Mi ritrovo ad affermare, con una certa convinzione, che la cacciata dal giardino dell’Eden sia stata in gran parte provocata da quel frutto che noi uomini chiamiamo Poesia. Quando nella seconda metà del Ventesimo secolo un numero sconfinato di “paradisi artificiali” veniva eretto nelle terre dell’Est Europa, molti poeti vennero messi al palo dell’inquisizione, poiché portatori di quell’eresia chiamata poesia.
Tra questi imputati al banco ci fu il poeta e saggista Czesław Miłosz, la cui testimonianza dei soprusi del regime è rimasta in molte delle sue opere. Nelle parole di Miłosz, l’accanimento così violento contro la poesia è causato da quella natura divina che schiude negli uomini il loro potenziale magico. Nel suo saggio La mente prigioniera afferma che “Quanto alla poesia, siccome le sue fonti difficilmente si distinguono da quelle della religione, essa è particolarmente esposta al rischio della persecuzione. Certo il poeta può descrivere le montagne, gli alberi e i fiori. Ma basta che provi di fronte alla natura quel trasporto indefinibile che s’impadronì di Wordsworth durante l’escursione a Tintern Abbey, perché venga bollato e, in caso di resistenza, scompaia dal mondo della vita letteraria. Questo è un ottimo mezzo per annientare legioni di cattivi poeti che adorano far pubblico sfoggio dei loro voli panteistici, ma lo è anche per annientare la poesia in generale sostituendola con opere che hanno lo stesso valore delle canzoncine-réclame trasmesse dalla radio negli Stati Uniti.”
Sempre nel suo saggio, Miłosz fa riferimento al ketman, una tecnica di mascheramento adottata per simulare un’apparente adesione all’ideologia del regime, tecnica che assicura una libertà parziale e di breve durata. Molti poeti preferirono rinunciare allo stato di grazia e alle agevolazioni che il partito avrebbe loro fornito, scegliendo la via dell’esilio o della scrittura clandestina. L’abbandono dell’arte poetica provocò in queste persone una profonda crisi esistenziale, che fronteggiarono con l’adozione di nuove forme artistiche, meno soggette al controllo del regime socialista.
Se Miłosz scelse la saggistica – poiché una poesia slegata dalla sua lingua madre avrebbe rappresentato per lui una forma di tradimento – la poetessa e scrittrice Magda Szabó decise di passare al romanzo. La “Grande Dame” della letteratura ungherese, tradotta in ben quarantadue lingue e osannata dallo scrittore Hermann Hesse, ci ha donato, in una sorta di gioco sadico del fato, la più grande letteratura che il ventesimo secolo abbia mai conosciuto, opera che ancora oggi è troppo poco letta e dibattuta.
Molte sono le ragioni che stanno alla base della sua “impopolarità”. L’opera di Magda Szabó è difficile da inquadrare e non semplicemente per una questione di genere letterario. Szabó ha l’incredibile capacità di muoversi lungo una traiettoria che dal micro – la vicenda familiare – va al macro – la realtà sociale – senza che questo passaggio venga percepito nel lettore. In ogni singolo sprizzo di vita individuale si riflette una moltitudine di vicende personali e storiche, in cui ogni riflesso porta a una nuova immagine: nel più piccolo elemento narrativo si innesta un meccanismo caleidoscopico, che proietta il lettore a una visione esponenziale che richiede diverse pause e riletture per essere compresa appieno. Proprio come in un affresco, il lettore deve soffermarsi, osservare i singoli elementi, ridisegnarli assieme nella sua mente. Gli scenari che il lettore si trova ad analizzare gli sono tutt’altro che estranei, poiché fanno parte della sua esperienza, ma per la prima volta li vede senza filtri, vede se stesso senza filtri e nel vedersi si scotta e soffre.
Persino in una fiaba così delicata come Lolò, il principe delle fate non mancano momenti di forte turbamento. Szabó si appropria di un linguaggio folklorico per parlare di qualcosa di sinistro, legato alle dinamiche del potere non solo in campo politico, ma anche individuale (un esempio lo costituisce il ricatto quasi di natura sessuale che la regina si trova a subire).
In quello che è il suo primo romanzo, dal titolo Affresco, Szabó è in grado di fornirci un così limpido quadro della bruttura umana, filtrato però attraverso le vicende familiari. Lo fa senza che il lettore se ne renda conto, gli si avvicina all’orecchio in punta di piedi e gli racconta una storia ascoltata mille volte, ma che risuona dentro come una rivelazione, un coro di trombe d’angeli. La vicenda si svolge attorno a una ragazza, la sua famiglia e le strategie di sopravvivenza da loro adottate nella vita sotto il regime.
Il folle, Crono, Prometeo e la ribellione interiore
Nel dispiegarsi iniziale della vicenda, ad aleggiare come un’ombra sulle vite di tutti i personaggi è la figura titanica del padre di Annuska. L’uomo è un Crono costantemente impegnato a divorare le esistenze dei suoi familiari, con una particolare attenzione per la moglie, di cui si nutre costantemente. Attraverso la figura del padre, Szabó sintetizza in maniera esemplare da una parte il principio maschile oppressore, dal momento che le vittime all’interno delle dinamiche familiari sono per lo più donne, dall’altra l’imperatore tiranno nella sua perenne operazione di annichilimento dell’animo umano. Tutti si muovono attorno a questa figura in una danza rigidamente ordinata, consci che il più piccolo slittamento di traiettoria li esporrà a una violenza inaudita.
Tuttavia, ciò non vale più per la protagonista Annuska, che tornata a casa dopo diversi anni, ritrova un relitto di altri tempi, un titano in catene. In questo tessuto irradiato di marciume, ad aver costituito un elemento di salvezza per Annuska è stato il vecchio Anzsu. L’uomo, artigiano e domestico della famiglia, è un briccone divino, il portatore di quella scintilla che sarà il motore dell’emancipazione della protagonista. Gode di una posizione sopraelevata, poiché è in grado di osservare gli eventi senza farsi risucchiare dalla meccanica dispotica del suo padrone. Interessante è osservare come Szabó abbia affidato questo ruolo quasi messianico a un artigiano, la cui figura richiama quella di un alchimista o, rifacendoci al folklore ugrofinnico, al fabbro divino, che forgia gli strumenti magici che permettono all’eroe di vincere il nemico. In questo caso, Anzsu trasmetterà ad Annuska le sue conoscenze, che le permetteranno di abbandonare l’ambiente malsano della famiglia ed emanciparsi dal ricatto psicologico.
Un altro elemento “magico” che troviamo all’interno della storia è la nascita miracolosa di Annuska. Le dinamiche della nascita sono piuttosto sinistre, dal momento che la madre, dopo averla partorita, perde la ragione e viene internata in manicomio. Quello che però in apparenza sembra un presagio di sventura è in realtà una rinascita, un semplice “passaggio da uno stato della materia a un altro”. La madre di Annuska vive una vera e propria scissione in cui da una parte la sua coscienza si rifugia in quell’unico spazio mentale in cui non puoi essere controllata – la pazzia – dall’altra rinnova la sua vita attraverso Annuska che, allo stesso modo di un viandante sacro, intraprende il suo viaggio di formazione. In Annuska risiede la stessa forza creatrice della madre, quella della strega al Sabba, che vince l’inquisizione e governa gli elementi della natura. Questa stessa forza costerà la sanità alla madre poiché, nel momento in cui non può essere espressa porta inesorabilmente alla follia. A sopprimere il potenziale divino della donna è, come già accennato in precedenza, lo stesso marito che, guarda caso, è un “uomo di Chiesa”, ma non in senso spirituale. La sua natura è esattamente quella dell’inquisitore diabolico, pronto a estirpare con ogni mezzo tutto ciò che differisce dalla sua ideologia. La sua componente saturnina non riesce a prevaricare quella panica che, nel suo continuo rinnovamento, sfugge alla comprensione materialistica del mondo secondo il tiranno. La vocazione artistica è di origine divina e si manifesta improvvisamente, ispirata dalla natura.
In questa opposizione tra i genitori di Annuska, vediamo il regime nel suo tentativo di distruggere la ricettività dell’uomo, impedendo al divino di farsi spazio nelle esistenze umane. Il padre di Annuska si è insinuato fino nelle profondità della psiche della moglie – in modo analogo a quello dei regimi totalitari che assumono il controllo dei pensieri delle persone, di cui Kadarè fornisce un esempio perfetto nella sua opera – ed è in quel preciso momento che il divino, in senso misterico, interviene, concedendo alla donna lo stato privilegiato della follia, condizione infinitamente più auspicabile a quella del burattino, poiché assicura la libertà, anche se solo mentale.
La libertà multiforme
Il ritorno di Annuska al paese natale funge da risveglio per la coscienza non tanto della protagonista, ma dello stesso lettore. Magda Szabó sembra interrogarci direttamente mentre scopre a poco a poco la vicenda di Annuska: quale è il senso della rinuncia all’Eden, se in ritorno siamo votati alla solitudine e all’esclusione dal consorzio umano? È come se un’eterna lotta tra il desiderio di farsi carne e sangue e il terrore del caos si consumasse sui paesaggi dell’animo umano. È una lotta in atto dalla nascita del mondo, è Crono che divora i figli per paura del cambiamento, è San Giorgio che infilza il drago che gli impedisce di raggiungere la fanciulla, il principio divino. La risposta di Szabó sembra essere chiara: la sicurezza dell’Eden non è vita, ma una messinscena che distoglie la nostra attenzione dal mondo fuori la grotta. Non esiste vita senza l’esperienza di se stessi, l’uomo è destinato a sperimentare una libertà multiforme, ogni qualvolta il nulla tenterà di richiamarlo a sé.