Marek Šindelka esordisce nel 2005 con la raccolta Strychnin a jiné básně, per la quale si aggiudica il prestigioso premio Jiří Orten. Dopo questa prima parentesi poetica nel 2008 avviene il suo debutto come romanziere con Chyba, romanzo sperimentale sia da un punto di vista formale, dove generi differenti vengono abilmente mescolati tanto da rendere l’opera inclassificabile secondo i parametri tradizionali, che del contenuto. A questo seguono poi due raccolte, Zůstaňte s námi e Mapa Anny. Il 2016 è invece l’anno de Únava materiálu, romanzo pluritradotto e recentemente edito anche da Keller nella traduzione di Laura Angeloni.
La fatica dei materiali, titolo scelto nella versione italiana, rappresenta dunque il primo incontro del pubblico italiano con la prosa dell’autore ceco. Inoltre, Šindelka ha ricevuto ben due volte il premio Magnesia Litera, la prima volta nel 2012 per Zůstaňte s námi e la seconda nel 2017 proprio per Únava materiálu, riconoscimenti che lo hanno inserito tra gli autori cechi più importanti della sua generazione.
Uno zaino atterrò nella neve, seguito da un ragazzo. Sera. Chiarore all’orizzonte. Una grezza porzione di cielo tagliata nel grigio. Il fiato visibile. La brina scintilla sul recinto di metallo. Anche la parete di cemento scintilla. Dietro il muro una fila di vetri, pannelli di luce, il bagliore di un casermone.
Sin dalle primissime righe si coglie la cifra stilistica che caratterizza l’intero romanzo. Si tratta di una tendenza dell’autore a impiegare frasi brevi, concise, chiare. Scelta che comporta non solo una limpidezza espositiva, ma anche e soprattutto un ritmo particolarmente incalzante. In questa dinamica scansione narrativa si sviluppa il tema centrale sui soggiace tutta la vicenda, la condizione di migrante. Interessante è la prospettiva impiegata: a dominare è la voce di “quelli che non avevano dove andare”. Due fratelli sono i due migranti protagonisti del romanzo. Il lettore si trova a seguire le vicende del minore dopo la brusca separazione che incorre nei primi capitoli. Nel tematizzare la questione della migrazione, Šindelka sceglie di donare alla dimensione del viaggio un carattere corporeo, insistendo non tanto sulle intemperie e le difficoltà che il giovane si trova ad affrontare, quanto sugli effetti che queste hanno sulla materia del suo corpo:
Si mise a correre sul ghiaccio. Andava giusto un po’ più veloce che se avesse camminato. Sentiva già la fatica in tutto il corpo. Aveva un’andatura strana, un po’ claudicante. Le gambe erano stanche, ma continuavano a muoversi. La cosa peggiore sarebbe perdere le gambe.
In Migrazioni e intolleranza, Umberto Eco scrive a proposito dell’atteggiamento che affligge gran parte della società occidentale contemporanea in rapporto con l’altro: “Che fare? L’unica strada per sconfiggere l’intolleranza selvaggia è batterla dal basso, alle radici. Occorre una educazione costante che inizi dalla più tenera infanzia, ma che continui anche nell’età adulta, perché nella vita quotidiana si è sempre esposti al trauma della differenza”. Se la letteratura è uno dei mezzi attraverso cui è possibile mettere in moto questo processo di sanificazione delle differenze, allora La fatica dei materiali è, in ultima istanza, un romanzo necessario, una finestra tutt’altro che opaca su uno dei fenomeni più complessi e taciuti del nostro tempo. Prestando la sua scrittura a chi non ha la voce per emergere, Šindelka assembla abilmente vicissitudini e difficoltà in un’opera che si presenta come la testimonianza di un’estenuante ricerca della libertà.
Vista l’importanza del tema al centro del romanzo e il fatto che si tratta dell’esordio dell’autore nell’editoria italiana, Est/ranei ha chiesto a Marek Šindelka di rilasciare un’intervista, che riportiamo qui in traduzione ringraziandolo ancora una volta per avere accettato.
D: Buongiorno, vorrei ancora una volta ringraziarla per l’opportunità. Inizierei con una domanda generale: come è diventato scrittore? Se non sbaglio la sua prima pubblicazione è stata una raccolta poetica. Come ha deciso di scrivere in prosa? E che significato ha per lei oggi la poesia?
M: Sì, il mio primo libro è stato una raccolta di poesie. Ancora oggi sono i testi più personali che io abbia mai scritto. In quel periodo avevo bisogno di risolvere in me stesso una situazione complessa della mia vita. Mio fratello, più giovane di me, stava lottando contro la tossicodipendenza e sentivo come se stessi perdendo la persona a me più vicina. Oggi, per fortuna, mio fratello vive una vita normale e sta bene. Ma all’epoca sembrava del tutto senza speranze. Per rielaborare la cosa in qualche modo ho iniziato a trascrivere diversi frammenti delle nostre esperienze condivise, memorie d’infanzia, di luoghi in cui siamo cresciuti. E, soprattutto, quelle atmosfere effimere, gli umori, gli odori e le sensazioni dell’infanzia. La poesia è particolarmente adatta a intrappolare cose del genere. Riesce a catturare anche le più piccole sfumature dei sentimenti, per questo motivo suscita in me, ancora oggi, ammirazione. Con gli altri libri le cose sono andate in modo abbastanza diverso, sentivo che volevo lavorare di più alla storia, a qualcosa di più universale. In realtà non ho idea di quando i testi siano passati dalla poesia alla prosa. A dire il vero, non ho mai concepito una differenza così grande fra i due generi. Ho sempre cercato semplicemente un testo, una qualche struttura, una texture delle parole che potesse esprimere nel modo più preciso possibile ciò che volevo dire. Come questo prenda forma, che sia in una poesia o nella forma del romanzo, alla fine è secondario. Lascio per lo più che viva e cresca in autonomia.
D: Ancora una domanda generale: potrebbe parlarci dei suoi riferimenti letterari? Non parlo solo di autrici o autori che sono per lei dei “modelli”.
M: Nei miei libri ci sono innumerevoli riferimenti. Consci e inconsci. È una cosa del tutto naturale. In La fatica dei materiali ho inconsapevolmente rubato una poesia di Seifert (N.d.R. Jaroslav Seifert è uno dei più importanti poeti cechi del Novecento). Ho scritto un capitolo di cui non ero così soddisfatto, ma c’era un passaggio che apprezzavo particolarmente. È il momento in cui uno dei personaggi si raggomitola per la stanchezza e l’ho descritto, tra l’altro, con la frase che mostra come, quando si ha voglia di strofinarsi le tempie e il viso stanchi, ci si imbatte con l’osso del cranio sotto la pelle. Mi piaceva la semplice espressione della mortalità umana. Poi una volta ho sfogliato una raccolta di Seifert, che avevo preso a caso dalla biblioteca e che un tempo conoscevo quasi a memoria, ma che non aprivo da anni – e lì, in una pagina di una poesia, c’era proprio questa “mia” frase di cui andavo così orgoglioso. Sono impallidito, non tanto per la vergogna, il fatto di aver rubato una frase non era un qualcosa di straordinario, ho rubato molto di più e consapevolmente. La cosa terribile è che all’improvviso non ero più sicuro che ci fosse qualcosa di originale nei miei libri. Se ciò che invano considero mie scoperte non siano solo un mostruoso guazzabuglio di collegamenti dimenticati. Ho una pessima memoria in generale. Ma un subconscio molto funzionale che spesso per me funziona quando scrivo.
D: Spesso lei impiega il lessico chimico in modo metaforico. Già nel suo debutto poetico c’è la stricnina, un alcaloide molto tossico, mentre nel libro La fatica dei materiali ha usato il concetto di “fatica” che indica il degrado della materia sottoposta a una costante pressione esterna. Perché impiega questi termini?
M: Perché mi sono sempre interessate moltissimo la biologia, la mineralogia e altre discipline scientifiche. Nei materiali e nelle loro strutture si celano meraviglie indescrivibili, qualcosa di inspiegabile. Come nella raffinatezza di tutti i tipi di strutture vegetali e nelle loro strategie. Immagino che ciò penetri anche nella mia lingua. Inoltre, la stricnina è una metafora piuttosto complicata. Si usava come droga: gli atleti lo prendevano per accelerare le loro reazioni. Allo stesso tempo, è un veleno mortale. Uccide una persona in un modo piuttosto curioso. Aumenta tutti i suoi sensi in modo che tutto ciò che deve fare è sentire un suono più forte, vedere un colore troppo saturo o annusare un profumo intenso e il corpo entra in una reazione d’urto, iniziano delle convulsioni, che alla fine portano all’arresto cardiaco e al soffocamento. Quindi una persona avvelenata dalla stricnina può de facto morire annusando un fiore, sentendo il canto di un uccello o vedendo un tramonto. Mi sembrava una buona metafora della poesia. Divertente e spaventosa al tempo stesso.
D: La sua prosa è molto sperimentale, questo è evidente nel caso di Chyba. Ho letto un commento con cui sono anche abbastanza d’accordo, ovvero che il romanzo non rientra in nessun genere tradizionale. Ho avuto la stessa sensazione durante la lettura. Lei è d’accordo? E vorrei chiederle se può parlare un po’ di questo romanzo, che spero venga presto tradotto in italiano.
M: Chyba è sicuramente un testo che non si può catalogare. Io stesso oggi non so ancora cosa pensarne. Si tratta di una storia sul mercato nero di specie vegetali rare. Sulla strana ossessione decadente di alcuni collezionisti, desiderosi di piante uniche estremamente in pericolo, il cui prezzo aumenta man mano che ci si avvicina al loro completo esaurimento e alla loro estinzione. L’eroe del libro è il giovane commerciante Kryštof, che, come suo ultimo ordine, trasporta dal Giappone all’Europa una singola strana pianta ufficialmente estinta, di cui lui stesso non è in grado di trovare molte informazioni. Ma lentamente comincia a capire che intorno a lui si sono messe in modo cose abbastanza. Scopre che la piccola pianta è un parassita, si rende conto che per mantenerla in vita deve piantarla nel proprio corpo, iniziare a nutrirla lui stesso. L’intero libro è un tale orrore poetico, io stesso lo vedo come un’unica poesia mostruosa. Ma dipende sempre da cosa il lettore coglie dal testo.
D: Lei è l’autore di romanzi, ma anche raccolte di racconti, come Mapa Anny, dove le singole storie sono collegate dal personaggio principale. Pensa esista una differenza estetica tra il racconto e la forma del romanzo? Che funzione espressiva hanno nel suo caso?
M: A mio parere, non esistono legami formali solidi da molto tempo. Non so esattamente che significati abbiano oggi un romanzo o un racconto. Mapa Anny appena citata ne è un buon esempio, l’avevo scritta apposta con l’idea che sarebbe stata un mutante letterario, qualcosa al limite. In Repubblica Ceca il libro è stato pubblicato come una raccolta di racconti, ma in Olanda, ad esempio, è stato pubblicato come un romanzo. Ed entrambi hanno ragione. Quello che mi piace è che può essere interpretato in diversi modi. Penso che questa ambiguità si adatti molto meglio al modo di vivere e di pensare di oggi.
D: La fatica dei materiali è un libro molto interessante. Penso che la questione della migrazione sia ancora troppo poco discussa. Come le è venuta l’idea di scrivere un romanzo su questo tema?
M: L’idea è stata una reazione a un sentimento piuttosto intenso di rabbia e vergogna che stavo provando. Mi sono semplicemente vergognato di come abbiamo affrontato la questione dell’emigrazione nel 2015. In un certo senso non ero in grado di capire come la nazione di cui faccio parte potesse essere così codarda. Come potesse odiare le altre persone semplicemente perché non le conosceva. La fatica dei materiali è un libro che ho scritto per un senso di nausea: era una giornata soleggiata, su un’autostrada in Austria hanno trovato un camion con all’interno sessanta persone soffocate provenienti dalla Siria, e nelle discussioni sotto agli articoli i miei concittadini si sono messi ad esultare e a insultare quelle persone anche dopo la loro morte. La prima idea era di scrivere qualcosa che avrebbe fatto davvero schifo a tutti, volevo descrivere in una cinquantina di pagine i venti minuti durante i quali quelle persone erano soffocate. Ma poi ho capito che sarebbe stato troppo anche per me, nessuno leggerebbe un libro del genere e, a conti fatti, non porterebbe a nessun risultato. Così, a mente fredda, ho iniziato a scrivere un testo su un ragazzino di circa tredici anni che da un centro di detenzione scappa in un paese europeo, che sta semplicemente cercando la strada verso suo fratello maggiore che lo sta aspettando in una città senza nome da qualche parte a nord. Si tratta di una storia molto semplice: si gela, il ragazzo sceglie solo dove riscaldarsi, dove dormire, cosa mangiare, cosa bere e, soprattutto, dove trovare un cellulare che lo aiuti a orientarsi, che contenga tutto: mappa, bussola, Facebook, una voce umana. Tutto ciò di cui ha bisogno.
D: Potrebbe descrivere il processo attraverso il quale viene creato un romanzo come La fatica dei materiali?
M: Un processo solitamente piuttosto doloroso. Taglio, riscrivo costantemente, cerco la forma perfetta. All’inizio ho una sorta di teoria, uno scenario di lavoro, che verifico per iscritto. Di solito cambia un centinaio di volte durante il processo di scrittura. Scopro un percorso o un modo inaspettato per risolvere un problema, per costruire un capitolo o una certa situazione. Non c’è nulla di romantico in questo, è un lavoro piuttosto noioso. Di solito alla fine di una giornata lavorativa ho la camicia sudata.
D: Un aspetto interessante del romanzo è sicuramente la dimensione della fisicità. Gli eventi influenzano la psiche di Amir tanto quanto il suo corpo. Tra le altre cose, lei fa anche ampio uso della sinestesia, che pone un accento particolare sulla dimensione sensoriale. Ma vorrei chiederle, qual è il significato che il corpo assume nel romanzo?
M: Assolutamente essenziale. È il tema centrale in tutti i miei libri. La letteratura può essere estremamente fisica, può creare una connessione diretta con il corpo e con i sentimenti del lettore. Può coinvolgervi, attirarvi direttamente nei personaggi, anche se si dovesse trattare di una persona del sesso opposto, con un diverso orientamento sessuale, di una diversa cultura, assolutamente chiunque – e potete davvero sperimentare qualcosa con essa. Simpatizzare nel senso letterale del termine – sentire con qualcuno. Percepire il mondo con lui, a modo suo. In La fatica dei materiali ho voluto spingere questo principio al limite della tollerabilità. Ho immaginato un libro in cui il lettore avrebbe respirato con l’eroe, dove i loro cuori avrebbero battuto all’unisono. Dove avrebbe sentito ogni scricchiolio della neve sotto i suoi piedi. Il libro intero è una grande corsa di orienteering: dall’inizio alla fine c’è del movimento in un paesaggio sconosciuto, la continua scansione dell’ambiente circostante, la ricerca di indizi. È anche una lettura piuttosto claustrofobica, con passaggi che si svolgono in spazi angusti e chiusi. Per alcuni lettori è stato troppo, questo lo rispetto assolutamente.
D: Questa domanda può avere poco a che fare con la dimensione letteraria. Tuttavia, uno degli aspetti su cui il romanzo attira l’attenzione è la questione dell’intolleranza. In Italia la maggior parte delle persone non è affatto empatica nei confronti della questione dei migranti. Al contrario, esempi di esplicita xenofobia si possono trovare spesso anche nel contesto politico. Come percepisce questo problema in Repubblica Ceca?
M: Quando avevo iniziato a scrivere il romanzo credevo ingenuamente che la letteratura potesse almeno fare una piccola differenza. All’epoca la situazione in Boemia era assurda. I rifugiati uno li poteva vedere su Facebook. Sulla base delle quote migratorie, i cechi hanno accolto 12 (dodici!) rifugiati. Tuttavia, era facile percepire tramite i media la sensazione che si stesse lentamente avvicinando la fine del mondo. Mi sembrava che le persone fossero completamente impazzite. Avevano cominciato ad armarsi, a formare gruppi di miliziani, succedeva dappertutto, mio cugino aveva comprato una pistola e io all’epoca gli avevo chiesto a chi volesse sparare. Le uniche persone che avrebbe potuto uccidere con quella pistola erano i suoi stessi figli, nel caso l’avessero trovata nascosta da qualche parte in un cassetto e avessero pensato di giocarci. Il tema della migrazione è stato ripreso dia politici, che si sono serviti perfettamente della paura nelle loro campagne elettorali. E in quel momento ho percepito che la nostra politica era completamente fallita, che invece di spiegare o risolvere la situazione in modo oggettivo, tutti i rappresentanti dello stato ne abusavano per scopi di potere. È proprio da queste sensazioni che ho iniziato a scrivere La fatica dei materiali, volevo che il libro ritraesse l’Europa dalla prospettiva di uno straniero, un rifugiato senza nome, che si muove da solo come un’ombra alla periferia del nostro mondo – e dalla cui prospettiva questo mondo appare come un meccanismo gelidamente mostruoso, un mostro burocratico postcoloniale che produce prosperità mentre divora interi paesi e popoli oltre i suoi confini, costruendo e sovvertendo sistemi politici nei paesi del terzo mondo come meglio crede e producendo, a livello globale, orde di senzatetto e rifugiati che poi odia e teme.
D: Nel saggio Migrazione e intolleranza Umberto Eco afferma che il rapporto con gli altri è segnato da un atteggiamento negativo verso ciò che viene percepito come “diverso”. Questo atteggiamento è molto evidente nel romanzo anche quando Amir incontra altre persone. Eco dice anche che l’unico modo per correggere un tale atteggiamento è attraverso l’educazione. Penso che la letteratura abbia un ruolo importante in questo senso, crede nella funzione pedagogica di un’opera letteraria?
M: La paura dell’ignoto è codificata in noi, temo. Forse centinaia di migliaia di anni fa era in qualche modo evolutivamente vantaggioso essere territoriali, diffidare degli estranei. Ma il mondo è cambiato, in realtà grazie alla tecnologia e ai trasporti si è rimpicciolito. Non possiamo più affidarci agli istinti che ci servivano quando correvamo per le savane africane come scimmie. Al tempo stesso, purtroppo, questi istinti sono ancora lì, semplicemente perché non siamo disperatamente aggiornati per il mondo attuale, il nostro patrimonio genetico ha centinaia di migliaia di anni e non aveva fatto i conti con la globalizzazione, con i sette miliardi di persone sul pianeta, con il cellulare e con Twitter. Capisco perfettamente il fatto che le persone abbiano paura, capisco anche che abbiano dei pregiudizi. Ma quando sentimenti di questo tipo emergono in un individuo, penso che sia suo dovere lavorarci in qualche modo. Per quanto riguarda la funzione pedagogica della letteratura, non credo in qualcosa del genere. Secondo me la letteratura non dovrebbe essere un manuale, ma piuttosto un pugno ben teso o una doccia fredda. Penso che un buon libro debba indurre una persona a pensare, a guardare il mondo da un’angolazione nuova, inaspettata. Dovrebbe farla uscire dalla sua zona di comfort.
D: Un’ultima domanda: a cosa sta lavorando attualmente?
M: A più cose contemporaneamente. Sto finendo una commedia, una sceneggiatura di un film e da diversi anni il mio nuovo romanzo. Ma per principio non parlo di cose che sono in corso. I libri non scritti sono come teorie scientifiche non ancora verificate sperimentalmente, non hanno significato. C’è molto lavoro di laboratorio e ci sono tante camicie sudate davanti a me prima di poterne parlare.