Circa un mese fa iniziava, questa volta online, la trentaduesima edizione del Trieste Film Festival, l’evento cinematografico italiano maggiormente incentrato sul cinema dell’Est Europa. Pur essendo stata un’edizione virtuale (nel formato ormai collaudato e utilizzato anche da altri festival), si è reso disponibile un catalogo davvero nutrito di film e documentari in anteprima nazionale, tanto che è impossibile citarli tutti in un articolo senza che questo diventi troppo prolisso. È giusto d’altronde presentarne almeno una parte.
Non in concorso
Tipografic Majuscul, regia di Radu Jude
Nel panorama del cinema romeno dominato dall’iperrealismo, Radu Jude si distingue per il suo stile fortemente sperimentale. Si pensi ad Aferim!, film in bianco e nero che si pone come un western ambientato in Romania orientale, o I do not care if we go down in history as barbarians, che segue l’allestimento di un corteo in chiave semi-documentaristica per dibattere riguardo al controverso ruolo di Antonescu nella Shoah.
Il suo ultimo film, presentato precedentemente a Berlino, è un riadattamento di una pièce teatrale di Gianina Cărbunariu, di cui riprende lo stile. Si tratta del resoconto del caso di Mugur Călinescu, un adolescente che, durante il regime Ceausescu degli anni ‘80, ispirato dalle trasmissioni di Radio Europa Libera, imbratta i muri della periferia di Bucarest con testi sovversivi. A rendere particolare il film è la presenza come testo dei documenti desecretati del caso, le varie dichiarazioni, le trascrizioni dei dialoghi registrati dalla polizia segreta: lo stile austero e freddo dei documenti viene riproposto sia nell’allestimento che nella performance dei personaggi, sempre statici e rivolti verso la cinepresa. Jude intermezza le scene della storia a immagini di repertorio della televisione dell’epoca, che non fanno altro che dimostrare l’oppressione del regime del tempo. Può risultare una visione faticosa, ma di certo è uno dei film di Jude più interessanti per le tecniche sperimentali utilizzate.
Malmkrog, regia di Cristi Puiu
Nello scorso decennio, Cristi Puiu, il regista che con La morte del signor Lazarescu ha di fatto segnato la strada del cinema romeno degli ultimi anni, si è focalizzato su una serie di adattamenti dello stesso testo, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, teologo e filosofo russo di fine Ottocento, con lo scopo di esplorare le potenzialità cinematografiche del genere del dialogo filosofico. Se le versioni precedenti ne attualizzano il contesto, Malmkrog, presentato come film d’apertura al festival di Berlino di quest’anno, è un adattamento che mantiene la periodizzazione originale ricontestualizzandone l’ambientazione in una villa di campagna nella transilvania austro-ungarica.
Un film di tre ore e mezza, diviso in sei capitoli dedicati ai protagonisti del dibattito, denso di conversazioni di alta eloquenza che vertono principalmente su tematiche di ordine morale e teologico, e curiosamente non una parola in romeno. I cinque nobili conversano fra loro in francese, la lingua preferita dall’aristocrazia dell’Est, mentre la servitù parla nelle lingue minoritarie della zona, il tedesco e l’ungherese.
Se in apparenza può sembrare una pellicola densa e pesante, il tono progressivamente incalzante dei dialoghi, la dissezione di temi sì complessi ma accessibili per chiunque abbia una conoscenza filosofica anche di base, la persistenza del fuori campo, che, grazie alla regia sapiente di Puiu invade continuamente la scena attraverso rumori di sottofondo o il lento cambio di luce, e i movimenti di macchina dinamici e studiati rendono Malmkrog, a mio avviso, non solo uno dei film più riusciti di Puiu ma forse addiritura uno dei migliori in assoluto dello scorso anno.
In Concorso
Francuz, regia di Andrej Smirnov
Andrej Smirnov è forse più conosciuto per il suo ruolo in Elena di Andrej Zvjagincev, ma in realtà è uno dei più grandi registi di epoca sovietica, che dopo un periodo di censura ha recentemente ripreso la produzione registica.
Francuz è spesso stato messo in relazione con la Nouvelle vague francese, ma a livello tecnico non presenta quasi nessun punto -se non di scarsa rilevanza- in comune, e solo a tratti sembra alludere a Jules e Jim di Truffaut. La storia di uno studente in viaggio di ricerca per la tesi nella Mosca degli anni Sessanta è piuttosto equiparabile a certi film degli anni Ottanta sulla gioventù sceneggiati da Bereményi Gèza, che mettono in luce una sorta di controcultura giovanile, se si può così descrivere, nell’ambito del blocco Est. Ciò che colpisce è come Smirnov contrappone il militantismo di sinistra caratteristico degli studenti francesi dell’epoca, descritto come vuoto, ingenuo e imborghesito, alla realtà demistificata del regime comunista da loro lodato, oppressivo e lontano dai valori a esso attribuiti. È un elogio di quella gioventù che nell’Est si è opposta al sistema.
Otac (Padre), regia di Srdan Golubović
Vincitore del premio del pubblico al Festival. Personalmente la mia cultura cinematografica sui Balcani è molto ristretta, e Golubović non era un regista a me noto prima del festival, ma la storia di un padre che, in condizioni di povertà assoluta, viaggia a piedi fino a Belgrado per presentare ricorso all’allontanamento dei figli da parte del corrotto organo provinciale di assistenza sociale mi ha reso curioso di recuperare quanto prima le altre opere del cineasta.
Un racconto minimalista e concreto, disperato, nel quale anche un semplice gesto di elemosina diventa carico di emozione, e che mai rifugge nell’idealizzazione. Non è possibile descriverlo come un film d’inchiesta, pur avendo elementi di critica istituzionale, o un “road movie”, pur grondando di scenari naturali stupendi. È una storia semplice, reale e incontaminata da orpelli stilistici, quasi fosse un film di Bresson: è privo di colonna sonora, adopera principalmente la camera a mano, anche la recitazione è relativamente sobria e naturalistica eppure è capace di suscitare l’empatia del pubblico (come dimostra anche il premio già citato) nel profondo. Certamente da annoverare fra i film più riusciti della scorsa stagione.
Exil, regia di Visar Morina
Un argomento caro a chiunque abbia origini esteuropee e vive in Europa occidentale: quello della vita da immigrato. Se un altro splendido film in concorso da non perdere, il polacco Jak nadjalej Stad (I never cry) di Piotr Domalewski, tratta l’argomento dal punto di vista di coloro che restano a casa e vedono emigrare i loro cari, Morina sceglie di raccontare le esperienze di un ingegnere farmaceutico kosovaro che, pur integrato in Germania da anni, percepisce un senso di discriminazione più o meno passivo in ambito lavorativo e familiare. Se da un lato colpisce in che modo influiscano anche i gesti più semplici, come la difficoltà di comprendere il nome, o gli elogi che sottolineano la nazionalità; dall’altro si delinea anche la questione della mispercezione del protagonista, che interpreta certi atteggiamenti come discriminatori quando, nella realtà dei fatti, sono soltanto determinati dalla sua personalità specifica. Il tutto è narrato attraverso piani sequenza stabili e fluidi, una colonna sonora volutamente stridente per immedesimare lo spettatore nel punto di vista del protagonista, e scene che spesso si interrompono senza una risoluzione ed eventi solamente implicitati.
Strah (Fear), regia di Ivaylo Hristov
Oltre al vincitore del concorso cortometraggi, Dalej Jest Dzień di Damian Kocur, anche il bulgaro Ivaylo Hristov tratta il tema della rotta balcanica attraverso un incontro fra un immigrato e un locale. Curiosamente, entrambi scelgono il bianco e nero come supporto, forse a delineare una forma di apparente opposizione tra due mondi anche a livello intrinseco. Strah sfrutta le potenzialità di questo supporto al massimo, inscenando fantastiche riprese in notturna.
Il film mette in risalto, attraverso le peripezie della maestra vedova Svetla (Svetlana Yancheva), un personaggio che ricorda molto i ruoli di Frances McDormand in Tre manifesti a Ebbing, Missouri e Nomadland, che ospita Bamba, un profugo in viaggio verso l’Europa occidentale, la cui presenza perturba la comunità rurale di confine. Una narrazione che mai annoia ma che si concede momenti di poetica, che descrive il finto buonismo ed il razzismo passivo-agressivo molto diffuso nell’Est al giorno d’oggi.
Sweat, regia di Magnus Von Horn
Selezionato a Cannes, questo curioso film polacco diretto da un regista svedese descrive tre giorni nella vita pubblica e privata di un’influencer di fitness. Se la tematica suona superficiale e genera il sospetto di una narrazione a senso unico che risente del dibattito mainstream neoliberista, più che essere un elogio di questa nuova professione l’opera di Von Horn solleva degli spunti interessanti. Il film pone al centro il dualismo tra pubblico e privato in cui la protagonista si ritrova a vivere, il senso di solitudine paradossale in confronto alle centinaia di migliaia di follower, e attraverso un pranzo di famiglia il regista delinea i difficili rapporti interpesonali che sembrano aver implicitamente portato la protagonista alla sua scelta lavoratica. Per noi italiani può destare curiosità e orrore la scena ambientata in una discoteca, con in sottofondo una canzone in italiano scritta appositamente per il film e ci ricorda il tema degli stereotipi italiani nell’Est, emersi soprattutto nel famoso varietà russo dagli echi sanremesi dello scorso capodanno. Sweat ha ottenuto al Trieste Film Festival il Premio Cineuropa.
Dasatskisi (Beginning), regia di Dea Kulumbegašvili
Vincitore del concorso del Trieste Film Festival, parte della selezione di Cannes e lodato da Luca Guadagnino, questo film georgiano ha grande potenziale a livello internazionale.
Il film racconta la rinascita di Yana, la moglie di un pastore locale di una perseguitata comunità di Testimoni di Geova, che nel corso di una settimana subisce una violenza e ha un’epifania che la porta a cambiare la propria vita. Colpisce la narrazione per quadri: l’intero film è composto di circa quaranta inquadrature fisse. Coincidentalmente, anche il bosniaco Faruk Lonkarevic adotta una tecnica identica per il suo Tako da ne ostane ziva (Così lei non vive più), arrivando ad utilizzare addirittura solamente diciassette inquadrature. Se è discutibile l’effetto di rallentamento ulteriore che questa scelta provoca nelle due opere, permette allo spettatore di analizzare i fatti da un punto di vista straniante, esterno ed oggettivo.