Jiří Orten, il poeta morto per un’ambulanza nazista

Siamo nel primo giorno di settembre del 1941: Praga ha da pochi mesi conosciuto la terribile presenza del nuovo governatore del Protettorato di Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich, temutissimo capo della Reichssicherheitshauptamt (RHSA, l’Ufficio Principale di Sicurezza del Reich), vivendo giornate di sanguinosa repressione e terrore. Ha compiuto 22 anni da un paio di giorni Jiří Orten, all’anagrafe Jiří Ohrenstein, poeta ebreo: un compleanno che arrivava in un modo infelice, a causa della denuncia ai suoi danni, perpetrata qualche giorno prima dal periodico antisemita Arijský boj, un corrispondente del tristemente noto Der Stürmer, uno dei principali giornali di propaganda nazista in Germania. Denunciato, perché poeta ebreo.

 

L’Arijský boj era un giornalaccio, noto per l’invenzione di scandali assurdi, come l’harem ebreo che la figlia di Tomáš Garrigue Masaryk, Alice Masaryk (accusata anche di essere omosessuale), avrebbe dato vita nella Rutenia subcarpatica; un giornalaccio che tuttavia con l’arrivo di Heydrich rischiava di essere complice di esecuzioni di massa, con denunce fittizie campate in aria prese per veritiere. Ci vorrà un anno prima che Reinhard Heydrich perdesse la vita in un attentato organizzato da inglesi e partigiani cecoslovacchi (che porterà all’eccidio nazista di 192 maschi di età superiore ai 15 anni, abitanti nel villaggio di Lidice, altra tragica storia della seconda guerra mondiale) ma in quel primo settembre del 1941 a perdere la vita fu Jiří Orten, che proprio nel giorno del suo ventiduesimo compleanno fu investito da un’ambulanza tedesca mentre attraversava la strada per comprare le sigarette, morte che arrivò dopo un paio di giorni di agonia, anche perché fu rifiutato dall’ospedale di Praga in quanto ebreo.

 

Una morte prematura di un poeta che poteva scrivere la storia, più di quello che riuscì a fare in soli 22 anni di vita. Nato a Kutná Hora, era cresciuto in una famiglia della middle-class cecoslovacca, con padre imprenditore e madre attrice di teatro; il fratello più grande divenne un drammaturgo e direttore teatrale con il nome di Ota Ornest, mentre il fratello più piccolo divenne un famoso attore dopo la Seconda guerra mondiale con il nome di Zdenék Ornest. Jiří Orten probabilmente sarebbe passato per le vie del teatro (aveva scritto qualcosa di sperimentale da ragazzino), ma non ha potuto mostrare il suo talento fino in fondo. Nonostante la giovanissima età è considerato uno dei maestri della giovane generazione poetica nata con il finire della Prima guerra mondiale, capace di scrivere poesie d’avanguardia caratterizzate dall’angoscia della sua condizione di artista ebreo perseguitato dalle leggi antirazziali: si servì di numerosi pseudonimi pur di pubblicare, tra cui Kerel Jílek e Jiří Jakub, partecipò attivamente alla creazione del gruppo di artisti Ohnice (Malerba), di cui faceva parte anche Josef Hiršal, famoso poeta e romanziere sperimentalista. Influì sulla sua vena poetica un viaggio di un mese che fece a Parigi, prima che scattasse il divieto di viaggiare – divieto compreso nelle leggi antisemite promulgate dopo l’occupazione tedesca – ma anche la turbolenta relazione con Vera Fingerová, anch’ella attrice teatrale, contribuì alle declinazioni romantiche che diede alle sue parole.

 

Su una bancarella di libri usati a Napoli ho trovato proprio una delle raccolte di poesia di Orten, in lingua originale, dal titolo Ohnice, pubblicata nel 1984 dalla Československý spisovatel Praha, con le illustrazioni di Pavel Sivko. La raccolta uscì nel 1941, anno della sua morte, con lo pseudonimo di Jiří Jakub. A colpire della sua poetica è la consapevolezza della tragedia dell’isolamento umano in una cornice immersa nella natura, che a poco a poco diventa anch’essa vittima del male: la natura si snatura, assumendo tonalità grigie, cupe. L’impressione è quella di trovarsi davanti ad un poeta navigato e non ad un ventiduenne, anche perché nelle sue poesie si percepisce la sua costante voglia di aggrapparsi ad un ricordo sfumato della sua infanzia, legato al paesaggio o alla sua famiglia, prima che sopraggiunga il male o la morte.

 

Una delle più belle poesie della raccolta è Čí jsem? (Di chi sono?)

 

Čí jsem?

Jsem plískanic a plotů
a trav, trav deštěm skloněných
a jasných písní bez klokotu
a touhy, jež je v nich.

Čí jsem?
Jsem malých oblých věcí,
jež nepoznaly hran,
jsem zvířátek, když hlavu věsí
a mraku, když je potrhán.

Čí jsem?
Jsem bázně, jež mne bere
do prstů průsvitných,
králíčka na zahradě šeré,
jenž zkouší si svůj čich.

Čí jsem?
Jsem zimy tvrdé plodům
a smrti, chce-li čas,
jsem lásky, s níž se míjím o dům,
dán za jablka červům na pospas.
Di chi sono?

Io sono dei piovaschi e delle siepi
e delle erbe chinate dalla pioggia
e della chiara canzone che non gorgheggia,
del desiderio che sta chiuso in lei.

Di chi sono?
Io sono di ogni piccola cosa smussata
che mai spigoli ha conosciuto,
dei piccoli animali che reclinano la testa,
sono della nuvola quando è straziata.

Di chi sono?
Io sono del timore che mi ha tenuto
con le sue trasparenti dita,
del coniglietto che in un giardino in penombra
esercita il suo fiuto.

Di chi sono?
Io sono dell’inverno ostile ai frutti
e della morte, se il tempo lo chieda,
io sono dell’amore, di cui sbaglio la porta,
al posto di una mela ai vermi lasciato in preda.

 

 

(Traduzione per “La cosa chiamata poesia”, Einaudi, 1969, di Giovanni Giudici e Vladimír Mikeš)

 

La vita appare senza futuro, senza prospettiva: “Siamo neve che cade senza fine, siamo una cascata congelata”, scriverà in una sua poesia. L’influenza principale è da riscontrare in Rainer Maria Rilke, ed infatti nelle sue pubblicazioni non mancano elegie. Orten sapeva di poter morire da un momento all’altro, che la sua vita era appesa ad un filo. Probabilmente non si aspettava che a spezzare quel filo sarebbe stata un’ambulanza, ma poco cambia. Che sia un’ambulanza, un campo di concentramento, una brutale esecuzione in piazza, l’unico luogo di rifugio diventa il nessunluogo. Ne parla in una struggente poesia, Odnikud, divisa in tre parti, da cui pubblichiamo la prima:

 

Odnikud, to je ráj,
to čiré blaženství,
kde není ošklivých,
kde ani krásných není,

ta sladká nicota,
to věčné povívání,
ta vrata do světla,
jež neuvidíš ani.

A přece zaživa
koluje ve mně cosi,
co potom zahnívá,
co vítr vzhůru nosí

a já, já změněný,
já, ptaní usmířené,
jdu tam, kde nejsou dny,
kde věčnost kola žene.
Danessunluogo è il paradiso,
la beata trasparenza,
dove nessuno è brutto,
dove nessuno è bello,

il dolcissimo nulla,
l’eterno lieve spirare,
la grande porta alla luce
che tu non potrai guardare.

Eppure nella mia vita
turbina in me qualcosa,
che un giorno imputridirà,
che il vento disperderà

e io, io cambiato,
io, domandare appagato,
vado dove non sono più giorni,
dove volvono eterne ruote.

 

(Traduzione per “La cosa chiamata poesia”, Einaudi, 1969, di Giovanni Giudici e Vladimír Mikeš).

 

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