Scrivere di letteratura della malattia in epoca di pandemia – anche se quasi passata – assume sempre i contorni sfocati del paradosso, soprattutto quando a scontrarsi sono i registri del collettivo e dell’individuale, il corpo come unico punto di contatto tra i due. C’è quella frase attribuita a Stalin, secondo la quale “una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica”, che rende piuttosto bene le implicazioni che dipartono dal contesto della malattia, sia essa una tragedia privata o collettiva. E c’è anche il problema della narrazione come rappresentativa di un inconscio politico sotteso nel tessuto sociale, che è stata tuttavia quasi sempre appannaggio dei sani.
Se penso alla letteratura della malattia, i classici hanno quasi sempre un timbro eroico, grottesco o persino assurdo nella loro trattazione dell’infermità, e c’è una differenza sostanziale tra il racconto della pandemia e della patologia individuale. Da un lato il canone occidentale include i resoconti letterari e storiografici dell’epidemia sin dall’epoca dei Greci, e il graduale cambiamento nella modalità di narrazione riflette quello del ruolo politico della malattia, che da vendetta soprannaturale attraversa i secoli nelle vesti di punizione inflitta alla comunità che palesa disordini e malcostume sociale, prima di mutare nella concezione romantica di espressione ultima della volontà dell’incubante.
Eppure in letteratura i corpi malati non fanno rumore. Non esiste grande letteratura sull’essere malati, affermava Virginia Woolf all’inizio di un Novecento e di una tradizione del romanzo moderno che culmina nel parossismo individuale di uomini – sempre uomini – eccezionali. La frattura in questo genere di narrazione sembra essere riconducibile al ruolo dell’individuo dopo la rivoluzione industriale, scrive Nicola Gardini nel suo saggio d’appendice a Woolf, dal momento che l’idea di malattia si è congiunta e in parte confusa di quella di identità. Solo allora la letteratura ha affermato che la malattia è tratto distintivo dell’uomo e della civiltà umana. Eppure è difficile non inorridire di fronte alla trappola dell’esaltazione della malattia come espediente letterario, come la più banale e dannosa delle metafore, nelle parole di Susan Sontag. Woolf tesse le lodi di un malato dai sensi elevati dalla patologia oltre l’umano, estremamente ricettivo all’anima ultima della poesia — ma resta ignara della semplice verità che vuole che la scrittura richieda non più soltanto una stanza, ma anche un corpo tutto per sé.
La mia tesi è che la malattia non è una metafora, scriveva Sontag, e che il modo più veritiero di concepirla – nonché il modo più sano di essere malati – è quello che meglio riesce a purificarsi dal pensiero metaforico, e a opporvi resistenza.
Si riparte quindi dal corpo, allora. E il resoconto femminile della malattia trascende l’individuo, perché conosce da principio come sia parlare con la voce dell’escluso. Quella che per gli uomini è un’eccezione della volontà, per le donne è l’ennesima lotta per la sopravvivenza. Nelle storie di donne c’è una letteratura diversa, un racconto della malattia che parte dal corpo malato, la sostanza del rimosso: una letteratura lontana dal messianismo idealistico del malato eccezionale di Mann, o dalla concezione borghese della patologia come sintomo ultimo di uno spirito destinato a grandi imprese. Per le donne il racconto diviene necessario, perché se la malattia insegna che un corpo è soltanto un corpo, un corpo che racconta non è mai un corpo solo.
Gran parte della letteratura femminile della malattia parla di cancro, patologia spesso assente nei resoconti dei classici, e non penso sia un caso. Penso a Proust e alla malattia rievocata nella Recherche, all’invidia di Cioran per la sifilide come orpello spirituale, alla malattia come medaglia al valore che sancisce la propria eccezionalità davanti al mondo. E penso all’afflato tormentato e logoro dei polmoni di Kafka, all’ossessione di Mann per la malattia individuale come metafora delle sorti dell’arte europea, al sunto della civiltà occidentale riunita in un sanatorio tra le montagne svizzere, ma sono malattie dello spirito: a mancare è sempre, ancora una volta, il corpo. L’erosione graduale dei limiti del corpo da parte di un ospite estraneo ha una connotazione estremamente forte, se si analizza questa fantasia alla luce della nostra mitologia sociale (“la malattia vissuta come un’invasione spietata e furtiva”, scriveva Sontag), ma in tutta la letteratura che parla di cancro c’è sempre un’attenzione particolare alla sua rappresentazione fuori dal patetismo, che poggia su una visione incredibilmente lucida e tenace del corpo, dei suoi limiti e delle sue potenzialità affermative, anche e soprattutto nel corpo del testo – giacché il corpo infetto, il corpo del testo e il corpus letterario dell’infermità sono impossibili da disgiungere.
La letteratura del cancro è una letteratura che non soccombe al dolore né lo romanticizza, come spesso accade per altre patologie. Un dolore che non è una metafora, e che, per rifarci sempre alle riflessioni di Sontag, rettifica la concezione della malattia, demitizzandola. Né si tratta semplicemente di una letteratura di lotta, dove l’unico significato di cui il corpo può essere investito è l’abusata metafora del campo di battaglia. Oltre a Sontag, il canone femminile della malattia si dipana tra le pagine di autrici come la poetessa militante Audre Lorde, l’enfant terrible Kathy Acker, la filosofa Gillian Rose e la scrittrice Anne Boyer, vincitrice del Pulitzer con il suo Non morire, unite dalla concezione di malattia come storia di morte tragica e individuale in mano a terzi, la cui sola implicazione sociale è il complesso sordido e lucroso dell’industria oncologica; e dove l’unica vera lotta avviene nell’arena della narrazione, che cerca di strappare sensi e significati del racconto fuori dall’immediatezza del dolore, superando i limiti del corpo individuale.
È in questo contesto che si inserisce Il bianco si lava a novanta, opera d’esordio della slovena Bronja Žakelj, rivelatosi un vero e proprio caso editoriale. Insignito nel 2019 del premio Kresnik, il romanzo rievoca l’infanzia dell’autrice nella Lubiana degli anni Settanta e Ottanta, la morte della madre in seguito a un cancro e l’esperienza della malattia di Žakelj stessa durante gli anni dell’università. In un lungo dialogo con la madre Mita, l’autrice descrive in una prosa semplice e limpida -forse anche troppo- gli anni gravosi della giovinezza, segnati dal lutto e dalla crescente alienazione dalla vita dei “sani”. Pur peccando dei limiti dell’autofiction, dove la difficoltà sta proprio nella modalità di inserimento del proprio vissuto in quell’inconscio politico e sociale di cui sopra, Il bianco si lava a novanta ha il pregio di aver aperto in Slovenia un dibattito pubblico differente sul tema della malattia, un dibattito che possa collocare il racconto del cancro al di fuori della narrazione eroica, tragica o pregna di individualismo e positività a ogni costo a cui la società è abituata.
Nel descrivere l’opera di Žakelj, il direttore della casa editrice Beletrina Mitja Čander afferma che “sebbene il cancro sia molto presente nei media e nella vita delle persone, è solo con il manoscritto di Bronja che mi sono accorto che non c’è in letteratura. È estremamente importante che il libro non abbia un tono patetico, […] che cerchi di presentare un tabù come una parte della vita, e che l’autrice si dipinga non come un’eroina ma come una persona che lotta per la vita con tutta se stessa”. Mi permetto di dissentire sull’assenza del cancro dalla letteratura, ma a differenziare Il bianco si lava a novanta da opere come Non morire di Boyer, Malattia come metafora di Sontag, il memoir di Rose o i Diari del cancro di Lorde è la mancanza di una direzione letteraria precisa, che non si rivela necessariamente un male – o resta perlomeno una questione aperta: la peculiarità del romanzo di Žakelj, giornalista di formazione, sta infatti nella descrizione senza orpelli del lungo processo di elaborazione della malattia e del lutto che ha segnato la sua famiglia, dall’infanzia nella Vojkova all’inizio dell’età adulta, lasciando al lettore la possibilità di affiancarsi alla voce narrante in questo percorso senza che questa prenda il sopravvento.
Il romanzo è diviso in tre parti, scandite dalla malattia prima della madre e poi di Žakelj stessa, a sancire delle fratture nell’io narrante che si riflettono anche nel linguaggio e nella sintassi. Si parte dalla Jugoslavia degli anni Settanta e Ottanta, l’infanzia raccontata per aneddoti con la frammentaria leggerezza di una narratrice ancora bambina: le celebrazioni per il 25 maggio, giornata della gioventù, le vacanze in Istria, la morte di Tito, le Olimpiadi invernali del 1984. Sicuramente la sezione più ostica per il pubblico italiano, sia per la prosa sincopata che per l’impossibilità di indulgere nella nostalgia di tempi, luoghi, suoni e sapori, ma pian piano il cancro di Mita si insinua come una crepa nella quotidianità familiare – un’intrusione che la piccola Bronja, che al momento della morte della madre ha appena quattordici anni, non riesce a capire.
Quando arriviamo alla stazione dei bus sulla Zaloška, sento tossire dietro a un muretto. Tu vai avanti, io invece mi volto a destra e poi non posso più girarmi verso di te. «Bronja, non guardare, vieni!» mi dici nervosa. Vorrei voltarmi, vorrei proseguire, ma non ci riesco. Perché lei, oltre il muro, ha le gambe esili e le mani sottilissime, mani di un grigio lucente con delle righe blu, e rigato è anche il suo collo trasparente. Se ne sta perduta nella sua enorme camicia da letto in flanella davanti alla scalinata di una grande vecchia casa, che chiamano B. Mostra le ginocchia, che sono più grosse delle sue cosce, non ha capelli, non ha sopracciglia, non ha labbra né occhi. «È il cancro» sussurri brevemente, mi afferri e mi tiri via con forza.
A casa racconto a Rok e a Dada che ho visto il cancro. Rok strabuzza gli occhi.
Quest’incontro fortuito con una paziente oncologica, unico della prima sezione a includere direttamente il termine cancro, è il primo, angoscioso spiraglio di realtà in un capitolo dove la malattia della madre viene costantemente occultata. Mal di pancia, ferite allo stomaco («Solo questo non capisco, perché a mamma devono tagliare lo stomaco se ha una ferita, non sarebbe meglio cucirla?»), una sintomatologia dai contorni vaghi e dalla diagnosi imprecisa che costringe Mita a lunghe degenze, il ventre sempre più gonfio. In un’intervista, alla domanda che le chiede se la corretta diagnosi di cancro, tenuto nascosto alla madre dal personale medico, avrebbe fatto la differenza, Žakelj afferma che la diagnosi avrebbe restituito alla madre l’autonomia di decidere come affrontare la malattia, anche con la peggiore delle prognosi. È impossibile non notare i parallelismi con le riflessioni di Sontag, secondo cui tutte queste bugie raccontate ai pazienti, e che gli stessi pazienti raccontano, danno la misura di quanto sia diventato difficile, nelle società industriali avanzate, venire a patti con la morte. Così come la morte oggi è un evento oltraggiosamente privo di significato, la malattia comunemente considerata sinonimo di morte è vissuta come qualcosa da nascondere.
Dopo la morte il lutto, e con esso il lento processo di elaborazione della malattia e dell’assenza. Quando te ne vai cambia tutto, scrive continuamente Žakelj, un leitmotiv che scandisce le difficoltà della giovane ad accettare la dipartita della madre. Dopo l’iniziale spaesamento, però, Bronja riuscirà a terminare gli studi, partire per Londra per qualche tempo e ricominciare una vita normale insieme al fratello Rok e agli amici. Tutto sembra procedere per il meglio, fino al giorno in cui la sua vita viene sconvolta da una seconda diagnosi di cancro, stavolta per lei. Per Žakelj inizia una vera e propria serie di tribolazioni tra reparti, ambulatori e degenze, descritte non più con l’ingenuità di una bambina a cui la malattia viene tenuta nascosta, ma con una spiazzante dovizia di particolari che non risparmia neanche i dettagli più scabrosi. Aghi, iniezioni, incisioni, controlli, chemioterapia: quel corpo, che sballottano sul tavolo, non è più mio. E se il dolore del corpo non fosse ancora sufficiente, sopraggiunge anche la difficoltà del cancro e della malattia come presenza invisibile nei discorsi, nei gesti e nelle norme sociali. Da un lato, una rassegnazione che straripa nell’angoscia dell’abbandono, dall’altro gli appelli alla buona volontà e al coraggio, due poli opposti di un fraintendimento che esclude l’esperienza del corpo malato.
Vorrei che dicessero: «È normale che tu abbia paura. Anche noi abbiamo paura». Vorrei mi concedessero il diritto alla paura, che la accettassero, che se la ripartissero tra loro, la domassero, padroneggiassero e addomesticassero. Perché so che solo questo può aiutare.
Le sole eccezioni sono Urban, fidanzato di Bronja, e una delle dottoresse. Le conversazioni con la famiglia, gli affetti e il personale medico sono scandite da emozioni conflittuali, sconforto, rassicurazioni di circostanza, e la narrazione viene intervallata dal racconto delle tribolazioni mediche descritte anche nei risvolti più crudi. Le ecchimosi, il vomito, i prelievi, la radioterapia, i consigli non richiesti di medicina alternativa, mentre l’unica autonomia che a Žakelj viene concessa è quella della responsabilità del percorso: È il mio percorso, non il loro. È il mio corpo, il mio cancro. La morte, ultima delle forclusioni della cultura occidentale, si fa prepotentemente strada nelle riflessioni della voce narrante, scissa tra l’inconsistenza del corpo malato, che sembra non appartenerle più (esiste ormai solo il mio appiccicoso corpo esangue, che curano a moduli), e la possibilità aperta del racconto. Una morte incombente come marchio d’infamia che la separa dalle “persone normali”, dai “sani”, in cui la sopravvivenza va scritta fuori dal mito della malattia. Eppure, per citare nuovamente Sontag, la prassi ottimale sarebbe proprio rettificare la concezione della malattia, demitizzandola.
La remissione del cancro di Žakelj non conclude l’intreccio, che prosegue con le difficili vicende familiari della scrittrice. Ho scelto tuttavia di concentrarmi sull’aspetto centrale della malattia, che è valso al romanzo un’accoglienza inaspettata. Il successo del libro ha infatti stupito molto Žakelj, che non immaginava una simile risposta da parte del pubblico. In un’intervista a Delo, l’autrice afferma che a preoccuparla, oltre allo scarso interesse che credeva potesse suscitare l’autobiografia di una sconosciuta, era proprio la scomodità dei temi trattati, come il cancro e la perdita, spesso affrontati con superficialità o pietismo. Ma è stata proprio la vulnerabilità senza orpelli della scrittura di Žakelj ad aver risuonato nei suoi lettori. Molte sono state le persone che si sono confidate con lei, ringraziandola per la trasparenza con cui ha messo a nudo la paura della morte e i momenti di negatività, spesso e volentieri accantonati a favore di una positività e di un coraggio a tutti i costi. Viviamo in una società dove la felicità è un imperativo, afferma Žakelj, una società fatta di autoinganni per rientrare in una norma sociale patinata.
La franchezza del romanzo, e più ampiamente della letteratura del cancro, sta proprio nella possibilità di addomesticare questo dolore fuori dai codici discorsivi socialmente fabbricati ad hoc. Non stupisce che in Slovenia, dove il panorama letterario contemporaneo cerca di confrontarsi con identità e storia sociale, Il bianco si lava a novanta sia diventato un caso editoriale, complici la fortuna del genere dell’autofiction e l’accostamento – se non voluto quanto meno curioso – tra le sorti individuali della Žakelj narrante e quelle collettive della Slovenia prima e dopo la Jugoslavia. E se anche il pubblico estero non ha modo di indulgere nella nostalgia o di rivivere la storia recente, può ugualmente apprezzare, anche nella sua estrema semplicità, la narrazione della malattia e del lutto. Una malattia fuori dalla metafora e dall’idealizzazione, raccontata come una testimonianza lontana dalle retoriche dominanti che tolgono spazio alla voce del malato e alla sua esperienza. E se anche l’opera di Žakelj risulta meno appassionata di quella di Lorde o di Rose, o meno analitica di quella di Sontag o di Boyer, è nondimeno un tassello che, anche quando non esaminato nel contesto sloveno, si inserisce a pieno titolo nel canone di riscrittura contemporanea della patologia.