L’anno accademico 1975/76 l’ho passato a Mosca grazie alle borse di studio che si scambiavano reciprocamente i ministeri dell’istruzione di due paesi, la Jugoslavia e l’URSS.
Il più alto interesse nello studiare nell’URSS lo mostravano i giovani pianisti (il famoso Ivo Pogorelić), le ballerine e i matematici. Io ero venuta per raccogliere materiale su Boris Pilnjak, uno scrittore russo d’avanguardia, nelle biblioteche moscovite e leningradesi. Nel periodo in cui io ho iniziato a lavorare su di essa, la cultura dell’avanguardia russa era un campo profondamente “congelato“, nonostante la politica di “riscaldamento“ appena istituita e la riabilitazione ufficiale di numerosi artisti d’avanguardia rimasti vittime delle purghe staliniane.
A parte ciò, i sistemi politici, le relazioni tra Tito e Stalin, tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica, mi interessavano poco, anche quando la “politica“ determinava il destino della vita dei miei genitori, e dunque anche della mia.
Mia madre era una bulgara che dopo la Seconda guerra mondiale venne in Jugoslavia, ma a causa del cosiddetto Informbiro (1948-1955) e dell’isolamento della Jugoslavia da parte del cosiddetto Blocco orientale si trovò lei stessa in isolamento.
Mamma non poté visitare i propri genitori per i dieci anni successivi, fino a quando tra i due paesi non furono stabilite relazioni diplomatiche.
Pur essendo inscindibile, il secondo aspetto della storia, quello “politico”, mi iniziò ad interessare solo quando mi ritrovai a Mosca. Padroneggiavo quel secondo aspetto senza un sistema, caoticamente, a caso, in maniera tale che qualche dettaglio mi si attaccasse addosso. Ho imparato attraverso gesti, sapori, suoni, toni, sguardi, smorfie, immagini, tic, scene. Ho assorbito l’ambiente circostante attraverso la mia stessa pelle, libera da dati, testimonianze ed esperienze di altri. Sì, ero insolente, ma era come se non avessi fretta di capire il motivo della mia insolenza. Perché, come anche altri studenti dei paesi occidentali, anche io ero protetta da una cosetta fragile, banale, eppure così potente. Il passaporto.
Quel giorno passeggiando sbucai sulla Piazza Rossa. Era il Primo Maggio, nella piazza si stava tenendo la famosa parata. La scena per me non era né politicamente né esteticamente esotica, come invece lo era per i miei colleghi dei paesi occidentali. Anche Tito, comunque, amava spettacoli simili. Tuttavia, per qualche motivo, la scena mi inebriò profondamente. I soldati marciavano per la piazza alzando in alto le proprie gambe, i carri armati strisciavano lentamente uno dopo l’altro come tartarughe. Sugli spalti stava obbediente la numerosa élite politica e militare. Le medaglie brillavano sul petto di questa élite come uno sciame di mosche. Sulla piazza stavano schiacciati gli uni contro gli altri numerosi spettatori. Questo imponente scenario militaristico sembrava terrificante e surreale, infantile, come se i soldati non fossero reali, ma di piombo. I soldati erano in netto contrasto con la variegatura floreale. Vale a dire, i fiori “crescevano” dalle aperture dei carri armati da cui sporgevano le teste dei soldati; accanto al collo di ogni soldato stava un enorme fiore su un lungo manico di filo metallico. Gli spettatori salutavano la parata sventolando quegli stessi fiori piantati su lunghi steli di filo metallico, motivo per cui apparivano più piccoli di quanto non fossero in realtà. Ho riconosciuto quei fiori. Ho ricordato le sfilate che facevamo da bambini, che si chiamavano “passeggiata dei fiori”. Noi, alunni delle scuole elementari, camminavamo per il nostro piccolo paese, in quattro file, fianco a fianco, come aiuole ordinate. Ricordo che a una delle sfilate noi, le bambine, ci vestivamo con abiti e cappelli rossi. Eravamo i papaveri. I nostri vestiti erano fatti della stessa carta crespa flessibile.
Come un potente magnete questa scena evocò un altro frammento. Questo veniva, almeno così mi pareva allora, da un pianeta completamente diverso. Il libro si chiamava Il Mago della città di smeraldo e nella lingua del suo autore, A. Volkov, Volšebnik izumrudnogo goroda. Il ricordo di quel primo libro per bambini soppiantò il ricordo di un altro, simile libro con un titolo diverso, Il meraviglioso Mago di Oz, con anche un autore diverso, Frank L. Baum. La ragione di questa confusione era l’usanza delle autorità editoriali sovietiche dell’epoca di riscrivere un libro straniero secondo le proprie regole ideologiche e metterlo sulla copertina di un autore russo. Così, il falso A. Volkov e la versione censurata de Il Mago di Oz arrivarono, tradotti, in Jugoslavia. Solo il film di Victor Fleming (del 1939), filmato basandosi sul modello letterario di Baum, ha mantenuto, almeno per quanto riguarda i paesi dell’Europa orientale, la paternità di Baum.
E in quel momento – a Mosca, il 1° maggio 1976 – mi sembrava di non esser più in grado di dire il mio nome, che tempo faceva e che ora fosse, quale spazio e quale paese, quale campo esperienziale e culturale [fosse] e in quale dannato pianeta stesse accadendo tutto ciò. Ero circondata da dolci, piccoli e colorati Masticatori e, ecco, presto sarei partita con i miei fedeli compagni per una strada di mattoni gialli verso Oz, dove il famoso mago mi avrebbe riportata a casa, in Kansas…
Mi chiedevo perché la scena della Piazza Rossa evocasse in me il ricordo di una strada in mattoni gialli che portava a Oz. E, può darsi, che non fossi solo io, accanto a centinaia di migliaia di persone sulla Piazza Rossa, a leggere questo potente spettacolo politico come se fosse una favola o a leggere una favola per bambini come se fosse un potente spettacolo politico in cui una piccola compagnia (la bambina Dorothy Gale col cagnolino Toto, lo Spaventapasseri, l’Uomo di latta e il Leone codardo, suoi fedeli accompagnatori) parte alla ricerca di un cervello, di un cuore, del coraggio e della via per tornare a casa. Cervello, cuore, coraggio, casa.
La trasformazione di questo testo destinato ai bambini in un mega testo destinato a tutti iniziò nel 1900, quando fu pubblicato per la prima volta il libro di Baum. Tuttavia, solo la prima versione cinematografica (1939) ha catapultato questo testo nel canone letterario mondiale. E lì, in quell’orbita testuale, non ci sono molti testi simili. Per la civiltà cristiana un tale mega testo è la Bibbia. E non molte versioni, cinematografiche e non, de Il mago di Oz hanno rafforzato la posizione del testo, e [non ha aiutato] né l’enorme industria che dopo il successo del film si è sviluppata sulla scia dell’opera, né è stata d’aiuto la canonizzazione ufficiale dall’alto, dall’American Library of Congress, che ha dichiarato Il Mago di Oz “la più grande e amata fiaba americana”, nonché “il film più visto nella storia del cinema”. Il Mago di Oz non è diventato una specie di Bibbia perché ci sono indicazioni che la terra di Oz abbia preso il nome dalla terra biblica di Uz. Milioni di persone in tutto il mondo hanno fatto proprio il testo, compresi quelli che non hanno mai letto un solo versetto biblico. La stragrande maggioranza delle persone nel mondo vedeva Donald Trump come il “Mago” di Baum, come un imbroglione, bugiardo, truffatore e dilettante, come un imbroglione pericoloso o meno pericoloso, senza prima consultare Il Mago di Oz.
Com’è quindi possibile che molti non si siano affrettati ad abbattere il sipario e smascherare l’impostore? Il cagnolino Toto lo ha fatto. Piccolo demistificatore. È forse un cagnolino più intelligente di noi umani? I cani si lasciano guidare dall’istinto e dalla curiosità, noi dalla fede. I cani non conoscono l’utopia e non sognano una terra fatta di succulenti ossi. Noi desideriamo l’utopia nella realtà. Siamo utopia-dipendenti, utopia-addicted. E ogni volta che partiamo alla ricerca dell’utopia finiamo per sbattere la testa contro un muro, ogni volta optiamo per la variante peggiore. Partiamo fiduciosi di arrivare a Oz e lì acquisire coraggio, amore, intelligenza e una casa, e ogni volta ci imbattiamo in un mago pasticcione, in un dilettante.
Il peggio è che anche se il cucciolo Toto ha abbattuto il sipario per farci affrontare la fregatura, riceviamo con gratitudine un falso titolo accademico da un imbroglione che conferma che invece della paglia abbiamo un cervello in testa o un cuore di plastica che ne sostituisce uno vero. Siamo orgogliosi di ricevere una falsa medaglia d’oro che annuncerà a tutti che siamo coraggiosi. Avremmo potuto fare diversamente?
Forse no. Chissà, forse ci stiamo comportando secondo un sistema già consolidato, secondo qualche archetipo. Possiamo essere ricettivi solo all’opinione mitica e non sappiamo né riconosciamo nient’altro. Forse anche quel mago imbroglione non riesce a togliersi dalla pelle perché secondo qualche antico progetto era destinato a imbrogliare. Stalin e Hitler non sono i maghi di Oz? Zeus non è un mago di Oz? Non è Dio stesso, colui che ha rovinato il mondo in soli sette giorni, a sua immagine e occasione, un ingannatore di Oz? Gesù Cristo – colui che risorge dai morti, cammina sull’acqua e nutre milioni di persone con un solo pesce – non è uno dei più grandi maghi-ingannatori? E sua madre, la Madre di Dio – colei che governa il trucco del concepimento senza peccato, e ci lascia sguazzare nel peccato – non è lei la grande maga, che ha trasmesso i suoi potenti geni a suo figlio? E chi ha creato chi: noi fiabe o noi fiabe? I memi, i nostri geni culturali, sono responsabili delle civiltà e del loro decadimento, dell’essere ciò che siamo, così ostinatamente immutabili? Kim Kardashian – che ci intrattiene con trucchi per allargare le natiche e restringere la propria vita, oltre a ciglia lampeggianti che usa come fan – non è la nostra moderna Madre di Dio? Ci sediamo davanti allo schermo, come davanti all’altare di una chiesa, ipnotizzati, pronti a seguirla e adorarla.
Dov’è, in effetti, questo Oz? E dov’è la nostra casa? Qual è il nostro vero indirizzo? Da dove partiamo e dove andiamo? Dove sono le mappe? Perché seguiamo insistentemente una strada lastricata di mattoni gialli? Non ne esiste forse qualcun’altra? Chi ci ha detto di prendere quella strada? Saranno stati forse i Masticatori?!
Se, invece delle elezioni amministrative di domenica, per esempio, decidessimo di passare il tempo con i bambini in una specie di osservatorio, lì potremmo dare un’occhiata a una mappa che raramente cerchiamo. Viviamo su una pallina insignificante. Lei è la nostra casa. Galleggiamo tra palline simili. Alcune sono più piccole, altre sono più grandi. Alcune sono al centro, altre in periferia. Siamo in periferia, viviamo in una fattoria (in bianco e nero) trascurata, dimenticata da Dio, in qualche Kansas cosmico.
Le nostre mappe sono mitiche. Forse è da qui che viene la nostra ostinata tendenza a rifugiarci sotto i tetti dei grandi sistemi religiosi, politici, sociali e culturali. Cercando Oz utilizziamo una vecchia e [già] battuta strada pavimentata con mattoni gialli. E così facendo, fuggiamo dal nostro stesso riflesso nello specchio come il diavolo dall’incenso.
Ci aspettiamo una risposta che non arriva, perché forse non ci stiamo ponendo le domande giuste. Come, ad esempio, se finiremo noi Europei col vivere in microstati, proprio come suggerisce la serie economica Netflix “Tribes of Europa”, che si apre con filmati girati sul territorio di una moderna Atlantide, la Jugoslavia, un paese che non esiste più. Il monumento devastato di Vojin Bakić sull Petrova Gora, il Monumento alla rivolta dei popoli della Banija e del Kordun, uno degli ultimi esempi di modernismo jugoslavo, è servito come simbolo di distruzione o autodistruzione. Il populismo, attualmente in vigore, lascia dietro di sé le statue dei suoi capi tribali. Le popolazioni della Banija e del Kordun, scomparse durante le guerre (Seconda guerra mondiale, e la cosiddetta ultima guerra, quella del 1991-1995), durante l’emigrazione, sia forzata che volontaria, stanno attualmente scomparendo di nuovo, colpite da terremoti, pandemie e povertà. Anche lo scenario post-apocalittico “naturale” (quindi gratuito) è presente nella serie. Forse la nuova costellazione politica e sociale europea verrà considerata come un ritorno dell’Europa al suo (migliore?) passato tribale.
La rivoluzione digitale ha ripristinato il nostro DNA, i nostri meme culturali e ha aperto nuovi orizzonti, modelli più affidabili o è successo il contrario? L’attraente Oz non si nasconde da qualche parte nella zona post-verità? La post-truth è la strategia fondamentale di ogni mago. Internet – con i suoi espedienti, giochi e trucchi economici, accessibili e tecnologici, non ha forse aperto le porte a una nuova costellazione politica, a una “società dello spettacolo” (come la definì Guy Debord circa cinquant’anni fa) o a “civiltà dello spettacolo” (Mario Vargas Llosa, relativamente di recente)? E’ lo “spettacolo” questa nuova costellazione sociale e politica che Dorothy, confortando Toto, descrive poeticamente come un luogo “non problematico”, “dietro l’arcobaleno”, “dietro la luna”, “dietro la pioggia”?
E poi, non abbiamo noi – barbari con il pensiero mitico – creato una civiltà high-tech che la nostra mente infantile non è più in grado di controllare? Torneremo alle costellazioni sociali tribali o andremo di nuovo alla ricerca di Oz? Dovremo adattarci e reinventarci in persone nuove e compatibili con i compiti? Se ciò non è possibile, cercheremo l’aiuto di ingannatori, bugiardi, imbroglioni, “matchmaker”, nuovi maghi transumani?
Mark Zuckerberg, il “mago del cyberspazio”, ci propone una nuova Meta-piattaforma, un luogo “non problematico” “dietro l’arcobaleno”, “dietro la luna”, “dietro la pioggia”. Uno dei ciarlatani più ricchi, e quindi più potenti del mondo, promette che al posto del proprio chiacchierificio che è Facebook aprirà “Disneyland”, un nuovo teatro postumano per adulti. In quella sala giochi vivremo una vita parallela, una seconda vita, una second life. Tutto quello che devi fare è prendere la cyber road lastricata di mattoni gialli.
Elon Musk – “Persona dell’anno 2021” (secondo la rivista Time), showman, visionario, clown, genio, magnate degli affari, “minister of magic” – ha lastricato la strada con mattoni dorati e l’ha diretta verso lo spazio. Secondo la perizia di Elon Musk, Oz è nello spazio. Un altro “sensale” finanziario ancora più potente, Jeff Bezos, si è affrettato a fare lo stesso. Bezos non solo ha confermato che Oz è nello spazio, ma garantisce servizi di viaggio a chiunque sia disposto a mettere da parte duecento o trecentomila dollari per un biglietto.
Mentre i nostri maghi infantili, sia mondiali che locali, sotto l’assoluto potere dei quali ci troviamo tutti noi, stanno attualmente costruendo strade spaziali verso il mitico Oz, ottanta milioni di terrestri arrancano su strade lastricate di fango giallo alla ricerca di Oz, dove troveranno coraggio, cuore e cervello, ed, eventualmente, una casa, perché hanno perso tutto ciò. Molti muoiono sulla strada per Oz, molti rinunciano a superare gli ostacoli, molti non hanno idea di dove e cosa sia Oz.
Perché Oz a quanto pare non è l’Europa occidentale. L’Europa difende centinaia di migliaia di rifugiati dall’accesso al suo territorio. E mentre la Strega Malvagia ha difeso il suo territorio dall’Occidente con l’aiuto di scimmie alate, l’Europa occidentale difende il proprio con “cani poliziotto”, polacchi, ungheresi, croati… Tutti i “cani poliziotto”, dal Medioevo in poi, giustificano la loro brutale attività con le invasioni simbolici “ratti” (Per i croati sono i serbi!), “ebrei”, “zingari”, “migranti”, “rifugiati”… Dopo esser tornata dal colorato Oz al Kansas in bianco e nero, Dorothy dice una bugia molto citata: there’s no place like home.
E, infatti, there’s no place like home semplicemente perché la nostra casa non esiste più. Come oggi, in una società postumana, aspettarsi che termini del repertorio umano come cuore, cervello, coraggio e casa abbiano un senso per noi, persone nuove. Le persone postumane adorano i loro sensali, ciarlatani e “maghi” postumani, che continuano a darci la speranza che Oz esista. Tutti noi da giocatori siamo diventati giocattoli. E tutto può fermarsi, solo il gioco non può.