Un fragile nido di pietra arrancato su una voragine, un muro giallo (perché questo colore?) ne delimita il diametro. Dentro questo stomaco di roccia vengono digerite le esistenze dei personaggi, che si trascinano fatalmente come ingranaggi di un antico marchingegno di cui non si ricorda più il funzionamento. Così si apre la visione intrisa di misticismo – uno dei primi titoli doveva essere Nuova apocalisse – dei fratelli Boris e Arkadij Strugackij, intitolata La città condannata, tradotta in italiano da Daniela Liberti per Carbonio Editore. In un non luogo fuori dal tempo, persone provenienti da epoche e luoghi diversi si incontrano in questa città per partecipare a un esperimento di cui non verrà mai rivelato lo scopo. I suoi abitanti assumeranno di volta in volta mestieri diversi, sperimentando una sorta di straniante scala sociale che li obbligherà a rivalutare il desiderio di potere e controllo.
Noi lettori veniamo fatti accomodare su di un palco da cui si gode di una vista privilegiata, salvo accorgersi molto presto che questa condizione di privilegio è tutt’altro che fortunata, e costituisce in realtà uno degli elementi più orrorifici del romanzo. Nella costruzione di questo teatro d’ombre gli Strugackij insinuano un elemento perturbante, quasi hoffmaniano, che mette in discussione l’affidabilità dei sensi. In una sorta di continuum temporale, che parte dallo scrittore tedesco, passa per Lovecraft e arriva fino a Kadaré, gli Strugackij anticipano un elemento fantastico e fantascientifico che verrà colto maggiormente dalla cultura cinematografica e pop piuttosto che dalla letteratura. Sebbene Boris e Arkadij Strugackij vissero un iniziale momento di accoglienza positiva delle loro opere, con l’inasprirsi della censura si resero presto conto che La città condannata non avrebbe mai visto le stampe. Proporre il manoscritto alle case editrici avrebbe voluto dire rischiare la propria vita.
La sempre più pesante morsa del potere sovietico non impoverì l’opera dei due fratelli, tutt’altro. La struttura si fece più intricata, l’allegoria diventò la chiave di lettura. Numerosi sono gli esempi che si possono fare in merito alla sottile critica al regime nelle opere degli Strugackij: nel loro romanzo pubblicato nel 1967, La seconda invasione dei marziani (Второе нашествие марсиан) gli invasori alieni chiudono una rivista, colpevole di aver pubblicato un poema amoroso. Il problema, quindi, non è semplicemente di carattere stilistico, ma contenutistico. In uno dei passi del poema, l’autore usa l’espressione “gli occhi rossi e furiosi di Marte”, dirigendo così un sottile attacco agli invasori marziani. Curioso vedere come Boris Strugackij usi un’espressione simile, quando nella postfazione al libro parla dello “sguardo predatore degli organi”, un neanche troppo velato riferimento alla censura.
La questione della critica al regime non si risolve però in modo analogo a quella proposta da altri romanzi. Il problema della censura è sì legato al controllo della popolazione, ma nell’opera degli Strugackij raggiunge un livello più profondo, in cui il controllo e l’oppressione sono disperati tentativi di controllare il caos dell’esistenza. Paradossalmente, la scintilla del caos alberga in ogni singola cellula dell’uomo, rendendolo target primario di un violento processo di deumanizzazione e traumatica scissione dal principio caotico e misterico dell’uomo. Ne il palazzo dei sogni di Kadaré, massimo scrittore albanese contemporaneo, uno degli organi politici del sultano si occupa di scandagliare la parte più intima e caotica della mente umana, quella dei sogni. Ogni sogno viene controllato al fine di scoprire per tempo ogni traccia di discontento e ribellione verso il sistema. Controllare i sogni significa avere un controllo totale sull’uomo e, di conseguenza, sul caos.
Alla stessa maniera il mondo dell’Esperimento raccontato dai due fratelli si rivela essere ben presto un modo come un altro di sottrarsi al caos e controllarlo. Un tentativo che, però, vedremo vacillare sempre più col proseguire della narrazione.
Atemporalità
La lettura de La città condannata si dischiude in un cammino tra le rovine del tempo, in cui le epoche passate e future approdano su una riva come relitti trascinati dalle correnti marine. In modo analogo viaggia la nostra esistenza e quella dei personaggi che, approdati nella Città da epoche e luoghi diversi nei modi più disparati – per volontà propria, per caso o catturati – si sottopongono a un esperimento il cui fine è sconosciuto. Esattamente come nel dipinto di Rerich, che dà anche il titolo al romanzo, la Città e l’ambiente circostante sono pervasi di un silenzio oscuro, oracolare. Il sole è una luce pallida, singhiozzante, la notte è buia a tal punto da portare gli abitanti a sospettare di trovarsi su un altro pianeta.
Il mondo della Città si trova in uno spazio assoluto, altro, in cui ere e sogni confluiscono in un unico luogo. Viene quasi il sospetto che persino i suoi abitanti siano il semplice rimasuglio di vite già vissute o persino in produzione, pronte a manifestarsi su un altro piano d’esistenza. Sono gli abitanti della Città anime di morti o semplici riflessi di qualcosa che esiste altrove? Se sì, cosa succede a un riflesso a cui per un’istante viene concessa la comprensione di sé? Proverebbe orrore nello scoprire che i suoi movimenti non sono dettati dal suo volere, ma da un doppio che vive in un altro mondo (il protagonista Voronin spara a un suo doppio nel deserto)? Rinuncerebbe alla sua coscienza per ricadere in un più rassicurante oblio o accetterebbe la sua condizione e si spingerebbe oltre il muro dell’apparenza?
Elemento fantastico/fantascientifico
Come menzionato all’inizio dell’articolo, gli Strugackij hanno saputo anticipare una tipologia di narrazione che avrebbe trovato la sua massima espressione attraverso la cinematografia. L’elemento angoscioso, sinistro e orrorifico di essere vittima del caos – e gli esempi a cui si potrebbe fare riferimento sono innumerevoli (basti pensare a Matrix, Blade Runner, Ghost in the Shell e a tutto il filone cyberpunk).
Ad aver esplorato brillantemente questa tematica però è il film Cube del regista nostrano Vincenzo Natali. Similmente agli abitanti della città, un gruppo di persone si ritrova in una stanza, chi per propria volontà, chi invece contro il proprio volere. Stanno partecipando a un esperimento il cui scopo è (apparentemente) ignoto. L’unico modo di lasciare la strana struttura è avanzare attraverso altre stanze, che dovrebbero portare infine all’uscita. Ormai allo stremo delle forze e ancora intrappolati nella struttura, uno dei membri del gruppo rivela infine di essere uno degli ingegneri che ha lavorato alla costruzione del cubo e, preso dal senso di colpa, decide di entrare nella struttura. L’uomo sa che l’esperimento non ha in realtà scopo alcuno. Nonostante ciò, il gruppo tenta di trovare una logica dietro il sistema delle stanze e, appena sembrano aver trovato la giusta combinazione che li porterà all’uscita, la combinazione si rivela errata, gettando nuovamente il gruppo nella disperazione. Molti di loro periranno lungo il percorso e, anche chi ce la farà, non troverà mai una risposta dietro l’esistenza della struttura denominata cubo.
Proprio come i soggetti all’interno del Cubo, i personaggi degli Strugackij tentano di domare il caos e dargli un significato, più il caos si fortifica e li spezza. Lo stesso accade ne La città condannata, dove se all’inizio il protagonista Voronin interpreta l’ordine imposto dagli organi come realizzazione perfetta dell’utopia comunista, finisce per rendersi conto ben presto della brutalità dell’ideologia totalitarista. Per questo motivo decide di proseguire il suo cammino insieme al compago Izja e non tornare alla Città, ponendosi un nuovo scopo, quello di arrivare al punto zero.
La città si affaccia sul vuoto, quasi a ricordarci la perenne presenza del caos, e il muro che impedisce la fuga via terra sembra davvero condannare a un’esistenza priva di libertà. Eppure, l’enorme scudo dorato che la circonda ha un insolito colore vibrante: un colore solare, energico, che sembra invitare al suo superamento. È il colore tipicamente legato alla conoscenza, che rimanda forse allo stesso serpente del dipinto di Rerich, il drago che protegge il tesoro e che allenta le sue spire solo per il più saggio degli uomini. D’altra parte, questo è anche il colore del Re Giallo di Robert W. Chambers (che guarda caso avrebbe ispirato Lovecraft e, in tempi recenti, la prima stagione di True Detective), della follia, del destino senza possibilità di appello. Molti cadono per lui, convinti di stare seguendo un piano superiore, che porterà allo sconvolgimento degli equilibri e a uno stato di rivelazione, salvo poi impazzire totalmente. Quello del Re di Chambers è un destino che possiamo conoscere ma che, se conosciuto, può portare all’illuminazione o alla follia. Il muro giallo è il monito a intraprendere un percorso di scoperta, nonostante questa via possa condannare alla pazzia. Molti muoiono nel cercare di mettersi in cammino, altri tornano indietro – gli unici a spingersi oltre sono il protagonista e il suo compagno di viaggio Izja. In uno dei loro dialoghi finali si convincono che l’uomo non può vivere senza uno scopo, senza non si potrebbe tollerare il peso dell’esistenza. Andrej Voronin non riuscirà a raggiungere il punto zero, ma si risveglierà nella sua Leningrado, accolto dal suo Mentore che lo informa di aver superato il primo ciclo, solamente uno dei tanti. Quanti cicli Voronin dovrà ancora affrontare prima di poter raggiungere il punto zero? Quante vite ed epoche dovrà attraversare, e quanto dolore lo aspetta ancora?
Gli abitanti della Città hanno già vissuto diverse vite, assumono ruoli sempre nuovi e provengono da epoche diverse. Nonostante ciò, tutte le età del mondo non sembrano abbastanza per afferrare il senso del vissuto umano. I personaggi tentano di perforare il velo della realtà, ma molti si perdono, storditi dallo scandito e cupo respiro della Città. Chi si spinge oltre sa di farlo a vuoto, ma, nonostante ciò, il desiderio di raggiungere il punto zero vince sull’apparente insensatezza dell’esperimento.
A proposito di uomo in lotta contro il proprio destino, quasi un mese fa è venuto a mancare l’artista e fumettista giapponese Kentaro Miura, probabilmente uno dei pochissimi autori che hanno saputo cogliere e rendere pienamente la tematica affrontata dagli Strugackij. Miura confessa di essere stato influenzato, esattamente come accadde agli Strugackij per La città condannata, da dei dipinti, quelli di Hieronymus Bosch – ricordiamo in particolare Il giudizio universale e Il giardino delle delizie –. Nelle tele del pittore fiammingo l’umanità soccombe al caos in due differenti declinazioni: in una è vittima di un caos che lo annienta e lo condanna al dolore perpetuo, nell’altra l’uomo lo abbraccia come unica via possibile per raggiungere la serenità, rinunciando a ogni forma di controllo. Miura approfondisce questo binomio, mostrando l’ampio spettro della mente umana alle prese con la sconcertante presenza del caos, e questa tematica appare soprattutto nel suo capolavoro, Berserk, in cui ha saputo raccontare, facendo affidamento all’elemento fantastico, la storia di un uomo in viaggio verso il suo punto zero.
Ben conscio dell’impossibilità di controllare il caos, l’eroe Gatsu sceglie comunque di rimanere fedele a sé stesso, sottraendosi alla logica della violenza e della prevaricazione. Con la morte del Maestro l’opera è rimasta incompiuta ma, anche senza il raggiungimento di un punto zero, il protagonista rafforza il messaggio che gli Strugackij ci lasciano attraverso la città condannata: andare avanti, non scegliere la logica del controllo e attraversare il caos come se fosse un deserto, in cerca del serpente che sorveglia il tesoro.