L’origine della diatriba sull’identità dei Balcani deve la sua nascita all’inizio del XIX secolo, quando studiosi e viaggiatori cominciarono a connotare politicamente la definizione della regione. I cinque lunghi secoli della dominazione ottomana segnarono un punto di non ritorno per i Balcani: da essere considerati parte dell’Europa, cominciarono a essere connotati come altro, come “Turchia in Europa”. Sebbene anche molte altre regioni europee abbiano subito dominazioni straniere nel corso dei secoli, sembra che per i Balcani la questione dovesse essere differente. Non si è mai considerata diversamente la Spagna per il dominio arabo: è sempre stata concepita come uno Stato marcatamente europeo e cattolico. Sembra quasi che, trovandosi alla periferia d’Europa, i Balcani dovessero meritare un trattamento diverso. Forse perché la dominazione ottomana perdurò di più rispetto a quella araba in Spagna? Forse perché la sua popolazione si è convertita all’Islam? In questo articolo si cercheranno di delimitare i punti focali dell’orientalismo nei Balcani, ovvero quell’atteggiamento occidentale che li ha sempre visti con occhi diversi, come una regione appartenente più all’Est che all’Ovest.
Decostruzione dei concetti di orientalismo e balcanismo
Il grande mistero dell’identità balcanica è certamente dovuto alla sua tortuosa storia e alle civilizzazioni che si incontrarono nella regione, nonché alle differenti etnie, o più correttamente nazionalità (dal serbo-croato nacionalnost) che si costituirono nella regione. La Bosnia e Erzegovina, in particolare, ha sempre rappresentato la quintessenza di questa pluralità che caratterizza i Balcani: ancora oggi a Sarajevo le campane delle chiese – ortodosse e cattoliche – suonano insieme all’adhan, il richiamo alla preghiera del muezzin. È inconcepibile, nel resto dell’Europa, veder svettare un minareto: anche se vi sono musulmani provenienti da Paesi extra-europei, non è permesso costruire i loro luoghi di culto. Tornando alla radice dell’identità balcanica, lo stesso termine “Balcani” è di origine turco-ottomana: significa catena montuosa. Inoltre, questa denominazione sta a ribadire l’eredità ottomana dei Balcani, legando la regione alla Sublime Porta in maniera assoluta ed eterna.
Tornando al concetto di Balcani quale “Turchia in Europa”, quest’etichetta veniva utilizzata anche ufficialmente, come durante il Congresso di Berlino nel 1878: ciò significa che gli stereotipi legati ai Balcani non erano mere chiacchiere di viaggiatori al rientro dalla parte più remota d’Europa, ma erano una salda convinzione dei regnanti di tutto il Vecchio continente. I lunghi secoli di dominazione ottomana hanno sicuramente indotto ad un isolamento dei Balcani; di conseguenza, gli altri Paesi europei non conoscevano in maniera approfondita la regione, cosa che li portò ad instaurare stereotipi e schemi prefissati riguardo a popoli e alle loro nazioni. Un altro fattore contribuiva alla percezione dei Balcani come Oriente: la loro storia cruenta, dovuta a guerre e insurrezioni dei locali contro i dominatori, che ha rafforzato l’idea dell’alterità di questa regione. Basti pensare che lo stereotipo del balcanico guerriero spietato si è protratto fino ai nostri giorni ed è ancora molto radicato. Ci si chiede, dunque, cosa avrebbero fatto gli altri europei al loro posto. Non avrebbero ceduto, combattuto, cercato di cacciare lo straniero? Non era la stessa Lega Santa che nel 1571 sconfisse la flotta ottomana in maniera schiacciante, la Cristianità che trionfava sull’Islam? Forse un’esercizio di comprensione ed empatia avrebbe permesso agli europei occidentali di comprendere perché i loro vicini balcanici hanno dovuto difendere la loro patria per secoli. Forse che i balcanici non abbiano fatto un favore al resto dell’Europa contenendo nei loro confini la minaccia turca, e dunque, musulmana? Perché era proprio quest’ultima identità a spaventare particolarmente la cristiana Europa: tenere il più lontano possibile il nemico, per non contaminare il continente. Sembra quasi che la minaccia musulmana sia stata vista come qualcosa che ha infettato per sempre i Balcani, anche coloro che rimasero cristiani, come se questi ultimi fossero comunque colpevoli di vivere gomito a gomito con dei musulmani. L’islamofobia ha, quindi, origini molto più antiche di come si pensa e, sicuramente, componeva uno dei tanti tasselli del grande mosaico chiamato orientalismo.
L’identità altra dei Balcani deve le sue origini a diversi fattori: in primis, com’è già stato analizzato, l’islamizazzione di parte della popolazione balcanica che cambiò la struttura della società stessa e che diede il via alla “questione orientale”, legata sempre all’avvento dell’Islam in Europa. In un’inchiesta presentata nel 1913 dallo storico e diplomatico americano George F. Kennan è possibile notare questa descrizione dei Balcani quale regione aggressiva e nazionalistica. Questa connotazione, secondo Kennan, era dovuta sia al passato ottomano che ad antiche radici tribali: un continuum che sarebbe perdurato fino a quel momento. Kennan porta avanti questa convinzione arrivando ad affermare che la civilizzazione balcanica non fosse europea. Si evince, dunque, un giudizio fortemente pregiudizievole: non solo la civilizzazione balcanica è considerata diversa, ma addirittura non europea – quasi a sostenere che la regione non faccia parte del continente, e che avesse un carattere brutale, quasi primitivo. A dispetto di queste visioni distorte portate avanti dagli occidentali, il volume Orientalismo di Edward Said si pone come il primo studio atto a delineare la visione occidentale dell’Oriente. Orientalismo, pubblicato nel 1978, delinea i concetti basilari dell’orientalismo, che si configura essenzialmente come la rappresentazione mistificata paternalistica dell’Oriente da parte dell’Occidente. Lo studio di Said è stato fondamentale per gli studiosi balcanici, che poterono così avviare un’analisi parallela che tenesse conto delle caratteristiche peculiari della loro regione.
Secondo Said, l’orientalismo è fondamentalmente “un modello occidentale atto a dominare, ricostruire ed avere un’autorità sull’Oriente”. La dinamica non è dissimile rispetto alla costruzione di un modello imperialista: gli occidentali ne costruivano uno pressoché simile anche quando invadevano un Paese per renderlo loro colonia. Lo stigma che si venne a creare nei Paesi colonizzati era marcato da un senso di inferiorità e un tentativo di emulazione degli occidentali: basti pensare alle conseguenze che si vennero a creare in Africa ed in Asia in seguito al colonialismo, raccontate nelle opere di intellettuali come Fanon o Spivak. Il punto di partenza era sempre lo stesso: si considerava una civiltà non solo altra, ma anche inferiore e da dover civilizzare, ossia adattare ai canoni occidentali. Nel caso dei Balcani, essi non furono oggetto di colonizzazione, ma ricoprirono comunque uno status di alterità rispetto all’Europa. Inoltre, secondo Maria Todorova, costituirono una zona dove relegare delle caratteristiche negative, contrapposte a un’immagine positiva e autocelebrativa dell’Occidente. I Balcani diventarono, quindi, una sorta di discarica ideologica dove riporre tutte le influenze negative che l’Europa aveva subito, una landa desolata popolata da tribù barbariche che simboleggiavano la feccia del continente. Secondo Todorova, lo stesso concetto di balcanismo era sì legato all’orientalismo, ma anche contrario ad esso. Inoltre, sempre riportando la tesi di Todorova, l’Oriente si configura come un “opposizione figurata”, mentre i Balcani sono “un’ambiguità figurata”, una differenza dovuta alla storia dell’area, influenzata e poi adattatasi a diverse culture ed ideologie. L’identità balcanica si prefigura quindi come incompleta: non viene accentuato solo il suo carattere ambiguo, ma si cerca di spostare l’attenzione da una visione astratta ad una reale e concreta dell’identità stessa. L’esempio di una violenta repressione del popolo macedone agli inizi del Novecento è da considerarsi come emblema della considerazione occidentalistica dei Balcani: patria di Alessandro Magno, essa nell’antichità era una regione centrale per la cultura occidentale, finché non cadde nell’oscurità con l’avvento della dominazione ottomana. Rimasta per secoli all’ombra dell’Europa, nel 1903 i macedoni cristiani insorsero contro gli ottomani: com’era prevedibile, l’Europa non tardò a rafforzare il suo concetto di violenza e tribalità balcanica. E, quando alcuni Paesi balcanici tentarono di riconquistare una posizione di visibilità nell’assetto europeo, anziché essere aiutati e incoraggiati a fare parte dello scacchiere occidentale, vennero prontamente giudicati come retrogradi e violenti.
Riprendendo l’esempio sulla Macedonia, il conflitto del 2001 tra l’armata albanese e quella macedone portò un locale ad una riflessione: secondo lui, il continuo susseguirsi di guerre – il conflitto che portò alla dissoluzione della Jugoslavia si concluse solo pochi anni prima- non permetteva alcun tipo di stabilità alla popolazione civile. In Occidente vi era la pace, le persone svolgevano una normale vita quotidiana tra lavoro, possibilità di viaggiare e benessere economico, mentre la situazione instabile nei Balcani causava una perenne precarietà che aveva ripercussioni su società e individuo. Inoltre, questo testimone macedone vedeva nell’innescarsi del conflitto la colpevolezza dei soli albanesi, affermando che una simile situazione non si sarebbe mai potuta verificare in Europa, arrivando a costruire quasi una visione orientalista per gli stessi Balcani ed, in particolare, per il suo Paese, la Macedonia. Questa stereotipia interna non è infrequente, ma è stata esacerbata da un contatto più vicino con l’Occidente nel corso degli ultimi decenni e con le esperienze dell’emigrazione in Paesi occidentali, che hanno portato gli stessi balcanici ad avere uno sguardo orientalista nei confronti della propria regione. Specialmente in seguito ai conflitti più recenti, in cui le differenze tra etnie – o nazionalità – si sono rafforzate tanto da vedere come nemico soprattutto la comunità musulmana, come si percepisce nella testimonianza presa in esame.
Riprendendo, invece, gli albori dell’orientalismo, altri viaggiatori riportarono resoconti negativi di ritorno dai Balcani: lo scrittore e viaggiatore James Creagh nel 1875 scrisse che, pur trovandosi in Europa, non vi era “nulla di europeo” nella cultura balcanica. Descrivendo un incontro con un suo connazionale ed un gruppo di indigeni, Creagh si rivolse al primo chiamandolo per nome, “Mr Steele”, mentre liquidò gli altri presenti con un generico “ebrei, greci e russi”. Una vera e propria deumanizzazione: non solo gli appellativi sono approssimativi e spersonalizzanti (nessuno degli individui viene menzionato per nome), ma Creagh ci tenne a sottolineare con una certa sorpresa che nel giro di tre giorni nessuno fu ucciso. Poco differente è il resoconto di Rebecca West, che viaggiò con suo marito dall’Inghilterra ai Balcani nel 1937 e come sola impressione affermò che la “violenza fu tutto ciò che conobbi dei Balcani”. Ci si chiede a quali episodi di violenza abbiano assistito questi colti viaggiatori e, soprattutto, perché non abbiano notato alcunché di positivo durante i loro soggiorni. Eppure vi sono numerosi filmati d’epoca che ritraggono le vie di Belgrado, Zagabria, Sarajevo popolate da gente qualunque che attraversa la città svolgendo le loro attività quotidiane. Pensare che si notano persino soggetti che vestono abiti occidentali!
Riguardo all’idea che gli occidentali costruirono, Said la definì come una “realtà immaginaria”, ovvero una rappresentazione di fantasia che non aveva alcun fondamento reale. Il concetto di balcanismo di Todorova, invece, riguarda “un posto con un storia, mentre l’Oriente di Said non è né uno né l’altro”. I Balcani, quindi, non sono solo “una variazione orientalista su di un tema balcanico”. Altri storici avallarono la tesi di Todorova: un’identità poco chiara, “un oscuro confine attraverso le periferie d’Europa dove le categorie, gli antagonismi ed i raggruppamenti essenziali vengono confusi”, afferma Andrew Hammond. Non appartengono né all’Oriente né all’Occidente per David Norris, diventando così un mistero specialmente per l’Europa occidentale. In ogni caso, i diversi punti di vista convergono in un’alterità duplice: la prima di carattere intellettuale, basata sulle modalità di rappresentazione dell’Altro da parte di studiosi, scrittori e giornalisti; la seconda di carattere strumentale, basata sulle modalità con cui “l’istruzione rappresenta la diversità per ottenere una determinata socializzazione della popolazione”. L’analisi di Bakić-Hayden, che verrà presentata in seguito, dimostrerà con il concetto di “annidamento di orientalismi” come i Balcani abbiano orientalizzato se stessi, in risposta al discorso binario dominante dell’Oriente contro l’Occidente rappresentato da Said.
Questo “annidamento di orientalismi” si riferisce a una visione interna: Orientalismo di Said presentava una dicotomia che permetteva di confutare non solo l’idea occidentale sull’Oriente, e quindi sui Balcani, ma anche come i Balcani vedevano loro stessi. Il discorso orientalista sui Balcani deve il suo perché alla tendenza a stabilire conflitti e confini etnici; vi è quindi l’opposizione noi contro loro, razionalità contro irrazionalità: non solo dicotomie, ma giustapposizioni di una civilizzazione (coloro che si considerano europei) con un’altra (coloro che non sono considerati europei dagli altri). Il termine “annidamento di Orientalismi” viene impiegato proprio per spiegare questo discorso, ma Bakić-Hayden vi aggiunge un ulteriore collegamento: la pratica di soggettivizzazione attraverso la quale tutti i gruppi etnici balcanici definiscono “l’Altro” come “l’Est” rispetto a loro. Attraverso questo processo, essi non solo orientalizzano l’Altro, ma occidentalizzano loro stessi considerandosi come “Ovest” di quell’“Altro”, determinando così una gerarchia interna nei Balcani.
In ex-Jugoslavia i Croati orientalizzavano i Serbi per il fatto di essere stati sudditi degli ottomani e per essere ortodossi, mentre i Serbi, a loro volta, orientalizzavano i Bosgnacchi per essere musulmani. Questi ultimi si differenziavano da chi era “più orientale di loro”, e a farne le spese furono soprattutto i medio-orientali. La gerarchia di orientalizzazione è indubbiamente legata al discorso di nazionalità, basti pensare che la propaganda politica del conflitto degli anni Novanta dipingeva i musulmani come turchi da eliminare per tornare alle origini cristiane e, secondo i croati, i serbi erano i bruti per eccezione. La questione della gerarchia ebbe origine già dagli albori della dominazione ottomana e si protrasse nel corso dei secoli: in particolare, negli ultimi due decenni, vi sono alcune riflessioni rispetto all’intero retaggio ottomano, che spazia dalla lingua all’ambito culturale e persino culinario. Con la lingua, in maniera diversa per ogni nazionalità, alcuni termini sono stati “ripuliti” dalla loro origine turca, riesumando termini desueti. Contraria è l’attitudine soprattutto bosniaca: enfatizzare i termini di origine turca, scelta che si estende ad ogni aspetto della cultura, così da enfatizzare l’aspetto orientale. Come si è detto, si contesta persino la cucina: si definiscono turchi piatti come il burek e dolci come il baklava, giusto per nominarne alcuni, con persino il rifiuto di consumarli. La questione orientale è stata portata all’esasperazione, rappresentando l’Islam come la più inferiore delle religioni sul suolo europeo, e di conseguenza i musulmani europei come cittadini inferiori da “ripulire” dal territorio.
La collocazione geografica dei Balcani può sovvertire l’immagine dell’Europa. La stessa identità europea di un individuo può divenire sfocata: lo scrittore serbo Milorad Pavić ricorda che Constantinopoli, prima della conquista turca, era una bellissima città europea, ricca di affreschi e icone, pervasa da un’intensa spiritualità. Si contrappone ancora una volta, quindi, l’essere europei e quindi civilizzati, all’essere ottomani, dunque non civilizzati, ma attraverso questa dicotomia la stessa identità europea è sfumata, imprecisa. Nel caso della Slovenia, invece, l’identità europea è sempre stata chiara, tant’è che il piccolo Stato si è dissociato pacificamente dalla Jugoslavia, non sentendosi parte dell’identità nazionale. La Slovenia si identifica infatti come un Paese mitteleuropeo, lontano dai retaggi ottomani della restante penisola balcanica e, quindi, non incluso nel discorso sull’orientalismo. Diverso è il discorso per la Croazia, che ha cercato comunque di togliersi di dosso l’etichetta orientalista affermando di essere un Paese più democratico e avanzato, ancor più dopo l’ingresso nell’Unione europea nel 2013. Un traguardo al quale aspirano altri Paesi vicini per assurgere anche ad un’identificazione europea, ripulita di quell’orientalismo scomodo. Il presidente Franjo Tuđman affermò, ben prima dell’entrata della Croazia in Unione Europea, che il Paese è ed è sempre stato parte dell’Europa centrale e del Mediterraneo e la convivenza con i Paesi ex-jugoslavi fu una breve parentesi che non si sarebbe più ripetuta nella storia croata. La mediterraneità (in particolare quella della Dalmazia) non è da mettere in dubbio, semmai difficile è la collocazione della Croazia nell’assetto mitteleuropeo, nonostante il passato austro-ungarico.
Com’è stato già dimostrato, ogni possibile indizio può essere preso in causa come pura verità per affermare l’identità europea dei Balcani. È più che chiaro, a questo punto, che i Balcani e il balcanismo hanno entrambi un’accezione negativa: visti come periferia d’Europa dal continente stesso e considerati spesso una vergogna dai suoi abitanti. Tra questi, i kosovari stanno cercando di avvicinarsi sempre di più all’Europa: la bandiera con sette stelle gialle ricorda quella europea. Non solo: il Kosovo cerca di mettere in ombra i retaggi serbi ed albanesi per prefiggersi come Paese che ambisce all’Unione europea e cerca di rafforzare la sua occidentalizzazione. L’esempio del Kosovo evidenzia, di nuovo, la spinta dei Balcani verso la ridefinizione dell’identità, causata dai cambi di rotta e dai fondamenti occidentali. La Turchia chiese l’ammissione all’Unione europea nel 1998 e quest’ultima mette ancora in dubbio la sua identità europea, per non parlare delle problematiche politiche che riguardano il Paese: leggi, democrazia e mancanza di diritti umani che collidono con i principi fondanti dell’Unione Europea. La Turchia, divisa tra occidentalizzazione e islamismo, vide un grande processo di ammodernamento – e quindi occidentalizzazione – sotto Mustafa Kemal (Atatürk). Egli stesso affermò che i turchi sono sempre stati oggetto di pregiudizi da parte dell’Occidente, sebbene essi abbiamo sempre teso verso la sua direzione, quest’ultima considerata l’unica possibile per costruire una nazione civilizzata. Di nuovo nel 2006 emerse la questione dell’ammissione all’Unione Europea, ma fino ad ora non vi sono stati passi avanti. Riavvolgendo il discorso sui Balcani, la loro posizione riguardo all’Occidente sembra rimanere nella linea di Orientalismo di Said, aspettando una frattura. Nonostante quest’eterna diatriba e, forse, il perdurante orientalismo nei confronti dei Balcani, è bene ricordare questa regione attraverso uno dei suoi più sublimi simboli: il ponte di Mostar, che collegava una città con identità plurima, ma che con la sua distruzione -avvenuta il 9 novembre 1993- ruppe quel concetto di convivenza, di coesistenza tra Oriente ed Occidente su di uno stesso suolo e sotto lo stesso cielo. Bisogna ricordare anche l’incendio della Vijećnica – la notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 – quando bruciarono numerosi manoscritti, testimoni di un’epoca feconda, di una civiltà che non portò solamente caos e distruzione, ma anche cultura.
Ivo Andrić: la narrazione dei Balcani oltre l’Orientalismo
« Né Roma né Bisanzio» era la formula scismatica del suo rivale croato Miroslav Krleža, nel momento in cui il nostro paese, in quanto «terza componente», si staccava dal blocco dell’Est. Ivo Andrić, invece, guardava a Roma e a Bisanzio insieme, senza perdere di vista neppure l’islam – Oriente e Occidente, Europa e «altra Europa», Balcani e Dio sa che altro.
L’autore della citazione, il fu scrittore e professore Predrag Matvejević, condensò in queste poche righe l’orientamento di Ivo Andrić, quel suo sguardo sia ad Ovest che ad Est che tanto influì sulla sua opera. Lo scrittore bosniaco, pur appartenendo alla nazionalità croata di Bosnia, non escludeva le influenze orientali che erano fondamentali soprattutto nel suo Paese. Ne conosceva a fondo le caratteristiche, la storia, gli elementi culturali: altrimenti non avrebbe potuto inserirli in maniera magistrale nei suoi romanzi e racconti. Con Andrić sembra di essere catapultati nella Bosnia ottomana: si percepiscono il fruscio del niqab delle donne musulmane, le urla disumane dei cristiani impalati e gli zoccoli dei dignitari ottomani che entrano in città. La minuta ricchezza dei dettagli, la precisione infallibile e la sapiente narrazione sono alcuni degli ingredienti della monumentale opera dell’autore, costantemente immersa in un universo che è Est, ma è anche Ovest. In questa diversità bipartita e pluripartita lo stesso Andrić era strumentalizzato dalle varie nazionalità: traditore per i croati, serbo per i serbi data la sua lunga permanenza a Belgrado, oggetto di offesa per i musulmani bosniaci che gli rimproveravano i continui rimandi alle sofferenze dei cristiani sotto il giogo ottomano, dimenticando che loro erano musulmani, ma anche slavi. Di nuovo Predrag Matvejević si chiese cosa avrebbe pensato Andrić della guerra che chiuse in maniera spietata il XX secolo, l‘uomo che aveva «costruito ponti» e lo scrittore che li aveva descritti con passione straordinaria è morto in tempo. La sorte ha voluto che non vedesse ciò che non si doveva vedere. Che non sarebbe mai dovuto accadere.
L’uomo Andrić, politicamente, era un convinto jugoslavo, da giovane militò per la Giovane Bosnia contro gli occupanti austriaci. Egli si sentiva a proprio agio essendo jugoslavo, bosniaco, croato, occidentale ed orientale: un mosaico di identità in una sola persona. Non era il primo e non era l’ultimo a dispetto di chi nazionalizzava e, spesso, orientalizzava la propria nazionalità, in una battaglia senza fine. La grandezza di Andrić sta proprio in questa sua pluralità, nel sentirsi ciò che è, nell’immergersi a proprio agio, corpo ed anima, nella faccia della medaglia orientale della sua amata Bosnia. Un’immagine di rara bellezza rievoca un gesto tipicamente musulmano, e quindi orientale, descritto dallo stesso Andrić in uno dei pochi scritti che illustravano l’anima dello scrittore e dell’uomo:
[…] io allora stendevo religiosamente davanti a me, come un fedele il suo tappeto di preghiera, l’impervio, umile, sublime sentiero di Višegrad, che lenisce ogni dolore e cura tutti i mali, perché tutti li contiene e tutti li sovrasta.
Chi vive a stretto contatto con l’Altro, con l’Oriente, ne rispecchia i gesti, le abitudini, in una simbiosi culturale e di costumi che non conosce discriminazione: come non ricordare un frammento de I fiumi di Ungaretti: […] E come un beduino/Mi sono chinato a ricevere/Il sole. In terra balcanica, l’identità plurale ne Il padre di Miljenko Jergović:
Una volta, tanto tempo fa, il cattolicesimo era diventato parte dell’identità culturale croata e di quelle persone e popoli che tra i croati vivono senza essere croati. Quasi quanto l’islam e l’ortodossia sono parte della mia identità.
È, dunque, un peccato orientalizzare se stessi invece che accogliere quest’influenza come un dono prezioso: sicuramente, se se ne fosse distaccato, la grandezza di Andrić non sarebbe stata tale. Non avrebbe potuto costruire lui stesso ponti ed inserire quest’immagine nelle sue opere, al di là di considerazioni banali, ma con un significato ben preciso:
Lo scrittore si guarda bene dal fare dei suoi ponti (nei racconti altri ne appaiono, molti dei quali oggi distrutti!) un’ingenua allegoria, non si lascia tentare da un repertorio di immagini banali. «Quando evoco i ponti, non mi vengono in mente quelli che ho attraversato più spesso, ma quelli che più hanno impegnato il mio spirito» o ancora: i ponti sono «tutti degni della nostra attenzione, perché indicano il luogo in cui l’uomo ha incontrato un ostacolo e non si è fermato»; i ponti non sono «mai asserviti a trame oscure o a poteri malvagi»; «I grandi ponti di pietra grigia, […] testimoni di epoche passate, in cui si viveva, si pensava e sì costruiva diversamente».
Se il genio di Andrić gli permise di mettere nero su bianco un’eredità storica nazionale con tutto l’immenso bagaglio che si portava alle spalle, di certo una delle immagini-simbolo dell’opera omnia del Nobel bosniaco non poteva costituire qualcosa di meramente estetico. Il ponte costituisce l’avamposto di una società, l’avanzamento di essa all’interno di un’altra società, trovando con essa compromessi ed equilibri. Questi ultimi inizialmente, ed anche successivamente, possono essere precari, ma nel solco della storia costituiranno un elemento di vitale importanza. Ed il romanzo con al centro e come protagonista un ponte è per eccellenza Il ponte sulla Drina, epopea di una cittadina, Višegrad che sul suo ponte ha visto passare diversi dominatori, epoche diverse e generazioni diverse. Tuttavia il ponte, non si lascia scalfire dalle debolezze umane e dalle intemperie e sta fermo, saldo ed immobile, ignaro di tutto ciò che scorre su di esso. Costruito da Mehmed Pascià Sokoloviči, colui che tanto fu ammirato dal sultano, ma che non dimenticò il suo Paese d’origine: chi meglio di lui avrebbe potuto rappresentare la fusione tra Oriente ed Occidente e costruire un monumento ad essa.
Il ponte sulla Drina costituisce l’asse intorno al quale si concentrano le vite discordanti degli uomini e che dà forma al destino delle comunità: « si scrollava di dosso, come fossero polvere, le tracce lasciate dai capricci e dagli effimeri bisogni umani rimanendo, a dispetto di tutto, immutato e immutabile». Nel modo in cui è sorta e sì forma la cittadina di Višegrad, negli stili di vita e nei modelli di comunicazione che si «strutturano» intorno al punto cardinale costituito dal ponte è presente, o presentita, un’antropologia, che fa curiosamente pensare, anticipandolo, a certo Lévi-Strauss.
Sopra questi ponti e prima delle costruzioni di essi avvenne lo scontro tra civiltà, il punto di non ritorno per i Balcani: non solo lo scontro tra fedi, nazioni, razze, ma anche tra due elementi, l’Oriente e l’Occidente; il destino ha voluto che quella lotta si svolgesse soprattutto nei nostri territori, e che tagliasse a metà e separasse la nostra unità nazionale con il suo muro insanguinato…
Ecco che l’equilibrio che si era stabilito tra gli slavi del Sud venne interrotto bruscamente dall’arrivo impetuoso di uno straniero, per giunta orientale. Sarà stata la posizione geografica, sarà stato il destino, in un modo o nell’altro i Balcani si trovarono al centro del punto di collisione tra Oriente ed Occidente. Un evento di tale portata da segnare non solo una determinata epoca, ma i secoli successivi, creando a sua volta la serie di pregiudizi e preconcetti analizzati in questo articolo. La maledizione ottomana riecheggiò e ricadde a più riprese sugli abitanti della penisola:
A scuola ci hanno insegnato che Vienna non è mai stata conquistata dalle «orde asiatiche» grazie ai supplizi subiti dai nostri avi, così come neppure Venezia o Trieste; che senza questi sacrifici non ci sarebbero stati se il Rinascimento in Italia e nemmeno la prosperità della Mitteleuropa. «L’abbiamo pagata con il nostro sangue». Abbiamo contribuito così a «salvare l’Europa e creare la sua civiltà».
Nonostante il caro prezzo pagato dalle popolazioni balcaniche, che hanno permesso all’Europa di vivere in pace senza la minaccia ottomana, esse non hanno avuto gratitudine né rispetto da parte dei loro vicini occidentali. Anzi, al contrario: considerati peccatori, quasi fosse stata una loro scelta e quindi una colpa, hanno cominciato ad essere visti come la feccia d’Europa, una massa di popoli relegata ai confini del continente che non ha voluto abbracciare la civiltà occidentale. In realtà, nei secoli in cui l’Europa era impegnata nello sviluppo della sua civiltà, i Balcani non costruivano assolutamente oggetto di interesse; lo sarebbero divenuti più avanti, nel corso del XIX secolo. Andrić andò oltre e presentò l’epos della storia del suo Paese unendo il particolare all’universale, ed è in questo che è insito il segreto del successo letterario dello scrittore jugoslavo. Per primo conquistò un pubblico occidentale che poco sapeva sui Balcani e, in occasione della cerimonia del premio Nobel a lui conferito, Andrić:
Indicò come modello narrativo supremo chi «alla maniera della leggendaria Shéhérazade s’impegna per far pazientare il carnefice, per cercare di sospendere l’inevitabile condanna a morte e di prolungare l’illusione della vita e della sua durata». […] Andrić è uno dei rarissimi narratori europei che abbia saputo assimilare a tal punto la scrittura d’Oriente, là dove la massima complessità tende a esprimersi con estrema semplicità. Il sogno del «divano occidentale-orientale» (west-östlich) di goethiana memoria ha trovato nel sogno dei sentieri di Višegrad una sua realizzazione.
Non è un mistero che Andrić non solo conoscesse profondamente le caratteristiche orientali che il suo Paese aveva assorbito nel corso dei secoli, ma attingesse allo stesso Oriente come fonte di ispirazione storica, culturale e anche letteraria. Quale scrittore occidentale conosceva così a fondo quel diverso mondo a Est? Nella narrazione occidentale sull’Oriente si leggevano solo vaghe atmosfere da Mille e una notte, ma non sofisticate e profonde come quelle di Andrić, descrizioni banali ed asciutte di bazaar e di caravanserragli, di popolazioni stravaganti. Una costruzione banale ed esemplificatoria che nulla aveva a che vedere con lo studio attento e meticoloso di Andrić, che per indicare l’orario dell’alba lo riconduce al primo richiamo alla preghiera musulmana. Un mondo del quale egli già si sentiva parte e che rendeva dignitoso, fiero ed estremamente interessante, come mai nessun occidentale avrebbe potuto fare. Dall’inizio della sua carriera letteraria, Andrić seppe apprezzare il carattere orientale con profondo rispetto e deferenza:
Sin dai primi racconti Andrić ha cercato una scrittura in grado di raccontare a suo modo le «mille e una notte» della sua Bosnia. La cultura del Levante gli giungeva attraverso l’intermediazione dell’impero turco e dell’islam, offrendosi alla sua osservazione. «Guardate, prestate ascolto per un istante al silenzio che s’incontra nelle moschee, nelle tekije, nelle medrese e più in generale in tutti i luoghi che appartengono al mondo islamico. Questo silenzio gelido ha una sua bellezza, che sorge all’improvviso come un muro invisibile. Il mondo musulmano mi ha insegnato ad adottare questo silenzio e a farne un consigliere molto utile per la mia vita».
Andrić ha molto da insegnare sia agli scrittori occidentali e non, sia a chi pensa che l’orientalismo sia ancora l’unica lente possibile per guardare a Est. Che essa possa essere distrutta, frantumata e mai più ricomposta. Che lo sguardo diventi nitido, puro e curioso nei confronti di una realtà che così lontana non è e che chiede di essere accolta come se fosse un primo incontro, privo, però, di pregiudizi e preconcetti. I Balcani, in particolare, né completamente Occidente e né completamente Oriente, debbono mantenere la loro identità unica ed essere considerati nella loro peculiarità di ricchissima terra di mezzo, dove nacque uno scrittore che secoli dopo Shéhérazade riuscì ad ammaliare il suo carnefice, raccontandogli la storia di terre profumate di libertà, orgoglio e lealtà, dove il sole nasce sempre e non tramonta mai.
Bibliografia:
Mirela Cufurović, Fully known yet wholly unknowable: Orientalising the Balkans, Centre for Islamic Studies and Civilisation, Australian Journal of Islamic Studies, 2017, p.39.
Ivo Andrić, a cura di Predrag Matvejević, Segni, sentieri, solitudini – Ivo Andrić tra Oriente e Occidente, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano, 2001, p. XIV.
Miljenko Jergović, Il padre, Bottega Errante Edizioni, Udine 2020, p.121.