza diretta: è per questa ragione che a più riprese si è cercato di metterle a tacere, inoculando un trauma così profondo da renderle mute.

Poiché è proprio la voce di queste donne a costituire la prova dei crimini perpetrati in nome della superiorità etnica e nazionale, contrariamente alle speranze di ridurle al silenzio degli uomini di Milošević e Karadžić, numerose sono state le iniziative che hanno raccolto le testimonianze di queste vittime invisibili. Sono state diverse le autrici balcaniche che si sono arroccate la responsabilità di restituire i loro traumi e sofferenze, in opere che hanno tanto valore documentaristico, quanto letterario.

Oltre a raccolte come “Breaking the Wall of Silence: the Voices of Raped Bosnia” (1996) di Seada Vranić, che raccoglie oltre trecento testimonianze, e “The Suitcase: Refugee Voices From Bosnia and Croatia” (1997), a cura di J. Mertus, H. Metikos, J. Tesanović e R. Borić, è stato anche il contributo della scrittrice e giornalista croata Slavenka Drakulić a rendere noto su scala internazionale l’utilizzo dello stupro come arma di pulizia etnica nel conflitto jugoslavo, a riprova del fatto che la letteratura può essere più reale del reale.

 

La scrittrice e giornalista croata Slavenka Drakulić

 

Già nota per il suo impegno nella causa femminista grazie a opere quali “Come siamo sopravvissute al comunismo riuscendo persino a ridere” (1992), frutto di diverse interviste e racconti raccolti all’indomani del crollo del regime comunista in Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania e Ungheria, già nel ’78 aveva partecipato attivamente alla fondazione del primo gruppo di femministe jugoslave, radunatesi per la prima volta a Belgrado per una conferenza internazionale dal titolo “Comrad Woman. The Women’s Question: a new approach?”. Al di là dell’interesse per il legame tra la politica e la vita di ogni giorno, e nello specifico di come esso si sia concretizzato nella vita delle donne, Drakulić assume presto consapevolezza del silenzio intorno alla sorte femminile nei Balcani in quegli anni Novanta di sangue.

Prima della sua consacrazione come scrittrice, Slavenka Drakulić ha lavorato a lungo come giornalista, concentrandosi sulla quotidianità e sulla guerra nei Balcani. Nel dicembre del 1992, esce per il New York Times un suo articolo dove descrive gli stupri di massa ad opera delle milizie serbe nei confronti delle donne bosgnacche e croate: è una delle prime voci a squarciare il silenzio sulla loro sorte. Ciò che ha inizio come reportage giornalistico, attraverso una famelica ricerca di testimonianze nei campi per rifugiati di Zagabria e Karlovac, si concretizza sette anni dopo nel suo quarto romanzo: Kao da me nema (1999), tradotto in italiano Come se io non ci fossi (l’edizione inglese si discosta dal titolo originale: S. A Novel about the Balkans). Il titolo originale – Come se io non ci fossi – è una citazione di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, presente anche come epigrafe nel volume:

«È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola».

Fin da subito, dunque, la scrittrice rivela il motore dietro l’opera: da un lato, la necessità di raccontare l’orrore vissuto e subito, dall’altra il terrore di non riuscire a descriverlo appieno e, ancor di più, di non essere capita, creduta, persino di diventare invisibile.

Drakulić ricorda il suo primo incontro con una delle vittime: non riusciva a parlare, né riusciva a smettere di tremare; era disposta a parlare, ma non riusciva a emettere suono. È allora che capisce che la sua storia stava proprio in quel suo silenzio, in quello che non riusciva a dire a voce alta. La scrittrice croata decide in quel momento di dare voce a quel silenzio, di inventarsi le parole laddove ancora non ci sono.

Il risultato è un romanzo tra autobiografia e documentario, che racconta la sorte toccata a molte donne bosgnacche che, solo in virtù della loro etnia, furono deportate nei campi di prigionia serbi. È la storia di S., maestra di scuola originaria di Sarajevo ma trasferitasi in campagna nei primi anni Novanta a causa della guerra. S. è figlia di madre serba e padre musulmano: per questa ragione, in una mattina di maggio viene caricata insieme a molte altre donne su un pulmino diretto verso un campo di lavoro. Lì, S. realizza presto quale sarà la sua sorte, dopo essere stata condotta e imprigionata insieme ad altre nella “stanza delle donne”. Quello di S. è un racconto straziante, dove l’umiliazione, la violenza e la disumanizzazione delle donne regnano incontrastate all’interno del filo spinato del campo, e dove l’unico moto ad andare avanti è la sopravvivenza individuale, anche a discapito delle altre. Inoltre, nel libro trova ampio spazio il tema dei figli invisibili degli stupri etnici: infatti, è solo dopo la liberazione dalla prigionia che molte donne realizzano di essere oggetto di una nuova minaccia, non più esterna ma interna, contenuta nel loro grembo. È una storia senza lieto fine, che rivela l’orrore delle guerre jugoslave viste dagli occhi di donne.

 

 

Alla fine del romanzo, S. si trova in ospedale dopo avere dato alla luce un figlio, e si risveglia da un incubo, sempre più ricorrente: sta camminando tra le strade di una grande città, è estate e ha un coltello in mano. È da tempo che sta aspettando questo momento, si avvicina alle sue spalle, non ha paura, sente il sangue ribollirle nelle vene. L’uomo è chino su una vetrina, sta osservando delle fotocamere. Con la mano destra lo pugnala allo stomaco, con una fluidità e certezza nel colpo sferrato che non si aspettava. Nessuno dei passanti sembra farci caso. Lui allunga le mani sullo stomaco e la guarda. C’è sorpresa nei suoi occhi: l’uomo non la riconosce, non ha idea di chi lei sia. La sua vendetta diventa inutile, si china a terra e inizia a piangere. Madida di sudore si risveglia nel letto con le sponde, e allora capisce perché quel sogno sia stato così ricorrente: se quell’uomo si è dimenticato di lei, della sua vittima, lei non può e non deve dimenticarsi di lui o del suo passato.

Si ritorna all’immagine del Tribunale dell’Aia, 2001. Trenta donne che testimoniano, una dopo l’altra, le violenze subite dai tre uomini di Foča. Donne che, nonostante il terrore e la vergogna, si svelano davanti a telecamere che trasmettono le immagini video in tutti i notiziari internazionali. Si passa alla sentenza della giudice Florence Mumba: ventotto anni, venti e dodici anni di carcere. Lo stupro viene ufficialmente riconosciuto come crimine di guerra, e strumento di pulizia etnica. Se i carnefici anelano a dimenticare, le donne non possono permetterglielo.

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