Nel 1989 esce in Jugoslavia il film “Kako je propao rokenrol” (“Come è caduto il rock’n’roll”), una commedia in tre atti che sullo sfondo di una Belgrado cupa, grigia, grottesca e decadente intende mostrare come il rock in Jugoslavia, che pure aveva avuto un grande successo nel Paese, stesse ormai morendo. Nel primo episodio, diretto da Zoran Pezo, il giovane Koma (Srđan Todorović), caratterizzato dall’intercalare “Mrzim narodnjake!” (“Odio i narodnjaci”, ovvero coloro che facevano musica popolare di qualità a volte trascurabile), è il frontman di un gruppo rock di poco successo e figlio di un produttore discografico (Velimir Bata Živojinović) che si occupa proprio di lucrare sui narodnjaci tanto odiati dal figlio, che deciderà poi a sua volta di unirsi a loro.
In questo episodio del film si nota un aspetto particolare della sottocultura rock: con dissacrante ironia, l’autore mostra un’industria musicale che si sta iniziando a dedicare ad una musica di basso livello, volgare, prodotta coi mezzi più spiccioli, simbolo di una società – quella jugoslava – in piena decadenza, il tutto pur di guadagnare più soldi possibile. Emblematica è la scena in cui un altro produttore entra nell’ufficio del padre di Koma, il quale, circondato da un lusso kitsch e di cattivo gusto e protetto da una guardia del corpo che si diverte a prendere in giro come può, ha sempre più l’aspetto di un boss malavitoso, piuttosto che di un produttore musicale, ed esordisce dicendo: “Compagni narodnjaci, salve! Come va il rubare i soldi al popolo?”.
Seppur disseminata di elementi esagerati e grotteschi, questa parte del film è una descrizione non troppo lontana dalla realtà della Jugoslavia dell’epoca, soprattutto di quella Jugoslavia meno sviluppata, rurale, più povera e meno aperta al mondo che con prepotenza si stava inserendo nei contesti urbani e nella loro cultura. È una descrizione di quella Jugoslavia che stava definitivamente voltando le spalle alla musica di qualità che gli anni ’70 e ’80 avevano saputo tirar fuori per buttarsi nelle braccia di un tipo di musica che in Occidente, quando si parla di Balcani e soprattutto di Serbia, non si può fare a meno di nominare, e che avrebbe segnato i decenni successivi, soprattutto quei terribili anni Novanta fatti di guerra, disperazione, decadenza, crimine: il turbofolk.
Il turbofolk non nasce spontaneamente da un momento all’altro. Anche solo ascoltando alcune delle canzoni facenti parte del genere, soprattutto quelle di fine anni Ottanta, si può ben capire che esse siano il frutto di un’evoluzione, ovvero della modernizzazione nei mezzi di produzione e della commercializzazione in massa di quella musica che tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta veniva definita, soprattutto in Serbia, dove aveva più successo, “novokomponovana muzika” (“musica neo-composta”, equivalente, in realtà al nostrano termine “musica neomelodica”). Questa novokomponovana muzika era una musica dai temi banali (così banali che questo genere, quando commercializzato, era tassato in maniera particolare, con la cosiddetta “porez za šund”, “tassa per l’immondizia, per le stupidaggini”), che cantava generalmente d’amore e di vita rurale, una musica dal linguaggio semplice e spesso poco corretto, accompagnata da una immancabile fisarmonica e caratterizzata da toni e melodie tipici di quel mix di culture che sono i Balcani. Nella novokomponovana muzika, così come nel turbofolk, sono presenti infatti chiare influenze turche, greche, romanì o anche bulgare.
Come si è poc’anzi suggerito, questo tipo di musica gode di un particolare successo nelle parti rurali del paese, non toccate dall’ondata new wave che da fine anni ’70 ha segnato la vita culturale della Jugoslavia urbana. Sono le parti più arretrate, dove la kafana (bar, locanda tipica dei Balcani) è l’unico luogo dove è possibile riunirsi e divertirsi. Non a caso questo tipo di musica viene spesso, in maniera più che altro dispregiativa, definita come “musica da kafana” nei paesi ex-Jugoslavi. Eppure, questa “musica da kafana” cantata dai narodnjaci esce dai confini della provincia povera e poco istruita e si impone con successo sulla scena musicale della federazione jugoslava. Mitar Mirić, Vesna Zmijanac, Neda Ukraden, Halid Bešlić, Šaban Šaulić e, soprattutto, Lepa Brena riscuotono un successo enorme, e insieme a loro le esilaranti e grottesche copertine dei loro album.
Lepa Brena (nome d’arte di Fahreta Jahić) non solo diventa una stella della musica, con milioni di album venduti, ma è così popolare e amata che ottiene ruoli anche nel cinema, con la serie di film Hajde da se volimo (“Vogliamoci bene”, “amiamoci”, tratti dall’omonimo titolo di una delle sue canzoni più famose), grazie ai quali oltre a cantante e attrice diviene anche sex-symbol. Il caso di Lepa Brena è interessante, perché l’esplosione della sua popolarità coincide con la fine degli anni ’80, quel controverso periodo immediatamente antecedente la dissoluzione del paese. Le tensioni politiche si stanno già facendo sentire e già si mette in dubbio il fatto che la Jugoslavia potrà continuare ad esistere così com’è. Fa scalpore, infatti, la canzone patriottica Jugoslovenka (“Jugoslava”), in cui cantano anche Alen Islamović (bosniaco, del gruppo Bijelo Dugme), Danijel Popović (montenegrino) e Vlado Kalember (croato), in cui Lepa Brena, con la sua stupenda voce, celebra con passione la Jugoslavia, la sua gente, la sua bellezza. Non molti, però, vedono di buon occhio la canzone. Per coloro che ormai sono convinti che una Jugoslavia unita non potrà continuare ad esistere, la canzone appare come una forzatura fuori luogo, ma queste riserve, in realtà, poco intaccano il successo del pezzo e dell’artista.
Purtroppo, però, Jugoslovenka o meno, la Jugoslavia sta cambiando e si sta iniziando pian piano a sgretolare. Sono finiti i tempi della fratellanza e dell’unità, non si celebrano più le vittorie partigiane, la sofferenza di un popolo che lotta strenuamente contro l’occupante – adesso si glorificano la vita sregolata, il desiderio di consumo e il sesso, ma soprattutto si esaltano i miti popolari in chiave del tutto nazionalistica. Inizia la guerra, nel 1991, e immediatamente la musica – tutta la musica – si mette al servizio della causa della propria fazione di appartenenza, ed è ora la musica popolare, quella dei narodnjaci, a prevalere.
I Rimtukituki, super-gruppo belgradese formato da membri di vari gruppi (tra cui Ekatarina Velika, Električni Orgazam e Partibrejkers) e nato con l’intento di promuovere idee pacifiste e di opposizione alla guerra, cantano nella loro canzone più famosa, conosciuta sia col nome di “Slušaj ‘vamo” (“Ascolta qui!”), sia con quello di “Mir, brate, mir!” (“Pace, fratello, pace!”): “Nećemo da pobedi narodna muzika!”, “Non vogliamo che vinca la musica popolare!”. Eppure, la musica popolare vince e si fa portavoce del più becero nazionalismo, della più pericolosa esaltazione e mitizzazione della guerra. Prendendo il caso della Serbia o delle aree abitate dai Serbi, perché è in questi luoghi che la musica popolare neo-composta si sviluppa e ha più successo, questo genere diviene uno dei mezzi più potenti per veicolare messaggi politici, per “educare” il popolo, per creare un nuovo immaginario nazionale che giustifichi la guerra, basandosi spesso, comunque, sulle frustrazioni e sui traumi nazionali, nonché sulle paranoie e su uno spesso patetico vittimismo.
A molti sono note, grazie a Internet, quelle canzoni di guerra cantate in video girati con videocamere amatoriali di scarsa qualità, in cui soldati dai volti loschi decantano le gesta “eroiche” di unità dai nomi fantasiosi come “Le Pantere” o “Le Tigri”, o semplicemente elogiano il sacrificato e odiato da tutto il mondo popolo serbo, che ora, per evitare il presunto sterminio, è impegnato in quella che il cantante/militare Branko Trifković, nella sua canzone misto di hip-hop e musica popolare serba Srbi-Supermeni (“Serbi-Supermen”), definisce “guerra santa”. Lo sfacciato Baja “Mali Knindža” addirittura, nella sua famosissima canzone Ne volim te Alija (“Non mi piaci, Alija”, riferito ad Alija Izetbegović, primo presidente della Bosnia ed Erzegovina) fa riferimenti a luoghi dove sono avvenuti massacri ai danni di civili bosniaci da parte dei militari dell’Esercito della Republika Srpska (“Bole li te Brčko i Bijeljina/Drhte ruke oko Banja Luke”, “Ti fanno male Brčko e Bijeljina?/Tremano le mani (dei musulmani, NdA) intorno a Banja Luka”, ma anche “Pitaš li se kako li je sada/ kod Goražda i kod Višegrada?”, “Ti chiedi come va adesso/ dalle parti di Goražde e di Višegrad?”).
La musica è sempre lo specchio del tempo, del momento storico in cui essa si sviluppa, perciò, se guardiamo i territori della Jugoslavia che fu a inizio anni ’90, con le guerre, con la decadenza morale, politica e culturale, con la miseria e con il caos dilagante, non possiamo sorprenderci troppo del fatto che, almeno in tale contesto, la novokomponovana muzika abbia avuto il successo che ha avuto. È necessario però ravvedersi, perché adesso questa musica, che ormai non parla più solo di amori impossibili o di tematiche spicciole da villaggio, ma riflette il disordine di una società che, oltre che con la guerra, sta avendo a che fare con la difficile da un sistema socialista ad uno capitalista, non è più semplicemente novokomponovana. È adesso, infatti, che si può finalmente parlare di turbofolk, termine usato per la prima volta dal cantante montenegrino Rambo Amadeus per descrivere ironicamente della propria musica – che in realtà tutto è tranne che turbofolk. Come parlare, però, di turbofolk senza nominare il simbolo di questo tipo di musica – di questa filosofia di vita, se vogliamo – ovvero Svetlana Ražnatović, meglio conosciuta come Ceca?
Ceca nasce a Žitorađa, nel sud della Serbia, e fin da piccola dimostra abilità nel canto, esibendosi non ancora adolescente presso un hotel in Montenegro, durante una vacanza estiva coi genitori. Verso la fine degli anni Ottanta spicca il volo nell’industria musicale, ottenendo un discreto successo, ma è con gli anni Novanta e l’inizio della guerra che Ceca diventa la cantante, l’incarnazione del turbo-folk. Željko Ražnatović, detto Arkan, è un criminale ormai da tempo noto ai servizi segreti Jugoslavi, coi quali infine collaborerà, che nel contesto delle guerre jugoslave aveva saputo ritagliarsi la propria fetta di successo creando la sua personale unità “d’élite”, le Tigri, formata principalmente da avanzi di galera e da ultras della Stella Rossa Belgrado, divenendo così uno dei signori della guerra più conosciuti, soprattutto per i crimini atroci. Arkan ha aperto per le sue Tigri un centro di addestramento a Erdut, un silenzioso villaggio sul Danubio, all’estremità orientale della Croazia, nella quale lui fa il buono e il cattivo tempo. Ceca viene invitata da Arkan, nel 1993, a cantare per le sue Tigri. È l’inizio di un grande amore: Arkan, sposato, lascia la moglie e nel gennaio del 1995 chiede la mano a Ceca, con cui si sposa un mese dopo.

Il matrimonio tra i due è emblematico per capire lo spirito dell’epoca in Serbia: diviene un evento di portata nazionale, glorificato dalla televisione, benedetto da Milošević che vi si reca in persona, filmato e distribuito nei negozi di videonoleggio, rivelandosi una delle cassette più comprate del decennio in Serbia. Milioni di serbi si appassionano alla storia d’amore tra una cantante e un criminale. Ceca, a causa del suo amore con Arkan, che per la propaganda di Milošević è un eroe, un difensore dei serbi e delle terre serbe, diviene famosissima, e viene letteralmente idolatrata. Ma perché tutto ciò? Perché un popolo adora coscientemente un criminale e la cantante che lo ha sposato, e che è al corrente delle sue attività criminali?
Nel 1981, in piena crisi post-Tito, il gruppo zagabrese Prljavo Kazalište cantava: “U teška vremena, treba imati noge za plesanje” (“Nei momenti difficili, bisogna avere le gambe per ballare”). Il popolo serbo, agitato dalla propaganda statale e dalla mitizzazione della “guerra santa”, ma anche strangolato dalle sanzioni, messo in ginocchio da un’economia e da uno stato sull’orlo del collasso, si affida al turbofolk e all’immaginario che questo offriva perché, semplicemente, ne ha bisogno. Il turbofolk non è solo un tentativo di risollevare il morale, di dare forza (che poi, quanto esso ci sia riuscito è discutibile) o di esaltare la nazione, ma è anche un modo per sognare, per sperare in uno stile di vita più prospero, in una vita più leggera e senza problemi. Come detto in parte prima, infatti, il turbofolk esalta anche il consumismo, la vita sfrenata, sregolata e anche lussuosa. Sebbene ci sia una grande avversione per gli Stati Uniti, è a essi che chi fa questo tipo di musica guarda. Tutti, insomma, vogliono la propria, piccola e personale America.
Gli anni ’90, in Serbia, come anche in Croazia e in Bosnia, spesso definiti mračne devedesete (“i bui anni Novanta”), sono quel periodo perfettamente descritto da film come Rane (“ferite”), di Srđan Dragojević, dove si descrive la vita sporca e cruda nella Belgrado ai tempi di Milošević, in quella città dove per un decennio e oltre hanno fatto il buono e il cattivo tempo criminali la cui fama ancora oggi permane per le vie della metropoli balcanica. Questi criminali (tra cui Arkan, appunto), sebbene rappresentino il simbolo di un periodo orrendo, incarnavano il successo agognato da un’epoca intera. Con le loro macchine di lusso, coi loro vestiti sgargianti, con le loro collane d’oro, con le loro pistole (sempre pronte a sparare) in tasca e circondati da belle donne, questi spavaldi gangster adesso erano il modello da seguire.
Ritornando a Ceca, è importante notare che la sua fama si estenda in tutti i Balcani, anche (stranamente, direbbe qualcuno) in Croazia. In Croazia l’ascoltare le cajke (altro termine per indicare coloro che fanno musica turbofolk o di generi affini) è diffuso, soprattutto tra i giovani: la maggior parte delle discoteche le comprende nei propri repertori e non sono solo le cajke locali a far gola al giovane pubblico croato, ma anche quelle serbe, ad esempio, e tra le più famose c’è appunto lei, la già citata regina del turbofolk – Ceca. Ceca, prevedibilmente, in Croazia è considerata persona non grata – in via ufficiale, tra l’altro. Causa di ciò fu appunto il matrimonio con Arkan, di cui lei fu moglie fedelissima, e – forse – anche il fatto che col tempo non si sia affatto impegnata nel distaccarsi dalle gesta del consorte. Anzi, non ci ha proprio provato. Sono stati molti i procedimenti giudiziari contro di lei, soprattutto per questioni legate alla sua collaborazione con la mafia belgradese, agli affari loschi del marito lasciati irrisolti che lei ha portato avanti e, caso più clamoroso di tutti, per la presunta collaborazione all’omicidio dell’ex presidente serbo Zoran Đinđić, ucciso nel 2003 a Belgrado. Eppure, come si diceva, Ceca rimane popolarissima. Il suo stile di canto e il suo look, il suo modo di truccarsi e di vestirsi molto appariscente, che tende ad esaltare e a rendere più spigolose e severe le forme del viso e del corpo, hanno ispirato e continuano ad ispirare nuove e vecchie leve del turbofolk, in tutta l’Ex Jugoslavia.

Non è comunque un tema facile, quello del turbofolk. La poc’anzi nominata Croazia ne è un ottimo esempio, perché spesso si sollevano dibattiti – soprattutto da parte di associazioni di veterani o da esponenti di partiti come l’HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica, Unione Democratica Croata) – su quanto sia sano o meno per i giovani figli della Croazia ascoltare una musica nata in un paese “nemico”. “È per questo che abbiamo combattuto, per vedere i nostri figli ascoltare queste cajke?” dicono spesso veterani e politici, il cui sdegno non si rivolge solo ad autori o autrici provenienti dalla Serbia, ma anzi, si concentra in special modo sulle cajke domestiche!
Ci si potrebbe chiedere: ma la novokomponovana (anzi, novokomponirana, per rispettare la formazione standard croata dei verbi all’infinito di origine latina o comunque straniera) muzika in Croazia non è esistita? Non si è essa poi, come in Serbia, evoluta in turbofolk e ha sposato la causa nazionalista? Certamente la Croazia ha avuto la propria musica popolare, ma sebbene i temi fossero pressoché uguali a quelli delle canzoni dei narodnjaci serbi o bosniaci, lo stile e, soprattutto, le performance erano nettamente diversi. Complici suoni dolci di mandolino o tamburica che accompagnano la nostalgica musica dalmata, dello Zagorje o della Slavonia, e complice anche il fatto che la Croazia ha avuto storicamente influenze ben diverse da quelle di Serbia e Bosnia, la musica popolare croata si prestava meno a sfociare in quello che oggi definiremmo trash, come invece è accaduto in Serbia. Il turbofolk in Croazia, infatti, si è affermato anni dopo la fine della guerra e non è stato il risultato di un’evoluzione, bensì di un’importazione, possiamo dire – in questo caso dalla Serbia. Chiaro, il pop croato di gruppi come i Novi Fosili, dei Magazin o dei tardi Prljavo Kazalište (che nella prima metà degli anni ’80 passano dal punk-new wave alla musica commerciale e mainstream) non si può definire come il più impegnato dei generi, ma è più vicino ad un modo naif e bonariamente adolescenziale di fare musica, e non può essere definito, come è avvenuto per la novokomponovana muzika, “musica da kafana”. Sono canzoni spensierate che si prestano a diventare piccoli tormentoni estivi o leggeri accompagnamenti per serate in discoteca, nulla più. Eppure, proprio la musica dei citati Prljavo Kazalište diviene una delle voci del fermento politico e sociale in Croazia di fine anni Ottanta/inizio anni Novanta.
Nel 1988, come parte del loro album Zaustavite zemlju! (“Fermate la terra!”), esce la famosa, famosissima Ruža hrvatska (“Rosa croata”). Probabilmente pensata dallo scrittore della canzone, Jasenko Houra, come dedica alla madre morta (di nome Ruža, appunto), questa canzone fece enorme scalpore. Acclamata in Croazia e catalogata come una delle migliori canzoni patriottiche della storia del paese (a suscitare particolari emozioni, ma anche incomprensioni, la frase Zaspala je zadnja ruža hrvatska”– “Si è addormentata l’ultima rosa croata”), criticata e tacciata di nazionalismo nel resto del paese. Questa canzone è il motivo per cui, il 17 ottobre 1989, dalle 200.000 alle 300.000 si radunarono nella piazza principale di Zagabria per assistere al concerto del gruppo. Ma questa, come anche altre canzoni degli stessi Prljavo Kazalište (come ad esempio “Lupi petama, reci evo sve za Hrvatsku!”, “Picchia in terra (coi piedi), di’ ‘tutto per la Croazia!’”), degli Psihomodo Pop, dei Film – i quali hanno pubblicato una delle più belle canzoni contro la guerra dello scenario ex-Jugoslavo, “Ej, moj druže beogradski” (“Ehi, mio compagno belgradese”), che parla dell’amicizia perduta a causa della guerra, della nostalgia per la vita spensierata prima di essa e dell’amicizia che legava serbi e croati – o di molti altri gruppi, non è un esempio di musica che si presta alla retorica nazionalista e militaresca. Si tratta di un patriottismo facile, che punta ai cuori della gente in maniera diretta, semplice, che alterna toni drammatici a toni dolci per far breccia nelle coscienze degli ascoltatori. Canzoni come “Moja domovina” (“La mia patria”) sono certamente state usate a fini politici – quest’ultima ancora oggi è usatissima ed elevata quasi a rango di inno non ufficiale –, ma sono inoffensive nel contenuto, in realtà. Sono state prodotte da artisti già da tempo affermati, che una volta finito di registrare la canzone o l’album sulla guerra o sull’amore per la propria nazione sono tornati a fare la musica di sempre. Diverso è l’esempio di Thompson.
Marko Perković, detto Thompson (nome del mitra che portava appresso durante la guerra), nasce nell’entroterra dalmata, nel piccolo villaggio di Čavoglave, nel 1966. Dichiaratamente ustaša (e, dunque, fascista e ultranazionalista), è col nome del suo villaggio natale che intitola la canzone, scritta di getto per alzare il morale dei suoi commilitoni nel 1991, che lo renderà famoso. “Čavoglave” o “Bojna Čavoglave“(“Battaglione Čavoglave”) è la canzone di guerra croata per eccellenza. Il testo ci narra le gesta di questi soldati croati che si lanciano all’assalto contro i serbi per difendere la loro terra natìa, ma il vero nazionalismo in questa canzone non c’è, non ancora, ma Thompson non la manda a dire: “Čujte srpski dobrovoljci, bando četnici: stići će vam naša ruka i u Srbiji!” (“Ascoltate, volontari serbi, banda di četnici: la nostra mano arriverà fino in Serbia!”). La canzone, dal ritmo incalzante, energico, è un successo clamoroso, tanto da essere imitata anche in Bosnia (“Sarajevske Čavoglave”, “Le Čavoglave di Sarajevo“). Viene cantata ovunque, da civili e militari, perché dà forza, dà speranza con le parole finali: “Oj Hrvati, braćo mila, iz Čavoglava!/ Hrvatska vam zaboravit’ neće nikada – neće nikada!”, “Oh, Croati, cari fratelli di Čavoglave! / La Croazia non vi dimenticherà mai – mai!”. I guerrieri di Čavoglave divengono il simbolo di tutti i guerrieri di tutta la Croazia e Thompson dice loro quel che vogliono sentire: “Anche se così sembra, non verrete dimenticati, i vostri sforzi non saranno vani”.
In seguito, Thompson perde ogni freno inibitore e si scatena, decantando le mitiche origini sacre del popolo croato (ad esempio in “Dolazak Hrvata”, “L’arrivo dei Croati”) o tornando al tema della guerra in “Anica, kninska kraljica” (“Annetta, la regina di Knin”), dall’inconfondibile inizio: “Zbog Anice i bokala vina, / zapalit’ ću Krajinu do Knina”, “Per Annetta e un boccal di vin, / darò fuoco a tutta la Krajina fino a Knin”. Successivamente alla guerra, pur conservando un’enorme fanbase e riscuotendo sempre un grande successo, Thompson perde terreno e pubblico, ora composto perlopiù da nazionalisti dichiarati e da neo-fascisti, e si dedica, oltre che a canzoni patriottiche innocenti come “Lijepa li si”, “Ma che bella che sei”, bellissima, invero, canzone sulla Croazia e le sue bellezze, anche a glorificare il genocidio ai danni dei serbi durante la Seconda guerra mondiale, come in “Jasenovac i Gradiška stara” (dai nomi di due famigerati campi di concentramento ustaša).

Assieme a Thompson, a fare da colonna sonora alla Croazia nel pieno della guerra di indipendenza ci sono anche Đuka Čaić, Ivo Fabijan o canzoni come “Mi smo Garda hrvatska!”. Il primo, originario di Zagabria, è il corrispettivo perfetto di quei cantautori serbi di guerra citati prima, perché nella sua famosissima e ascoltatissima canzone “Hrvatine” (“I Croati”) unisce il nazionalismo che fa leva sulla santità del popolo croato e sulla natura demoniaca del nemico “jugocomunista” (“Jugo-vojska mora znat: Hrvatska će dobit rat, uza nas su svetinje, a s kime su prokletinje?”, “Lo Jugo-esercito deve sapere: la Croazia vincerà la guerra, con noi sono i santi, e con chi è che sono i demoni?”), l’ideologia ustaša della “Grande Croazia” che comprende anche la Bosnia e i territori abitati dai musulmani (“Ovo je zemlja Hrvatska, i od Boga, i Allaha!”, “Questa è la terra di Croazia, e di Dio, e di Allah!”) ad una musica che palesemente ricorda le marce militari tedesche della seconda guerra mondiale. E marcia militare è “Mi smo garda hrvatska!”, che nazionalista non è, ma ha avuto un ruolo centrale nell’instillare il mito della guerra e lo spirito militaristico nella popolazione croata. Il citato Ivo Fabijan Mrvelj, erzegovese e di tendenze filo-ustaša, canta spesso appropriandosi di dialetti non suoi (come col dialetto dalmata di Sebenico nella canzone “Šibeniče stoput hvala”, “Oh, Sebenico, cento volte grazie”), probabilmente per ingraziarsi la maggior fetta di pubblico possibile, e si serve della retorica dei sacri figli della madre patria che si immolano per difenderla dopo anni di soprusi e di ingiustizie.
Sebbene la musica di guerra croata abbia uno stile ben diverso da quella serba, non sono così diversi i contenuti, la retorica e i toni – questi spesso esageratamente vittimistici, drammatici, patetici e rinneganti il passato unitario nella cornice Jugoslava. Eppure, questa musica che a volte oggi ci fa sorridere è stata l’arma più potente delle parti in campo durante le guerre Jugoslave; è stata più potente di qualsiasi discorso infiammato davanti a enormi folle, è stata più potente di cannoni, aerei e mitra. Essa è entrata nei cuori e nei cervelli delle persone nel modo più subdolo possibile, ammaliando con melodie care, casalinghe, conosciute e amate la popolazione, che si è lasciata trasportare da quel turbine caotico e micidiale di eventi forse nel modo più dolce e leggero che si può immaginare: cantando. Perché come si può, anche se il nostro vicino di casa è appena stato ammazzato, anche se adesso vogliamo diamo la caccia a quello che era il più caro dei nostri amici, anche se la nostra casa sta andando a fuoco, avere un peso nel cuore, se è la musica ad accompagnare tutto?
Bellissimo tutto e molto doloroso sentire oddio tra croati e serbi in una cornice dove la politica e la musica sono inseparabili. La musica usata come propaganda.