Radio Budapest: la militanza LGBT ai tempi dell’Orbanismo

Budapest, 2017. július 8. Az LMBTQ-közösség (leszbikus, meleg, biszexuális, transznemű és queer emberek) fesztiválja, a 22. Budapest Pride felvonulásának résztvevői gyülekeznek az Országház előtti Kossuth Lajos téren 2017. július 8-án. MTI Fotó: Máthé Zoltán

Democrazia illiberale: è così che la pensatrice Ágnes Heller, figura centrale della vita intellettuale di Budapest e della filosofia del Novecento, ha definito il governo di Orbán. Non è un mistero che l’ascesa al potere di figure come Orbán o Kaczyński e dei loro partiti getti luce sulla recente ondata di populismo e nazionalismo etnico della società di massa, ma a contraddistinguere questo rigurgito reazionario è un problema che è fondamentalmente identitario.

Come avevo scritto in un pezzo sulla Ghinea di aprile, dedicato proprio alla figura di Heller e alla sua breve analisi politica Orbanismo, il concetto di identità nella storia europea si è sempre configurato in termini di sovranità nazionale, e l’Unione non è stata ancora in grado di far fronte all’identificazione dei singoli Stati con il rispettivo nazionalismo etnico. Tra i Paesi dell’ex blocco Est, il caso ungherese rappresenta un caso unico proprio per la modalità peculiare della sua transizione alla democrazia: a differenza di quello polacco, ceco o romeno, Heller nota come in Ungheria la libertà sia giunta dall’alto, senza che nessuno si attivasse per ottenerla, e di come il monopolio di Fidesz si sia edificato su un terreno particolarmente fertile, caratterizzato dalla totale inesperienza del popolo nell’elaborazione di una propria identità collettiva e nell’esercizio della propria autodeterminazione.

In questo clima di contraddizioni e tensioni interne la morsa sui diritti LGBT in Ungheria si sta facendo sempre più soffocante; ma in questi giorni, in seguito all’approvazione della legge per la “tutela dei minori dalla promozione dell’omosessualità”, l’argomento è tornato in auge anche nei media occidentali. Tuttavia, il dibattito pubblico si concentra principalmente sull’operato delle autorità e sulle imposizioni dall’alto, mentre le azioni di resistenza e le contronarrazioni vengono nuovamente marginalizzate. È però nell’ambito delle contronarrazioni che si inserisce Radio Budapest, romanzo del 2020 di Robert V. Horvath (con la collaborazione di Angelo Bellanovi), edito da Playground Libri nella collana Syncro/Europa, dedicata proprio alla promozione della narrativa omosessuale europea contemporanea.

Pur formalmente più adatto a un pubblico di adolescenti o giovani adulti, la peculiarità del romanzo sta nella sua dimensione politica, consapevole sia delle restrizioni del contesto, alle volte contraddittorie, che delle pratiche di attivismo e resistenza elaborate dalla comunità LGBT di Budapest. Protagonista e voce narrante della storia è Robert, giovane expat omosessuale che partecipa alla scena queer della capitale ungherese, osservando la pluralità di voci e di vite gay attraverso una forma mentis occidentale.

Prima di addentrarci nel romanzo, vale la pena parlare dello scenario politico in cui si muovono i personaggi, anche e soprattutto per inquadrare meglio le loro lotte. Nel 2007 venne approvata una legge che avrebbe legalizzato le unioni civili, appianando di fatto le differenze fino ad allora presenti in materia economica e finanziaria, ma che al tempo stesso vietava l’adozione, la riproduzione assistita e la possibilità di prendere il cognome del o della partner alle coppie non sposate. La legge entrò in vigore nell’estate del 2009, non senza critiche da parte della comunità LGBT, che lamentava una disparità di trattamento in materia di adozioni e riconoscimento. Al tempo stesso, fu proprio grazie al lavoro delle organizzazioni LGBT e non governative che fu possibile far sì che le informazioni sullo stato civile non fossero differenziate tra coppie etero e omosessuali.

L’emendamento del 2009 prometteva un cambiamento in meglio, ma Orbán aveva altri piani. Nel 2010 Fidesz iniziò una bozza per una nuova Costituzione entrata in vigore nel 2012, che sulla carta mirava a rompere con il passato comunista per completare la transizione alla democrazia, ma che di fatto introdusse delle gravi limitazioni al potere della Corte Costituzionale, alla libertà di stampa e ai diritti civili, come osservato da Amnesty. Il testo della nuova costituzione muoveva da riferimenti alla cristianità, alla patria e alla Corona d’Ungheria per rimarcare la necessità della famiglia tradizionale come base della società, escludendo di fatto la comunità LGBT, le famiglie con genitori separati e gli atei, e dichiarare sacra la vita del feto già dal concepimento. Se già nel 2012 questa clausola preannunciava una restrizione del diritto all’aborto, nel novembre 2020 Orbán ha reso questa restrizione realtà, firmando la Dichiarazione di Ginevra promossa da Trump sei mesi dopo essersi rifiutato di ratificare la convenzione di Istanbul sulla violenza domestica.

Sempre nel 2020, a maggio, il parlamento ungherese ha approvato una legge che limita il riconoscimento legale delle persone transgender e intersessuali, impedendo la modifica su documenti o dati anagrafici del sesso biologico registrato alla nascita. A novembre, invece, parallelamente alla ratificazione della Dichiarazione di Ginevra, Fidesz ha proposto un emendamento alla Costituzione per proibire l’adozione alle coppie omosessuali, fino ad allora possibile nel caso in cui uno dei genitori avesse presentato la domanda da solo. Il disegno di legge, che vede “l’istituzione del matrimonio tra l’uomo e la donna” come “base della famiglia e della sopravvivenza nazionale” e che si assicura di portare avanti “l’istruzione in accordo con i valori dell’identità costituzionale ungherese e della cultura cristiana”, ha prevedibilmente attirato le critiche di Amnesty e dell’Unione Europea.

 

Budapest, 2017. július 8.
Az LMBTQ-közösség (leszbikus, meleg, biszexuális, transznemű és queer emberek) fesztiválja, a 22. Budapest Pride felvonulásának résztvevői gyülekeznek az Országház előtti Kossuth Lajos téren 2017. július 8-án.
MTI Fotó: Máthé Zoltán

 

Questa è grossomodo l’Ungheria di Orbán, dove si ritrovano a navigare Robert e gli altri personaggi, a cui la vicenda del protagonista fa da collante. La scelta stilistica di far narrare le lotte della comunità gay di Budapest a uno straniero può apparire bizzarra, ma l’estraneità al contesto permette una maggiore identificazione del lettore, i cui dubbi vengono espressi ed esternati dallo stesso Robert, nonché una comprensione più sfaccettata delle situazioni in cui versano gli altri personaggi e delle strategie di sopravvivenza o sovversione messe in atto dagli stessi. A fianco di Robert troviamo infatti László, attivista radicale e portavoce del Budapest Pride, che porta avanti una lotta in aperto contrasto con il governo e l’omofobia di Fidesz; János, dj e speaker della radio di Stato, definito “la più grande velata d’Ungheria” per la sua scelta di nascondere la propria omosessualità a favore di una politica di assimilazione; e infine Tibor Bozóki, giovane politico di Fidesz e pupillo di Orbán, padre di famiglia ma segretamente omosessuale, che sacrifica la propria individualità e la propria autenticità in nome della carriera e dell’ambizione. Grazie alla conoscenza fortuita di Kaspar, berlinese in visita a Budapest e compagno di János, Robert diventerà l’insegnante di inglese della famiglia di Tibor, con il quale intreccerà una relazione.

Nell’arco del personaggio di Tibor, descritto come uno dei wonder boys di Orbán, un consulente economico brillante, che aveva intrapreso la carriera politica dietro l’incoraggiamento dello stesso primo ministro, non è difficile riconoscere le vicende dell’ormai famigerato József Szájer, l’europarlamentare di Fidesz pizzicato a violare le restrizioni anti-covid per organizzare un’orgia gay a Bruxelles. La vicenda di Szájer è stata materiale perfetto per battute e meme, ma ha avuto dei risvolti inaspettati. Da un lato, gli ungheresi di Bruxelles hanno posizionato un cartello commemorativo delle gesta del politico sulla grondaia usata da Szájer per fuggire dalla polizia, cartello poi divenuto un’attrazione per i locali. Dall’altro, la street artist romana Laika ha immortalato Szájer in un poster che lo ritrae come nuova icona gay ungherese, con estetica bear e imbracatura leather, attorniato da un gruppo di uomini nudi. In quest’intervista per gay.it, Laika ha dichiarato: Sogno un mondo dove anche Szájer possa essere libero di vivere la sua sessualità nel modo in cui crede, senza nascondersi agli occhi del suo stesso partito. Ed è proprio nel dissidio interiore di Tibor Bozóki che le contraddizioni del caso Szájer assumono le sembianze di una preoccupazione collettiva.

Senza guardarmi, ma fissando il vuoto davanti a sé, Tibor ha commentato che l’ostilità del governo verso la comunità LGBT era solo colore, anzi, folklore, ma che non si sarebbe mai concretizzata in qualcosa di violento o pericoloso. Nessuno rischiava il carcere per il proprio orientamento sessuale. Non c’erano retate della polizia nei locali, nessuna denuncia, nessun arresto.

Ho obiettato che però erano aumentati i casi di omofobia, e che non c’era garanzia che la situazione non sarebbe peggiorata nei prossimi mesi, o magari anni.

Tibor scuoteva la testa, sostenendo che era solo propaganda, e che gay e lesbiche ungheresi non dovessero temere nulla, purché conducessero la loro vita con discrezione e avendo rispetto per gli altri.

La peculiarità di Radio Budapest, infatti, sta nella natura consapevole e militante del romanzo, che analizza le diverse sfaccettature dell’accettazione dell’omosessualità e della pratica politica. Tra le tematiche chiave vi è infatti la questione dell’assimilazione e della cosiddetta respectability politics, l’adattamento ai canoni di decenza borghese e di decoro per garantirsi la sopravvivenza in un ambiente ostile. È il caso di János, quel genere di gay amato dal governo ungherese: un gay discreto, ricco e che non prendeva posizioni politiche. Con il suo coming out in diretta, János perde il lavoro e il proprio status, capendo tuttavia che il passing, ossia il mantenimento di un profilo basso, non è sufficiente per una vera liberazione individuale e collettiva.

E adesso?, mi chiederai. Adesso ha capito. Tutto. Ha capito che quando il clima si fa pesante, è assurdo pensare che ci si salverà rimanendo defilati, non facendosi notare. O si salvano tutti o nessuno. […]

Lui, alla fine, ha capito. Ma gli altri? Be’, la strada è lunga per i gay ungheresi, soprattutto per quelli spaventati, anzi, terrorizzati dalle famiglie, dai politici omofobi, dai rozzi principali nei posti di lavoro.

Il protagonista Robert, invece, si barcamena tra la relazione clandestina con Tibor e la militanza al fianco di László. Chiave di volta per lui sarà la partecipazione a una campagna pubblicitaria di una multinazionale interessata alla rappresentazione della comunità LGBT, nella quale non è difficile riconoscere la campagna di Coca-Cola dell’estate 2019, che ha attirato le ire del governo. István Boldog, vicepresidente di Fidesz, aveva all’epoca invitato al boicottaggio, ma poco dopo lo stesso partito si distanziò dalle sue dichiarazioni. L’attivista Tamás Dombos, del collettivo per i diritti civili Hatter, ha dichiarato che il partito stesse tastando il terreno, dal momento che l’intera propaganda del governo è fondata sul conflitto, e ha bisogno di nemici. Dopo l’Unione Europea, i migranti, le ONG e i senzatetto, ora potrebbe essere il turno della comunità LGBTQ.

Finalmente mi hanno presentato lo sconosciuto quarantenne, scrive Horváth, che ho scoperto essere il manager della filiale magiara di una multinazionale francese che, tra gli altri prodotti, distribuiva un’orribile aranciata, che stava conquistando notevoli quote di mercato, in particolare nella ex Jugoslavia e in Polonia. L’Ungheria era nel mirino da alcuni mesi. E per colpire il bersaglio, avevano deciso di impostare una campagna pubblicitaria a tappeto tutta concentrata sui giovani, e che avrebbe coinvolto anche la comunità LGBT ungherese.

Rimane però un dubbio più che legittimo: una lotta portata avanti in nome del riscontro economico di un’azienda è davvero un traguardo? Per quanto l’arco narrativo incentrato sulla campagna pubblicitaria possa sembrare una contraddizione in termini rispetto alla militanza ortodossa di László e del suo collettivo, soprattutto perché le azioni delle multinazionali non sono mai disinteressate (la campagna di Coca-Cola era infatti stata lanciata a ridosso del festival Sziget, che attira ogni anno una grande quantità di giovani da tutta Europa), Horváth preferisce concentrarsi sul ricambio di visibilità e sulla possibilità di un discorso di opposizione, anche se mediato dalle logiche di mercato. È simile a quanto accaduto con la serie Netflix Sexify in Polonia, dove l’unica alternativa mainstream al discorso della classe politica avviene per mezzo del colosso dell’intrattenimento.

In sintesi, per quanto concerne il comparto formale Radio Budapest non offre un’esperienza letteraria degna di nota, ed è bene ribadirlo, ma è l’aspetto politico del romanzo a renderlo interessante e attuale sotto molti punti di vista. Gran parte della letteratura queer si focalizza sul lato estetico delle vicende, o sul percorso di formazione dei protagonisti che rimangono avulsi dal contesto, lasciando così scoperta tutta l’attenzione che andrebbe dedicata alla collettività, alla costruzione di legami e alla lotta per i diritti della propria comunità; ma il romanzo di Horváth fornisce spunti e strumenti critici necessari per l’inquadramento del tema nella contemporaneità non solo ungherese.

A tal proposito, appena pochi giorni fa il governo Orbán ha approvato una legge che impedisce di affrontare discorsi legati all’omosessualità e alla comunità LGBT in contesti frequentati da minori, accusando le associazioni di voler influenzare lo sviluppo sessuale dei bambini ed equiparando di fatto, proprio come in Polonia, l’educazione sessuale alla pedofilia. Le proteste si sono già attivate, ma la strada è ancora in salita: il potenziale eversivo della comunità queer, però, si sta appena risvegliando. 

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