Tra la varietà di voci emerse negli ultimi anni all’interno del panorama letterario internazionale, quella di Pajtim Statovci è una delle più interessanti. Dopo il successo riscosso con Tiranan Sydän (edito in italiano lo scorso anno da Sellerio Editore con il titolo Le Transizioni), definito da Kapka Kassabova sul Guardian come una fenice letteraria che risorge dalle ceneri del secolo precedente, nel 2019 è stato pubblicato Bolla, l’ultimo suo romanzo edito recentemente in Italia da Sellerio Editore con il titolo Gli invisibili.
Ne Gli invisibili fondamentale è il chiarimento del titolo originale, in cui Statovci spiega cosa egli intenda con il termine “bolla”, assegnandovi tre significati: lo identifica come bestia diabolica, come animale di aspetto simile al serpente e come straniero. Già in questa breve chiarificazione è possibile scorgere molti di quei temi ricorrenti all’interno della prosa dell’autore, nonché una sintesi in cui si esplicita l’anima dell’opera in questione. Rispetto ai due romanzi precedenti, questo si presenta in una forma differente. Divisa in tre sezioni, la narrazione si snoda attraverso una vicenda che riguarda i due personaggi principali, Arsim e Miloš. La modalità attraverso cui questa viene costruita è, però, tutt’altro che lineare, sia in riferimento alla componente temporale sia per quanto riguarda la voce narrante. Il romanzo si apre con un’immagine particolarmente cruda della guerra, esempio calzante del modo in cui Statovci è solito affrontare temi così delicati:
“22 gennaio 2020
Ho visto uccidere un uomo, ho visto sulla strada il braccio di un soldato, sembrava un luccio cavato fuori dalla terra, ho visto fratelli separati alla nascita, case bruciate ed edifici crollati, finestre sfasciate, stoviglie rotte e roba rubata, tanta di quella roba che non crederesti a quanta ne rimane quando la vita tutt’attorno è presa a calci, anche gli oggetti muoiono quando vengono sottratti al loro proprietario.”
Poche pagine più avanti ha inizio il primo capitolo, dove il cambiamento della voce narrante viene segnalata anche graficamente, nonostante questo aspetto non sia comprensibile in modo immediato. Dalla voce di Miloš si passa a quella di Arsim, che si concentra immediatamente sul loro primo incontro. Questo doppio piano della narrazione viene distinto, oltre che dall’aspetto grafico, anche dal punto di vista del genere. Un espediente letterario nuovo in Statovci è quello di sperimentare coi generi letterari mischiandoli fra loro: se Arsim è il narratore interno, Miloš è l’autore di un diario. L’unico aspetto che accomuna le due voci è la profonda intimità con cui si esprimono, mentre si differenziano per altri aspetti. Difatti, se nel caso di Arsim si assiste a una narrazione lucida, in quello di Miloš si ha una rielaborazione degli eventi sempre più lacunosa, a cui manca talvolta una continuità, a simboleggiare in qualche modo il suo progressivo deterioramento psicologico. Questa sperimentazione del genere si mostra anche in un altro passaggio, un framezzo in cui viene inserito un racconto (nel romanzo definito come “una storia”) che Arsim legge a Miloš durante uno dei loro incontri notturni. Questo, dal titolo La ragazza e l’essere, si rivela un passaggio chiave di tutto il romanzo, in cui non solo si notano elementi importanti come la questione della paura, ma che può essere anche letto come una sorta di rappresentazione allegorica, sintesi di tutta la vicenda. Esso rappresenta, inoltre, uno dei momenti più intimi tra i due protagonisti, soprattutto dal punto di vista di Arsim:
“‘Me la leggi?’. La sua richiesta sulle prime mi disturba, ma non ci metto molto a cedere, perché è proprio quello che stavo aspettando. Che altro vuol dire scrivere, penso, se non essere disposti a tutto, farsi del male e accettare la propria incompiutezza, come attraversare una piazza affollata completamente nudo?”
Le opere di Statovci hanno la caratteristica di presentarsi come uno spazio in cui ogni elemento viene incasellato al suo posto, creando un equilibrio che, però, è tutt’altro che statico. Difatti, una volta inseriti in una complessa maglia narrativa, questi elementi hanno la tendenza a riproporsi secondo una ciclicità di senso tipica del romanzo. In questo modo, anche La ragazza e l’essere si ripresenta sia nel diario di Miloš, sia alla fine del romanzo. Ritornando all’alternanza delle due voci narranti, la contrapposizione tra il punto di vista razionale di Arsim e quello laconico di Miloš contribuisce a realizzare l’immagine delle due controparti, che non vengono mai veramente descritte dal punto di vista fisico. Arsim si limita a descrivere Miloš attraverso il contatto fisico e i movimenti, egli compare sulla scena attraverso un gesto: “La prima volta lo noto mentre attraversa la strada.”
Volendo azzardare un paragone, questo espediente narrativo della gestualità è molto simile a quello impiegato da Milan Kundera ne L’immortalità, dove Agnes nasce a sua volta da un gesto, quello della mano che saluta.
Nella prosa di Statovci è fondamentale il contesto in cui trova luogo l’azione. In particolare, due sono gli elementi maggiormente enfatizzati: lo sfondo storico e le ambientazioni, profondamente intrecciate, che influenzano e rispecchiano la condizione psicologica dei personaggi. Pensando ad esempio a Le transizioni, si nota come i continui spostamenti di Bujar, nome con cui si identifica all’inizio del romanzo, corrispondono in qualche modo alla sua perenne possibilità e volontà di trasformarsi. Nel caso di Kissani Jugoslavia (il primo romanzo dell’autore edito in italiano da Frassinelli col titolo L’ultimo parallelo dell’anima) e de Gli invisibili è possibile riscontrare come si ripropongano diverse caratteristiche di Pristina, la capitale del Kosovo. In particolare, Statovci si cura sempre di mettere in rilievo due immagini della città, ovvero quella che resta nel ricordo di chi parte e quella che chi torna (non) ritrova. Tanto in Arsim quanto nel Bekim protagonista di Kissani Jugoslavia c’è impresso il ricordo di un Kosovo sull’orlo del baratro. Questa, tuttavia, è una proiezione (quasi) orrorifica che convive con un’idea di tornare, un giorno, a una bellezza che non si crede possa davvero scomparire. Il ritorno rappresenta in entrambi i casi un vero e proprio crollo delle illusioni, la constatazione che la guerra e la violenza hanno spazzato via quello che alla Zweig si potrebbe definire un “mondo di ieri”. Arsim, quando torna da solo a Pristina dopo aver scontato un anno di carcere, si accorge di quanto le strade della città siano devastate e cosparse di desolazione. Durante il viaggio in taxi osserva, con sgomento, che sembri sia passato un uragano: edifici scoperchiati, di cui rimangono solo le fondamenta, spazzatura che brucia sui marciapiedi e, intorno, campi aridi. Sembra non arrivare una quiete nella Pristina dopo la tempesta, ad Arsim non appare l’artigiano leopardiano intento a mirar l’umido cielo. Nell’immagine dell’uragano, inoltre, riecheggia un altro passaggio contenuto in Kissani Jugoslavia:
“[…] non c’era alcun dio. C’era la guerra, e la guerra era come una fila di uragani che sia alzavano da terra uno dopo l’altro, e la guerra era come una serie di maremoti che ingoiavano edifici, villaggi, città, uno tsunami di acqua che li amalgamava in un impasto prima di sputarli fuori.”
Da questo punto di vista, se si vuole, Le transizioni si discosta dagli altri due, sebbene questa differenza sia solo apparente. Scavando più in profondità nei testi, infatti, si scopre la presenza di moltissime consonanze tra il Kosovo e l’Albania di Burjan, un paese ancora segnato dalla dittatura di Hoxha:
“E ci sono posti dove Hoxha continua ad esistere, nelle parole e nelle frasi con cui si rivanga il passato, nei cappelli che alcuni uomini si levano prima della preghiera di ringraziamento, grazie a dio quei tempi sono finiti, graie a dio quell’uomo è morto, dicono, per poi rimettersi il cappello in testa senza capire che proprio in quel gesto Hoxha vive ancora.”
A questi paesaggi esterni, segnati in modo indelebile dal corso della Storia, fanno da contraltare le ambientazioni interne. Anche in questo caso è possibile ritrovare degli elementi ricorrenti, esse sono infatti spesso descritte come dei luoghi angusti, coperti di muffa e in cui si respira a malapena. Richiamando in modo fortissimo gli spazi dostoevskiani, Statovci vi inserisce scene di carattere eterogeneo, dagli incontri sessuali ai momenti di disperazione e disorientamento. Queste scene si rivelano essere occasioni per indagare con occhio più attento il tema della solitudine, che se in Arsim viene in un qualche modo accettata, in Miloš, mischiandosi al sentimento di abbandono, porta a scelte irrimediabili come quella di arruolarsi. Il sostrato storico è sempre preciso nell’opera dell’autore, che sceglie come ambientazione un passato che deve ancora trovare una sua chiarificazione e che rappresenta una ferita ancora sanguinante. Come affermato da Statovci stesso all’interno di un’intervista, la sua non è da vedersi come la volontà di fornire una visione definitiva degli eventi, ma piuttosto come un tentativo di insistere su una rielaborazione che deve ancora avvenire. Allo sfondo storico si lega la rappresentazione della guerra, in particolare della violenza, e nel descriverla Statovci sceglie di consegnare al lettore una versione tutt’altro che mitigata. Alla componente della violenza si lega il sentimento della paura, che in Gli invisibili viene particolarmente enfatizzato: la paura permea il romanzo secondo angolazioni diverse, dilaga tra la popolazione, si respira nelle strade di Pristina tanto quanto nella stanza di Arsim. La paura è collettiva e individuale, rende opaco un mondo che si è solo illusoriamente convinti di conoscere. Sfuggire alla paura e alla violenza non è che un tentativo destinato a fallire, un’illusione che nel romanzo porta il nome della cittadina marittima di Dulcigno:
“La devastazione che infuria intorno a noi diventa un segreto, parlarne significa darle un volto, mentre il silenzio divora quel che resta dell’estate come una manciata d’aria.”
Questa idea dell’impossibilità di trovare un luogo sicuro, estraneo alla violenza, si mostra quando Arsim si chiede se possa realmente esistere un eden, domanda che si ricollega all’idea già espressa in Kissani Jugoslavia quando viene messa in discussione la presenza di un qualche dio. Il Kosovo descritto dall’autore è una terra in cui all’interno dell’immaginario comune il concetto di Dio è stato definitivamente soppiantato da quello di idolo – con la sola differenza che gli idoli non bastano a ritrovare la speranza tra il caos delle macerie. Statovci mette in scena i conflitti politico-culturali che hanno devastato la regione del Kosovo – non a caso Arsim è di etnia albanese mentre quella di Miloš è serba. Nonostante ciò, la distanza tra i due viene superata attraverso una scelta linguistica, ovvero quella di adottare l’inglese per comunicare, come espresso dalle parole di Arsim: “Parlando inglese non siamo né albanesi né serbi”. Interessante è, dunque, il modo in cui l’autore tende a colmare le distanze presenti nei suoi romanzi, sebbene non si arrivi mai a una vera e propria conciliazione tra le due controparti, tra le quali permane sempre una tensione, l’impossibilità di giungere a un equilibrio. Nel caso di Gli invisibili, infatti, la relazione tra i due protagonisti viene bruscamente interrotta nel momento in cui le rispettive vite vengono inghiottite dai rivolgimenti storici.
“E che scopo ha la vita della qualche non riusciamo mai a scorgere il corso?”, si legge nel racconto L’acqua scorre come scorre dello scrittore bosniaco Mirko Marjaković. Il tentativo di rispondere a questa domanda si rivela essere di primaria importanza anche all’interno delle opere di Statovci. Nel presentare i personaggi, vengono delineate identità sospese in un tempo ridotto in macerie. Nell’analizzare questa problematica, vengono adottate prospettive differenti. In primo luogo, il problema dell’identità si manifesta in riferimento al tema della sessualità. In Le transizioni si assiste allo sviluppo di un personaggio cui appartiene un’identità liquida, in continua trasformazione: “sono un uomo che non può essere una donna, ma che volendo potrebbe sembrarlo ed è il meglio che so fare, giocare a travestirmi, e decido io quando iniziare e quando smettere.” (p.13) Inoltre, questa identità camaleontica – usando un termine caro a Statovci – viene identificata nel romanzo grazie alla scelta di impiegare in originale il pronome di terza persona neutro, aspetto che in traduzione si perde completamente. Nonostante la libertà, nonché il ricercato senso di non-appartenenza, che questa condizione comporta, il prezzo da pagare è comunque elevato, sia nello scontro con le proprie menzogne che nel confronto con l’altro.
Nel caso di Arsim, invece, si potrebbe parlare di un’identità scissa tra la vita che egli pensava di volere e quella che, improvvisamente, irrompe nella quotidianità. L’incontro con Miloš rappresenta il punto di rottura e la scoperta di un nuovo lato della propria sessualità. L’entusiasmo inziale arreca anche la dimensione di una crisi data dalla necessità di dover scegliere. Non riuscendovi, ad Arsim non rimane altro se non iniziare una doppia vita, che non lo abbandonerà mai durante il corso del romanzo, fino alla fine in cui rimarrà svuotato di entrambe e destinato a una stasi della vita.
In Kissani Jugoslavia si assiste a un processo differente di conquista della propria identità, vale a dire attraverso due percorsi. Il primo, ha a che fare con la questione sessuale, ovvero la necessità di divincolarsi dalle influenze esterne. Il secondo è legato, invece, al recupero delle proprie origini. Al secondo si lega un tema molto caro a Statovci, ovvero quello dell’emigrazione. All’indomani dello scoppio della guerra in Kosovo molte famiglie, principalmente di origine albanese, si sono viste costrette a prendere la decisione di abbandonare la propria terra. Statovci problematizza spesso la condizione dei figli di coloro che hanno preso questa decisione. Accanto all’analisi della condizione dello straniero, viene sottolineata la preoccupazione di come i figli svilupperanno un rapporto con le proprie radici e con la lingua – in questo caso specifico la lingua albanese. Si assiste, in Kissani Jugoslavia, alla preoccupazione del padre di Bekim: “Sono preoccupato – disse – preoccupato del fatto che un giorno non sarai affatto un albanese, ma qualcos’altro. E allora andrai all’inferno”. La stessa preoccupazione si manifesta in Arsim e Ajshe dopo essere giunti in Bulgaria: “[…] la vita dei nostri figli avrebbe qualcosa di sospeso o decisamente carente, sarebbe poco sana e incompiuta per causa nostra, perché ci siamo trasferiti qui fuggendo dalla guerra. Il fatto che i nostri figli parlino fluentemente lingue diverse, abbiano abitudini e credenze differenti non sembra un arricchimento della loro vita, al contrario”. Alla preoccupazione del legame delle generazioni future con le proprie radici si lega l’insistenza con cui il padre di Burjan, all’inizio de Le transizioni, racconta al figlio le storie legate alla figura mitica di Skanderbeg. L’elemento tradizionale permea anche la prosa di Statovci, mescolandosi a un sistema di simboli in continua evoluzione, come nel caso del serpente: se in Kissani Jugoslavia si assiste all’uccisione dell’animale in una danza mortale, ne Gli invisibili si libera, invece, da una “prigione” che lo annichilisce.
Ne Gli invisibili solo Ajshe, che incarna la figura di una donna fedele al concetto di famiglia e al rapporto con il marito, riesce a conquistare un equilibrio. Difatti, è la sola a prendere una decisione definitiva e a uscire dal caos della storia. In particolare, Ajshe prende una scelta di indipendenza dal marito alla fine del romanzo, nonostante la conseguenza dolorosa di dover lasciare definitivamente Pristina e rinunciare a tutti gli ideali a cui era sempre stata legata. Sebbene destinata a occupare un ruolo di secondo piano all’interno dell’opera, il personaggio di Ajshe non è unicamente funzionale alla vicenda di Arsim, e si assiste comunque a una sua evoluzione positiva.
Per concludere il discorso relativo al tema dell’identità, ci si potrebbe chiedere quanto la produzione dell’autore sia permeata dalla componente autobiografica, tanti sono gli elementi in cui si possono scorgere delle analogie, basti pensare alla questione dell’emigrazione e del consecutivo rapporto con le proprie origini. Come riposta si può riprendere, ancora una volta, quanto detto da Statovci in un’intervista. Egli spiega come sia inevitabile, infatti, riscontrare nella sua opera un legame con la vicenda che ha segnato la sua famiglia. Nonostante ciò, non c’è nulla di esplicitamente autobiografico nelle vicende vissute da un Bakim o da un Arsim. Riconfermando il suo status di rivelazione all’interno della scena letteraria contemporanea, Statovci mostra anche un’incredibile continuità nelle sue opere. Evidente è la sua capacità di riuscire a concentrare la riflessione attorno a un problema quanto mai importante come quello dell’identità, sviscerandola secondo prospettive diverse. Che sia liquida o scissa, questa risulta a sua volta profondamente connessa con dinamiche che non riguardano l’individuo nel suo spazio limitato, ma come parte di una collettività, nonché della Storia di cui è al tempo stesso vittima e artefice.