L’ascensore di Prijedor è il primo romanzo breve di Darko Cvijetić, scrittore, drammaturgo e poeta bosniaco. L’edizione italiana è curata da Bottega Errante Edizioni e tradotta da Elisa Copetti, ma il titolo originale è Schindlerov lift, “l’ascensore di Schindler”, richiamo al “soccorritore indimenticabile di 1200 ebrei perseguitati”. La comparazione tra l’Olocausto e la pulizia etnica della guerra che portò alla dissoluzione della Jugoslavia non fu gradita dall’azienda svizzera Schindler, che, ironia della sorte, produce ascensori, a tal punto che gli avvocati della suddetta azienda inviarono reclami intimidatori sia all’autore che alla casa editrice Buybook. Tale sgradevole vicenda non ha minimamente intimidito Cvijetić, che vive dal 1974 nel palazzo che fa da protagonista al libro – il Crveni soliter, Il grattacielo rosso, nella realtà – e all’interno del quale si trovano effettivamente gli ascensori che hanno destato tanto scalpore.
A scrittori come Cvijetić niente fa più paura, nemmeno la morte: egli continua a scrivere nel palazzo che ha visto tutte le fasi della sua vita e, quasi come in un rapporto genitore-figlio, Cvijetić restituisce la sua gratitudine curando l’anima del Crveni soliter. Un’anima dannata che non si dà pace per essere stata luogo di morti improvvise e cruente, ma che rivela i fasti di un tempo lontano, quand’era orgoglio e vanto dei cittadini di Prijedor. Cvijetić è più di un intellettuale engagé: come Slavenka Drakulić e altri autori provenienti dai Paesi ex-jugoslavi non solo si schiera politicamente, ma si spinge a tal punto da rischiare la propria vita. Di padre serbo, madre croata e di discendenze ebraiche, Cvijetić è simbolo di quella Bosnia multietnica che non esiste più. Al di là di qualsiasi sentimento e schieramento nazionalista, dal suo appartamento del Crveni soliter lo scrittore di Prijedor riesce, seppur solo con lo sguardo e la mente, a dominare la città intera ed essere testimone di un fardello ancora troppo recente e troppo pesante. Nemmeno i suoi concittadini lo aiutano a sopportare tale peso, anzi: Cvijetić, acclamatissimo a Sarajevo e altrove nei Balcani occidentali, non riuscì a tenere la presentazione del libro proprio nella sua città. Nessuno vuole riascoltare quella cassetta arrugginita di racconti che superano l’immaginazione e chi vorrebbe riascoltarla non ne ha il coraggio e abbassa lo sguardo per la vergogna.
La trascrizione di quella cassetta che Cvijetić ci presenta in questo breve romanzo è un collage di flashback tra il glorioso passato degli abitanti del Crveni soliter e una ricostruzione lucidissima delle vicende della guerra che devastò Prijedor durante gli anni Novanta.
La pace di Dayton fu firmata quella notte.
Noi non ne sapevamo nulla.
Non ci fu comunicato.
La mattina escono dalle trincee: festeggiano, gridano,
sparano in aria.
Noi ci guardiamo atterriti.
In questo frammento, tratto da una delle poesie che precedono il racconto in prosa, Cvijetić riesce a sintetizzare lo sgomento dei bosniaci che non sapevano nulla a proposito della firma della pace di Dayton. Finisce così, in maniera inaspettata e brusca una guerra che dall’inizio sembrava una farsa, una messa in scena teatrale e grottesca, alla quale i bosniaci assistettero prima da spettatori. Nessuno, a parte coloro che studiavano a tavolino il conflitto da anni, si sarebbe aspettato una svolta tragica e mortale di tale portata. A Prijedor, gli abitanti di quella “città dannata” hanno sicuramente visto uscire dalle trincee i četnici serbi trionfanti. La città era definitivamente in mano loro e, a dispetto degli sciagurati comuni mortali, avevano la certezza di sapere che quel territorio sarebbe diventato solo e soltanto serbo. Infatti, secondo gli accordi di Dayton, Prijedor sarebbe stata compresa in quella zona del territorio bosniaco-erzegovese che ancora oggi porta il nome di Republika Srpska. Una repubblica serba, abitata da una maggioranza serbo-bosniaca, legata al rito ortodosso e ad un’altra serie di riti che avrebbero rappresentato e dichiarato fieramente la loro appartenenza. Una terra “ripulita” dalla componente bosgnacca, alla quale invece sarebbe spettata la Federazione croato-bosniaca.
I četnici, i forti squadroni – il termine in serbo-croato deriva da četa, cioè banda – avevano vinto e avevano ottenuto ciò che sognavano: una terra popolata da gente serba e fondata sul sangue delle migliaia di vittime delle quali non hanno ancora una minima coscienza. Sparano in aria, scrive Cvijetić: come una retata di una paranza camorrista, così i četnici sfilavano in maniera trionfante e gloriosa in tutta quella che sarebbe stata d’ora in poi la Republika Srpska sparando in aria, con la mano che mostrava il numero tre, simbolo della Trinità. Gli “altri”, tra i quali ci sono i serbo-bosniaci che decisero di non diventare carnefici dei propri vicini, si guardano atterriti, sconvolti ancora una volta dal destino che incombeva su di loro: più amaro da sopportare, forse peggio della guerra stessa. Davanti a loro due decenni di divisioni, tensioni e umiliazioni, fino al culmine dell’assurdo: la comparsa di poster e richiami al nazionalismo più violento e ai suoi “eroi” in seguito al provvedimento disposto nel luglio 2021 dall’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina: Valentin Inzko. Ventisei anni dopo quegli inaspettati accordi di Dayton i bosniaci vengono nuovamente messi all’allerta dalle frange nazionaliste serbe, che non demordono nel minacciare, deridere e mortificare chi è rimasto in quella terra risorta dalle proprie ceneri.
Quelle ceneri composte dalle macerie delle case, dalle ossa delle fosse comuni e dai regolamenti di conti sommari, che nulla avevano da regolare in realtà, se non il marchio di portare un nome e una religione non-serbi:
Lo trovarono dieci giorni dopo. Ripiegato, come se avesse voluto pregare e si fosse fermato, morto, sulla testa. Taib così non seppe mai che Hamdija Kurtović e la moglie erano stati uccisi dal poliziotto che aveva fatto l’indagine sulla bambina uccisa da un’auto tanto tempo prima. Ora resta soltanto il melo putrido.
L’anziano Taib, che abitava proprio di fronte al Condominio rosso, ha visto morire la figlia anni prima che scoppiasse la guerra: fu investita dalla macchina del vicino Hamdija Kurtović. Quest’ultimo, proprietario di un’officina, nei primi giorni della guerra viene rapinato e ucciso insieme alla moglie dal poliziotto che condusse un’indagine sulla morte della figlia di Taib. Uno sventurato destino che unisce le vite dei vicini di casa e dei concittadini in un intreccio inquietantemente complicato. Un poliziotto, che anni prima si diede da fare per spiegare una morte innocente, diventa egli stesso uno spietato carnefice, accecato dall’odio e dalla sete di denaro. L’avidità fu indubbiamente uno dei motori – se non quello principale – che spinse i criminali di guerra a compiere efferatezze e a conquistare centimetro per centimetro quella terra che consideravano esclusivamente loro. La scena del crimine, luogo di dolori inenarrabili, diventa un deserto silenziosamente assordante, abitato non più da umani ma dal”melo putrido“. L’intera frase “ora resta soltanto il melo putrido” ricalca il verso di una canzone del celebre cantautore serbo Toma Zdravković. In Svirajte nočas samo za nju (Stasera suonate solo per lei) si ricordano i tempi passati, sia gioiosi che dolorosi, e l’epilogo della nostalgia si chiude con la seguente frase: “sad kada je nema neka plaču ruže”, ovvero “adesso che non ci sono – le gioie e i dolori – lascia che piangano le rose“. Le rose che piangono, immagine di una bellezza poetica disarmante, riproducono quella del melo putrido, quasi a significare che persino la natura è partecipe – e forse in misura maggiore – del dolore umano, il quale supera ogni fantasia e ogni possibile tragedia naturale.
Un’istantanea di tali disumanità è data da un episodio che Cvijetić restituisce con determinata nitidezza:
Il giorno in cui la guerra fece il suo ingresso nel grattacielo 101 (chiamato il Condominio rosso), i soldati serbi che perquisirono il condominio uccisero Adem sulla sua poltrona al nono piano. Gli avevano trovato l’uniforme […] e con una raffica lo piegarono seduto. Lo trasportarono fuori con l’ascensore (marca Schindler), trascinandolo oltre la strada come un cane che lascia una traccia di sangue, e lo abbandonarono nel frutteto di Taib.
Qui si percepisce tutta l’efferatezza e la cieca violenza di quest’ultima guerra balcanica. Non che le guerre mondiali siano state meno dolorose o gravi, anzi, ma vi era una chiara distinzione tra nemico e alleato, sembrava vi fosse un minimo di logica, pur essendo ogni guerra inutile e priva d’ogni logica. L’accanimento e i massacri di questa guerra fratricida – già per questo assurda – non lasciano spazio né alla logica nemico-alleato né al miraggio di una pacifica resa alle armi. Senza l’ intervento internazionale cosa sarebbe successo? Per quanto si sarebbero protratte le violenze? Può un uomo, fiero ex-jugoslavo come Adem essere freddato in casa sua e trascinato fuori come “un cane“? Il suo corpo viene abbandonato nel giardino di Taib, lasciato a marcire come marcì lo stesso melo di Taib.
I corpi di migliaia di bosniaci freddati, ammassati in fosse comuni, abbandonati senza un minimo di rispetto: questo è stato. Sparare nei cimiteri durante i funerali, violentare ripetutamente e sistematicamente le donne e “ripulire” interi villaggi e città: questo è stato. Con la sua lingua poetica, che punta direttamente al nocciolo del dolore, Cvijetić porta il lettore a vedere i fatti nudi e crudi per restituire il suo sguardo e quello di molti altri suoi concittadini, che convivono ancora con il flash accecante del fulmine a ciel sereno di quei giorni, una luce che non si cancella dagli occhi e, soprattutto, dall’anima.
Resta soltanto una città che, a differenza di Cartagine (1), non è ancora rinata dalle proprie ceneri:
Ora tutto è deserto, selvatico, senza vita, senza persone. Niente funziona più da decenni. […] Non ci sono più operai. Ci sono solo serbi, croati, bosniaci e altri. Non ci sono operai. Gli operai sono affondati nella nazione e sono rimasti con i polmoni pieni d’acqua, sul fondo. Ora i loro figli scappano da qui a gambe levate.
Il Condominio rosso e tutto il microcosmo che attorno vi ruotava non c’è più. Dopo la guerra, quel vociare onnipresente si è trasformato in un silenzio inquietante. Non ci sono più jugoslavi, il loro Paese non esiste più. Rimane una Bosnia martoriata, divisa in due entità principali – Federazione croato-bosgnacca e Republika Srpska – e in una costellazione di appartenenze identitarie. Nessuno si sente più appartenere a quel grande Paese che aveva il quarto esercito più potente al mondo. Il ricordo di quest’ultimo affonda nella vergogna, poiché fu esso stesso che attaccò i suoi compagni: attacco seguito da un escalation di divisioni e violenze. Cvijetić menziona in una sola frase – Ora i loro figli scappano da qui a gambe levate – ciò che costituisce la realtà bosniaca di oggi. Un Paese costantemente in piena crisi economica, sociale, identitaria, in cui la migliore gioventù è costretta a lasciare la sua terra soprattutto per trovare fortuna altrove. L’aggravante che spesso contribuisce alla fuga di cervelli è data anche dal fatto di non riconoscersi in un assetto politico-sociale che, anziché fare passi in avanti, ne fa troppi indietro. Il miraggio passato del benessere jugoslavo rimane, dunque, un ricordo sbiadito che non ha nulla a che fare con l’amara realtà. Dentro di essa, tra gli innumerevoli problemi di diversa natura già menzionati, vi si aggiunge il dramma che coinvolgeva, e tutt’ora coinvolge, molti uomini bosniaci: l’alcolismo. Morti premature, per il fegato devastato dall’alcol e dalla disperazione di un’era che si distruggeva a poco a poco:
La guerra ha tolto a quelle morti ogni fascino romantico trascinandole in una vera tragedia alla Dostoevskij, che non potevano né sapevano gestire. La guerra ha dato alle kavane gli archi del tempio e un aspetto salvifico. La rakija è stata l’anestetico basilare per la trasformazione degli operai in soldati, nazionalisti, brutalmente sfruttati per uccidere il proprio paese.
Se prima della guerra le kavane (2) erano, per eccellenza, il luogo in cui ritrovarsi con gli amici per divertirsi e affogare l’umor nero dei piccoli problemi quotidiani, ecco che durante la guerra diventano sorte di bunker, rifugi lontani dove cercare di annegare un dolore troppo forte, al quale difficilmente si poteva sopravvivere.
Chi è sopravvissuto, in primis Cvijetić, autore di questo romanzo pervaso di teatralità e tragica poeticità, non può dimenticare cosa era quella Babele prima che venisse distrutta dai suoi stessi vicini, diventati, come per un incantesimo di magia nera, l’incarnazione del Male. Come scrive Federica Manzon nella postfazione del volume:
Il Condominio rosso era l’incarnazione del progetto jugoslavo: ci vivevano operai e impiegati, intellettuali e artisti, perdigiorno e un mucchio di bambini scalmanati.
Questo melting pot jugoslavo non esiste più da decenni, cancellato via appositamente da chi non ne voleva più fare parte e voleva sostituire quella vivace eterogeneità con una lugubre e monotona omogeneità. Quell’omogeneità pagata col sangue di chi non era serbo, dunque non più degno di esistere sul suolo di una terra serba, secondo i folli dettami di chi ha voluto l’esistenza della Republika Srpska. Un fantoccio della Serbia in territorio bosniaco, in quella nazione non-nazione – la Bosnia ed Erzegovina – che per secoli fu l’emblema della diversità di tutta la regione balcanica. Cvijetić, però, non vuole dimenticare e non vuole negare: i fantasmi degli ospiti non graditi del Condominio rivendicano la loro appartenenza a quel luogo, riemergono dall’Ade per ricordare con macabri dettagli la loro feroce morte, in attesa di riappropriarsi, un giorno, del loro appartamento nel Condominio rosso con ascensori di marca Schindler. Quel rosso che spicca nel grigiore di Prijedor come il cappottino della bambina ebrea in Schindler’s List. Quel rosso sarà eterno monito di quella colorata eterogeneità jugoslava e simbolo del periodo nero di un Paese, la Bosnia ed Erzegovina, che rimarrà sempre il cappottino rosso di tutti i Balcani.
Note:
In seguito alla conquista romana di Cartagine, sui resti della città punica venne sparso il sale, per rendere il terreno sterile e per fungere da simbolo per l’impossibilità di una sua ricostruzione. Nelle città bosniache non venne sparso del sale, ma la violenza che subirono i cittadini e le mura delle antiche case e monumenti bosgnacchi fu talmente sistematica da risultare riuscita nel suo intento. Non è un caso, infatti, che la Republika Srpska sia, oggi, effettivamente costituita da una maggioranza serbo-bosniaca.
Simile al pub, ma con altre peculiarità: un luogo di ritrovo dove si beve principalmente il caffè. In serbo-croato il termine kafana deriva dall’arabo kahvua, che indicava una struttura dove si preparava e si beveva il caffè. Dall’arabo kahvua, il turco costruì kahvehane e poi il serbo-croato kafana. Questo tipo di locale si è espanso nei Balcani durante il dominio Ottomano.Da più di cinque secoli le kafane sono un punto di ritrovo irrinunciabile e, oltre all’originario caffè, vengono consumati gli alcolici tra i quali spicca la grappa: rakija. Sebbene negli ultimi decenni i frequentatori delle kafane – soprattutto nelle grandi città – siano sia uomini che donne, inizialmente erano luoghi esclusivamente composti da una clientela maschile.
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