Ogni incontro con Dante è oneroso, e anche fuori dai confini italiani la letteratura è piena di punti di contatto con il Sommo Poeta. Gli echi romantici che hanno testimoniato la fortuna dell’opera dantesca vivono ancora in terra polacca, in un continuo gioco di risignificazioni, e il confronto col mito proseguì nel Novecento nelle parole di Miłosz, di Vincenz, nelle invettive di Gombrowicz contro i monumenti morti e immortali eretti in nome dell’arte. In occasione del festival che si è tenuto a Bologna per celebrare Dante e il “parlar d’amore”, il premio Nobel Olga Tokarczuk ha dialogato con Andrea Ceccherelli su vari aspetti dell’opera dantesca, sul raccontare altre soggettività in un’epoca di frammentazione – un inferno liquido, come lo definirebbe Bauman. Tokarczuk si è prestata a farci da Virgilio nel percorso tortuoso delle antinomie del reale, regalandoci una prospettiva nuova sulla letteratura e sulla vita.
Andrea Ceccherelli: ringrazio molto Tokarczuk che ha accettato questo nostro invito. Quello di oggi è un incontro un po’ diverso dai consueti incontri d’autore, il titolo stesso ce lo suggerisce. “Olga Tokarczuk incontra Dante”: che cosa vuol dire incontrare Dante, ci hanno chiesto alcuni in questi giorni. Abbiamo cercato di cogliere cosa unisce scrittori apparentemente così diversi come Dante e Olga Tokarczuk, così lontani nel tempo e nello spazio. Non si tratta solamente di rimandi a Dante, di citazioni, di menzioni, che naturalmente non mancano neppure nell’opera di Olga Tokarczuk e di molti altri scrittori. Si tratta di temi e motivi che sono centrali nell’opera di entrambi, ma che sono declinati da ciascuno in modo diverso. Come avviene in un vero incontro, quando ciascuno mantiene la propria diversità, la propria specificità, ma è possibile dialogare su temi di interesse comune. Sono temi importanti, selezionati secondo il principio che Olga Tokarczuk stessa ci spiega in questo brano dei Vagabondi, che adesso Titta Ruggeri leggerà per noi.
Ci sono troppe cose al mondo, bisognerebbe rimpicciolirlo piuttosto che ampliarlo o espanderlo. Bisognerebbe rimetterlo nella sua piccola scatola, in un panottico portatile, e poterci sbirciare dentro solo il sabato pomeriggio, quando le faccende quotidiane sono già state sbrigate, il bucato è già stato fatto e le camicie se ne stanno inamidate sulle spalliere delle sedie, i pavimenti sono stati lucidati e sul davanzale c’è una torta fragrante a raffreddare. Si potrebbe guardare all’interno attraverso il buco, come nel Fotoplastikon di Varsavia, e stupirsi di ogni singolo particolare. Ma temo che ormai sia troppo tardi. Sembra che non rimanga nulla da fare, se non imparare a selezionare di continuo, essere come quel viaggiatore che ho incontrato una volta in treno. Diceva che di tanto in tanto deve andare a Parigi a visitare il Louvre per un’opera che secondo lui vale davvero la pena di vedere. Si piazza davanti al quadro di San Giovanni Battista e concentra lo sguardo sul suo dito alzato.
A.C.: Ora, Olga, cominciamo la nostra conversazione su questi temi comuni che abbiamo individuato e parliamo di Dante e di te. La prima domanda riguarda I vagabondi, che è stata la tua opera più conosciuta da noi in Italia. I vagabondi sono un centinaio di piccole narrazioni unite dal tema del viaggio e della mobilità, del pellegrino. Anche Dante era un pellegrino, il pellegrino per eccellenza. Possiamo considerarlo un antenato dei Vagabondi?
Olga Tokarczuk: Anzitutto devo dire che mi sento un po’ imbarazzata e anche frastornata da questo paragone con Dante, ma proverò a confrontarmi con lui. Nei suoi confronti provo una sorta di invidia, perché era un pellegrino che si muoveva in uno spazio ordinato, con un certo criterio di giustizia e coerenza. La mia narratrice invece si muove all’interno di un mondo intricato, non sintetico, caotico, sorprendente, che non le da criteri con la quale orientarsi al suo interno. Se c’è qualche cosa che unisce in effetti l’eroe protagonista di Dante con i miei protagonisti è sicuramente la condizione di essere perennemente in movimento, muoversi senza sosta, tra sfere e luoghi differenti. Sicuramente sono accomunati dalla ricerca di un senso in questo mondo. Se però l’eroe protagonista di Dante riesce a rinvenire un senso, crea una visione unica, intera del mondo, nel mio libro questa risposta concreta non c’è. Viviamo in un mondo del tutto caotico, l’unica cosa che ci rimane è questo dito figurato che indica un ordine che però al momento è inaccessibile, vedi il quadro di Caravaggio.
A.C.: Restiamo sul tema del pellegrino. Il pellegrino è protagonista di questa incisione (l’incisione di Flammarion, che rappresenta un uomo che infila la testa oltre un cielo stellato) che tu ami molto, nella tua raccolta di saggi che non è ancora stata tradotta in italiano, tu suggerisci che questa immagine dovrebbe sostituire L’uomo vitruviano di Leonardo come emblema del nostro tempo. Perché?
O.T.: Sì, hai ragione, l’uomo di Leonardo è una metafora, un simbolo di un mondo diverso da quello in cui viviamo oggi. È un mondo fatto a somiglianza dell’uomo, un mondo nato dall’orgoglio, dalla convinzione che l’uomo è al centro della creazione stessa. Oggi viviamo in un mondo completamente diverso. Oggi sappiamo che non siamo i re e le regine di alcunché, piuttosto ci rendiamo conto che siamo solo una piccola particella in una rete molto più vasta in una rete che ci tiene in relazione l’uno con l’altro. Credo che adesso quello che sia più affascinante sia la curiosità e il bisogno di oltrepassare le frontiere. La capacità di trascendenza che propria dell’umano, la capacità di osservare da diverse prospettive il mondo, quindi questo uomo vitruviano non mi convince più. Mi convince di più invece questa visione, di questo pellegrino di cui non vediamo neanche il sesso, non sappiamo se sia una donna o un uomo, ma che vediamo impegnato in una ricerca incessante.
A.C.: L’altro protagonista dei Vagabondi, accanto al viaggio c’è il corpo. I misteri del corpo, le sue deformazioni sono uno dei leitmotiv del tuo libro. Le deformazioni del corpo sono protagoniste anche nell’Inferno di Dante. Da dove nasce questa fascinazione del corpo e della deformazione?
O.T.: È un discorso complicato. Io sono psicologa clinica e quello che mi hanno insegnato in tanti anni di lavoro è che la perfezione non esiste. Se la perfezione esiste è soltanto un’eccezione in un oceano di irregolarità. La perfezione del corpo non esiste. In ciò credevano piuttosto gli antichi. Esiste invece un ampio spettro di differenze. A me interessa indagare la fragilità che è connaturata nel corpo stesso. La mortalità che sperimenta il corpo è un carattere fondamentale per comprendere l’uomo. Per questo il tema del corpo è così centrale ne I vagabondi, il fatto che molti dei filoni narrativi di questo libro ruotino attorno a questo stesso tema. I protagonisti non accettano che a non essere immortale non sia tanto l’anima, di questo non si curano, ma il corpo – e non trovano soluzione a questo. Per scrivere I vagabondi ho fatto una ricerca profonda, sono anche andata ad Amsterdam a visitare i musei anatomici, dove sono conservati in determinate collezioni i cambiamenti del corpo umano. Ho anche studiato il meccanismo attraverso il quale era possibile conservare il corpo umano. Di fatto, si potrebbe quai tracciare una storia dell’uomo attraverso i metodi che l’uomo ha creato per conservare il proprio corpo dopo la morte, a partire ovviamente dalle mummie d’Egitto, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui la cosmetica si è evoluta quasi fino ai livelli della medicina, consentendo di renderci giovani per un tempo lunghissimo. Forse, non so se lo sapete, ho letto delle ricerche che dimostrano che i cadaveri dei nostri contemporanei si decompongono in un tempo molto più lungo rispetto al passato a tal punto siamo pieni di plastica, sia per le cose che mangiamo sia per l’ambiente in cui ci troviamo a vivere.
A.C.: Abbiamo parlato della conciliazione del corpo, ora qualche parola sulla conciliazione dell’anima. La storia dell’anima nella Divina Commedia è la storia di un’anima smarrita e proprio questo è il titolo di una tua parabola, L’anima smarrita, che sentiamo adesso letta da Titta Ruggeri, e poi ti chiedo che cosa significa oggi ritrovarsi nella selva oscura e smarrire la diretta via.
Una volta c’era un uomo che lavorava molto sodo, e molto in fretta, e si era lasciato ormai da un pezzo la propria anima alle spalle. Senza anima non viveva neanche male, dormiva, mangiava, lavorava, guidava la macchina, giocava perfino a tennis. A volte però aveva l’impressione che intorno a lui fosse diventato tutto piatto. Gli sembrava di muoversi su un liscio foglio di un quaderno di matematica. Un foglio ricoperto di quadretti tutti uguali e onnipresenti. Una volta durante uno dei suoi tanti viaggi, in una stanza d’albergo l’uomo si svegliò nel cuore della notte e si sentì soffocare. Guardò dalla finestra, non sapeva bene in quale città si trovasse […] non sapeva bene neanche come fosse arrivato lì e perché ci fosse andato. E purtroppo aveva anche dimenticato il suo nome. Era una situazione strana, non sapeva nemmeno come rivolgersi a sé stesso. Dunque, rimase semplicemente in silenzio, per tutta la mattina non si parò. E allora si sentì davvero molto solo, come se dentro il suo corpo non ci fosse più nessuno. Quando si mise davanti allo specchio del bagno si vide come una macchia indistinta. Per un momento gli parve di chiamarsi Andrzej, e subito dopo era sicuro che il suo nome fosse Marian. Alla fine, spaventato, ritrovò il passaporto sul fondo della valigia e vide che si chiamava Jan. Il giorno dopo andò da una dottoressa vecchia e saggia, e quella gli disse le seguenti parole: se qualcuno fosse in grado di guardarci dall’alto, vedrebbe che il mondo è pieno di persone che corrono in fretta e furia, sudate, stanche morte, nonché delle loro anime in ritardo, smarrite, che non riescono a stare dietro ai loro proprietari. Da tutto ciò, deriva una gran confusione, le anime perdono la testa e la gente smette di avere cuore. Le anime sanno di aver smarrito il corpo e il loro proprietario, ma spesso la gente non si rende affatto conto di aver smarrito la propria anima.
Jan fu molto turbato da questa diagnosi. Ma come è possibile? Ho perduto anche io la mia anima? chiese. La dottoressa saggia rispose: succede, perché la velocità con cui si muovono le anime è molto inferiore a quella in cui si muovono i corpi. Infatti, esse si sono formate in tempi assai remoti, subito dopo il big bang, quando il cosmo non aveva ancora acquistato troppa velocità, ragion per cui poteva guardarsi sempre allo specchio. Lei deve trovarsi un posto tutto suo, sedersi tranquillo e aspettare la sua anima. È soltanto dove lei si trovava due o tre anni fa, dunque l’attesa può durare un po’. Per lei non vedo altro rimedio.
E così fece dunque quell’uomo chiamato Jan, si trovò una piccola casetta ai margini della città e là ogni giorno sedeva in poltrona. E aspettava, non faceva altro. Ci vollero molti giorni, settimane, e mesi. A Jan si allungarono i capelli, e la barba gli arrivò alla cintola, finché alla fine, un pomeriggio, qualcuno bussò alla porta. E sulla soglia comparve la sua anima perduta, stanca, sporca e piena di graffi. Finalmente! Disse trafelata. E da quel momento vissero a lungo felici e contenti. E Jan stava molto attento a non fare nulla più in fretta di quanto non riuscisse a fare la sua anima.
O.T.: Penso che questa mia parabola sia stata un po’ una profezia di quello che sarebbe accaduto con la pandemia. Mentre l’attrice leggeva, mi sono concentrata sulla risposta a questa domanda, che è stata una domanda intelligente, una domanda profonda, una delle più importanti che mi sono sentita rivolgere nell’ultimo periodo. Che cos’è la selva oscura oggi. Per Dante la selva oscura era un mondo pieno di violenza in cui si muoveva, aveva ben chiara la ricerca di una giustizia, l’obiettivo di trovare un senso che desse un ordine morale al mondo. Oggi la violenza è di un altro tipo, non ci sono più gli stessi pericoli di allora. Sono una persona cresciuta con i valori dell’illuminismo, da cui il senso del viaggio tocca la necessità di comprendere il mondo, ma in maniera differente, non attraverso strane sperimentazioni, strumenti scientifici, non attraverso lo scientismo, ma penso che il mondo vada compreso attraverso la ricerca continua di punti di vista alternativi di questa realtà. Questi possono essere quelli degli animali, ma anche del mondo vegetale ad esempio. È necessario vedere il mondo in modo nuovo.
A.C.: Olga, hai trattato di Dante l’ordine del mondo, e allora parliamo di quello che è un romanzo-mondo, Nella quiete del tempo, che è il romanzo con cui ti sei affermata a poco più di trent’anni, il primo romanzo di successo in Polonia, che inserisce Prawiek in un ordine immaginario, in una cosmologia. La domanda però che sorge è questa. L’ordine del mondo iscritto nelle pieghe del tempo, come per noi oggi l’ordine iscritto nella Divina Commedia, è illusorio. Forse allora l’ordine complessivo in cui tentiamo di racchiudere il mondo, o la letteratura, è illusorio? Forse è solo letteratura?
O.T.: Questo è un libro che ho scritto trent’anni fa, in qualche modo mi è difficile approcciarmici, sicuramente ho la percezione che è stato scritto da una persona giovane, che era disperatamente alla ricerca di un ordine da dare al mondo. Non attraverso gli strumenti già noti, quelli della scienza e della religione, ma di un ordine diverso, che fosse in grado di consolare dalla paura e dalla sensazione di essere rigettati dal mondo. Dante credeva in un ordine oggettivo, per me invece questo ordine oggettivo non esiste, è un’illusione. Al contempo questa è una buona scoperta e una cattiva scoperta. La cattiva notizia che dà questo senso di illusione è che non abbiamo punti di appiglio già pronti per noi e la situazione in cui ci muoviamo è drammatica, la buona notizia, d’altra parte, è che sono convinta ottimisticamente che la buona volontà, la tenerezza e l’amore ci consentano di creare ex novo questo mondo che sta cambiando.
A.C.: I lettori italiani attendono con grande curiosità il tuo capolavoro, I libri di Jakub. Parlandone in un ciclo di lezioni hai evocato proprio Dante e il purgatorio, un purgatorio di storie non raccontate che aspettano di essere conosciute. E hai aggiunto “la storia dei seguaci di Jakub Frank, che è proprio il fulcro narrativo del libro, era una di queste storie. In questo libro, che speriamo di leggere presto anche in italiano, la verità storica, che hai indagato con grande impegno documentario, si mescola con l’immaginazione, che definisci nel sottotitolo del libro il più grande dono naturale che l’essere umano possiede. Che ruolo ha l’immaginazione nei Libri di Jakub e più in generale nella tua scrittura, e come si fonde con l’elemento enciclopedico? Entrambi sono stati menzionati nella motivazione del Nobel, l’immaginazione e la passione enciclopedica.
O.T.: Mi è venuto in mente adesso e aggiungerei al purgatorio tratto da Dante un girone in cui le persone vorrebbero raggiungere la saggezza e liberarsi di questa loro condizione di passaggio, attraverso il racconto di tutte quelle storie che non hanno raccontato durante la vita, nascoste sotto il tappeto e che hanno in qualche modo rimosso dalla propria coscienza, raggiungendo la saggezza raccontando fino in fondo queste storie. Spesso abbiamo l’impressione che la storia sia qualcosa di già accaduto, che è già stato raccontato e che ormai fa parte del passato. Invece ritroviamo quell’affermazione anche banale che la storia è quella raccontata dagli strati potenti della società, da coloro che hanno accesso alla lingua, alla penna con cui raccontare, ci rendiamo conto che esiste un oceano di storie sommerse che non sono mai state raccontate, l’esperienza umana collettiva e individuale ha diritto di essere raccontata, ad esempio se si pensa alla storia delle donne e al loro punto di vista, ma anche di esseri non umani, la storia raccontata dal punto di vista degli animali ad esempio, dell’ambiente, della vegetazione, del paesaggio nel quale il mondo si è per secoli mosso, di tutte quelle persone che sono state considerate insignificanti per non avere influenza nella società. Insomma, io penso che per i romanzieri ci sia un oceano di racconti, di romanzi che attendono di essere scritti. Io ho scelto soltanto uno di questi filoni, quello che fa riferimento ai franchisti, cioè ai seguaci di questo Jakub Frank.
A.C.: La prossima domanda è sulle stelle, che sono protagoniste della Divina Commedia come di molti dei tuoi romanzi, tra cui guida il tuo carro sulle ossa dei morti, la cui protagonista è appassionata di astrologia. Viene menzionato l’Inferno in cui gli astrologi devono camminare con la faccia rivolta all’indietro per contrappasso poiché pretendevano di vedere avanti nel futuro e ora possono vedere soltanto indietro a sé. Tuttavia, Dante con Virgilio lodava l’astrologia come la più alta e più difficile delle arti liberali. Allora forse ancora oggi c’è un modo falso e un modo autentico di guardare alle stelle e com’è il tuo rapporto con questo personaggio e la sua passione?
O.T.: Fin dall’infanzia sono stata affascinata dall’astronomia, ricordo i nomi delle costellazioni, la distanza degli assi della terra. Col tempo ho preso di più a interessarmi all’astrologia. Guardo all’astrologia come a uno specchio paradossale dell’astronomia, come a un’arte bellissima, non una scienza, un’arte antica, millenaria, che racconta ancora una volta la ricerca dell’uomo del proprio posto nel mondo. Ovviamente alla base dell’astrologia sta l’assunto per cui tutti i corpi celesti sono legati in una qualche relazione con noi, esercitano su di noi che siamo sulla terra una certa influenza. È una visione estremamente ottimista e in qualche modo confortante, e a suo modo la storia antica della psicologia. Credo che la psicologia contemporanea abbia preso un po’ da questo tipo di narrazione. Mi rendo conto che l’astrologia è una disciplina controversa, ambigua in un certo senso, proprio per questo ho voluto che la protagonista di guida il tuo carro sulle ossa dei morti si occupasse di questa disciplina e avesse la passione per l’astrologia, perché volevo trasmettere anche a lei questo carattere controverso, qualche cosa che la rendesse in qualche modo ridicola agli occhi dei privilegiati, qualcosa che potesse esporla al disprezzo. Per poter dotare questo personaggio di competenze in astrologia ho dovuto a mia volta studiare tantissimo e addirittura la mia casa editrice che ha sede a Cracovia mi ha messo a disposizione un consulente astrologo, che mi aiutasse. Mi ha anche fatto i complimenti, perché me la cavo piuttosto bene, anche perché ho delineato una sindrome astrologica, vediamo se poi verrà accettata.
Di notte nel mondo sorge l’inferno. La prima cosa che fa, è deformare lo spazio, rende tutto più stretto, massiccio e immobile. Scompaiono i particolari e gli oggetti perdono le loro caratteristiche. Diventano tozzi, indistinti. È strano che di giorno si possano definire belli o utili. Ora ricordano bruchi sgraziati ed è difficile indovinare a cosa servono. Ma all’inferno ogni cosa è convenzionale. Tutta l’eterogeneità diurna, la bellezza dei colori, le tonalità, si rivelano sterili. Ma perché succede? A cosa servono il rivestimento color crema della poltrona, la carta da parati con le foglie, la nappa della tenda? Che senso ha il verde del vestito buttato sullo schienale della sedia? Ora è difficile capire lo sguardo pieno di desiderio che si era posato su di esso quando ancora era appeso in vetrina. Non ci sono più bottoni, ganci o automatici; le dita nell’oscurità incontrano soltanto protuberanze, asperità, grumi di materia dura. Poi l’inferno spietato ti trascina fuori dal sonno, a volte suggerisce immagini inquietanti, spaventose e beffarde, per esempio, una testa tagliata, un corpo… ricoperto di sangue, ossa umane in cenere. E già, l’inferno ama scioccare, ma più spesso sveglia, senza fare complimenti, gli occhi si aprono nell’oscurità e parte il flusso di coscienza. Lo sguardo, che nel buio non ha riferimenti, va in avanscoperta. Il cervello notturno è una Penelope che di notte sfilaccia accuratamente il tappeto dei sensi tessuto durante il giorno. A volte è soltanto un filo, a volte di più, un modello complicato si scompone in fattori primi – ordito e trama; l’ordito sparisce e rimangono soltanto linee parallele, il codice a barre del mondo. Allora diventa tutto chiaro. La notte riporta il mondo al suo aspetto naturale e primitivo, senza abbellimenti; il giorno è un volo di fantasia, la luce è soltanto una piccola eccezione, una svista, una perturbazione dell’ordine. Il mondo in realtà è scuro, quasi nero, immobile.
A.C.: rimanendo sul romanzo Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, qualche parola sulla menzione civile della scrittura. Guida il tuo carro è un giallo ecologico, il motore di questo libro è l’ira della protagonista indignata dagli abusi perpetrati dall’uomo nei confronti della natura e degli animali. Anche Dante è un uomo di passione, incline all’ira, allo sdegno e due volte soltanto nell’Inferno Virgilio abbraccia Dante e lo fa quando Dante dimostra disprezzo verso due anime, un fiorentino arrogante e un Papa. Credi che questa ira, questo sdegno siano necessari ancora oggi e cosa significa per uno scrittore essere coscienza della nazione o del mondo?
O.T.: Se per me lo sdegno è sempre una emozione negativa, perché si ricollega a un senso di superiorità rispetto a qualcuno, che può essere causa di violenza, di esclusione, all’opposto, la rabbia è un sentimento sano, necessario, che consente di svilupparci, di espanderci. Lo ricollego all’immagine del bambino che esce dal ventre della madre e cerca il suo posto nel mondo. Io credo che la rabbia sia necessaria, ho nei confronti della rabbia ho un grandissimo rispetto come sentimento. Penso all’intelligenza, all’esclusione nelle giuste proporzioni, alla distinzione tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Penso che sia necessaria per lo sviluppo del mondo accogliere ogni tanto la rabbia.
A.C.: Per Dante l’amore muove il mondo, l’amor che move il sole e l’altre stelle. Proprio qui a Bologna Dante imparò dal suo maestro Guinizelli a parlar d’amore e a questo è dedicato il nostro festival. Nel tuo discorso del Nobel e poi nella raccolta di saggi Il narratore tenero, tu introduci la categoria della tenerezza e la definisci la più modesta forma d’amore? Che cos’è per te la tenerezza e perché è così importante?
O.T.: Penso che a proposito dell’amore si siano spesi fiumi di inchiostro, spesso ci si è appellati all’amore in toni decisamente esagerati, e poi ci accorgiamo che l’amore di fatto manca in questo mondo. Per questo ho deciso di adottare un tono più basso, facendo appello alla tenerezza. Perché la tenerezza educa avvero all’amore, è qualcosa di semplice, essenziale, connaturata all’essenza stessa dell’uomo. Se siamo onesti con noi stessi appare spontaneamente nelle nostre vite e può portare verso l’amore. Io penso che all’uomo contemporaneo immerso in questa esistenza caotica sia più facile cercare un accesso alla tenerezza piuttosto che l’amore.