Nel 1928, durante i festeggiamenti per il trentesimo anniversario della fondazione del Teatro d’Arte di Mosca (Moskovskij Chudozestvennyj Teatr, MChAT), il sessantacinquenne Konstantin Sergeevič Stanislavskij viene colpito da un grave infarto. È la fine della sua carriera da attore, ma l’inizio della messa a punto del celeberrimo metodo di recitazione che porta il suo nome. Durante il periodo in Francia, in cui si trasferisce per riprendersi dall’attacco cardiaco, ricomincia a cercare una forma scritta che possa spiegare e divulgare fedelmente le sue teorie, ormai famose a livello internazionale ma spesso fraintese o distorte nel processo di trasmissione.
Stanislavskij prova in precedenza a divulgare la sua visione dell’arte, che nella sua concezione è sinonimo della parola ‘vita’, attraverso un ciclo di conferenze al Teatro Bol’šoj all’inizio degli anni Venti, e poi tratteggiando un romanzo. Nessuno dei due tentativi ha successo, e l’idea viene accantonata. Il conflittuale e difficile rapporto che il maestro ha con carta e penna complica ulteriormente le cose. Negli anni di forzata pausa oltralpe Stanislavskij ritrova però l’ispirazione e il giusto contenitore a cui affidare il suo metodo: un diario scritto dallo studente di arte drammatica Konstantin Nazvanov. Inizia così la stesura de Il lavoro dell’attore su se stesso (Rabota aktera nad soboj), concepito come il primo di una serie di tomi.
La gestazione è lunghissima. Il regista rivede e riscrive più volte ogni singola pagina, mentre la sua assistente Ljubov Jakovlevna Gurevič cerca invano di mettere ordine in quel caos per poter dare il testo alle stampe. L’ombra lunga della censura sovietica complica ulteriormente la situazione, mettendo a repentaglio la pubblicazione del manoscritto e la vita dello stesso Stanislavskij. Il 1928 segna infatti l’inizio della spietata politica repressiva di Stalin, che in poco tempo accentra tutto il potere nelle sue mani. Nel 1932 dichiara Stanislavskij il suo regista preferito, elevandolo a prototipo del socialismo realista in ambito teatrale; che la sua dottrina teatrale non abbia niente a che spartire coi canoni artistici sovietici poco importa. Sia l’emerito attore – di estrazione borghese! – che la sua ultima, preziosa fatica sono strettamente sorvegliati.
Pericolo inconscio
Il cosiddetto “sistema Stanislavskij” nasce nel 1906, quando dopo la quinta replica di Un nemico del popolo di Henrik Ibsen, Konstantin Sergeevič sente di aver recitato in maniera meccanica e assente, nonostante l’apprezzamento del pubblico. Intraprende quindi un attento studio introspettivo del processo che porta un attore a recitare un determinato ruolo, sullo sfondo di una Russia in preda a instabilità politiche, turbolenze sociali e fermento culturale. Moltissimo del materiale a cui attinge quasi trent’anni dopo risale proprio a questo periodo.
Il simposio intellettuale che nel primo Novecento lega a doppio filo l’intellighenzia del paese a quella dell’Europa occidentale si riflette nella precoce accoglienza delle neonate teorie freudiane, molto prima di Francia, Italia e Germania; già nel 1904 appare la traduzione in russo de L’interpretazione dei sogni. La Russia pullula di circoli e centri per l’implementazione delle teorie psicoanalitiche, applicate in studi sperimentali che si spingono fino ad ambiti meno scientifici come pedagogia, arte e letteratura. In un primo momento il nuovo assetto statale guarda con curiosità alla neonata disciplina, riponendo fiducia nel fatto che possa contribuire alla formazione dell’homo sovieticus. Dopo qualche anno e non pochi esperimenti la psicoanalisi viene infine bollata come scienza borghese, troppo incentrata sul singolo individuo per essere utile, un’ideologia minacciosa che va estirpata al più presto. Si susseguono accesi dibattiti sul tema, in cui viene attaccato soprattutto il concetto di inconscio, finché nei primi anni Trenta la materia viene abolita.
Pur senza mai citare il neurologo austriaco né tantomeno avere alcuna pretesa scientifica, il codice attoriale forgiato da Stanislavskij fa ampio uso del termine ‘inconscio’, che all’interno del libro ricorre più di 200 volte. L’interpretazione stanislavskiana della nozione si discosta dall’originale freudiano, ma il suo uso estensivo, unito ad altri punti chiave del sistema troppo astratti rispetto alla compatta solidità del realismo socialista, destano sospetto. La prima ad allarmarsi è Gurevič, che rimprovera il maestro di vivere rinchiuso nelle proprie concezioni artistiche, completamente isolato dal mondo esterno, e tenta invano di metterlo in guardia. Poco dopo anche la commissione appositamente istituita da Stalin per sorvegliare e guidare la stesura dell’opera muove le prime critiche contro il suo autore.
Il metodo Stanislavskij
Contrariamente a quello che si potrebbe essere portati a credere, l’obiettivo del celebre metodo Stanislavskij non è quello di insegnare a recitare, un’incombenza che il suo stesso fautore non ritiene possibile. Lo scopo è piuttosto quello di fornire le basi dell’educazione etica necessaria per l’immedesimazione nel personaggio e nelle circostanze tratteggiate dalla pièce. Alla base c’è la reviviscenza, la capacità di attingere al proprio passato, stimolando la memoria emotiva al fine di recuperare le esperienze e sensazioni personali indispensabili per entrare nella parte. È possibile rappresentare in modo riuscito e credibile soltanto un personaggio che si ha dentro di sé, per questo Stanislavskij è fermamente convinto che l’attore rappresenti sempre e solo se stesso.
L’interprete deve quindi dare vita a un essere umano altro da sé – vivo, completo, conscio delle proprie azioni e pensieri. La componente fisica è perciò importante tanto quanto quella psicologica: l’ispirazione è utile, ma inafferrabile e incostante, e perciò l’attore deve imparare a stimolare indirettamente il proprio inconscio, custode del vissuto di ogni persona, per riportare a galla il materiale che serve a forgiare il mondo interiore del ruolo. Non a caso Stanislavskij battezza questa parte fondamentale del suo metodo “psicotecnica”.
Tutto quello che avviene sul palco è quindi frutto della proficua sintonia tra intelletto, sentimento e volontà, definiti i tre “motori della vita psichica”, combinati con la soggettività propria dell’attore e del rispettivo personaggio. Oltre a procedere allo scavo nella propria memoria emotiva, imprescindibile è anche frugare nel profondo del testo stesso alla ricerca della “vita spirituale” del ruolo, che giustifica e motiva le parole e le azioni che avvengono in scena, come in un secondo processo di reviviscenza. Lo scopo ultimo è il raggiungimento della verità scenica, che non riguarda l’aspetto scenografico né la verità della vita fuori dal teatro, bensì la verità di sentimenti e azioni, liberata da tutti i dettagli della realtà non indispensabili.
Il rientro in patria
Nell’agosto 1934 Stanislavskij rientra a Mosca dal suo soggiorno francese, mentre sullo scenario politico europeo si stagliano le ombre di Hitler e Stalin. Da quel momento fino alla sua morte nell’estate 1938 l’anziano regista rimane chiuso nella sua casa di vicolo Leont’evskij a lavorare sul manoscritto, uscendo solo per brevi visite mediche. Negli anni della sua assenza il MChAT subisce una stalinizzazione forzata, diventando baluardo del regime sovietico e andando inesorabilmente incontro al proprio suicidio artistico. L’impotente autoisolamento del suo fondatore può essere quindi letto come segno di opposizione e resistenza al nuovo ordine politico a lui incomprensibile, che ha però i suoi vantaggi.
Non potendo essere eliminato fisicamente a causa della sua notorietà internazionale, questa sorta di esilio volontario è parimenti soddisfacente per il Segretario generale del PCUS al fine di rimuoverlo dalla società e stravolgerne le teorie. Dal canto suo il maestro, seppur a costo della sua libertà personale e del suo teatro, riesce a mantenere l’autonomia necessaria per portare a compimento la stesura, mentre altri intellettuali del paese vengono perseguitati e uccisi. Il Grande terrore è infatti vicino. Gurevič esorta Stanislavskij a ricorrere all’autocensura e adattare il testo ai requisiti dell’epoca staliniana, ma il maestro si oppone fermamente, dichiarando che le sue teorie mirano a verità universali, alla creazione di una psicotecnica valida ed efficace per tutti i tempi.
L’unica branca della psicologia accettata dal materialismo dialettico sovietico è il comportamentismo, che prende in esame solo la condotta dell’essere umano e ne ritiene insondabile la mente. Il collegamento che Stanislavskij fa tra tra spirito e corpo è quindi inaccettabile, così come la metà più introspettiva del suo sistema; solo la componente pratica rientra nei canoni imposti. Inoltre, il poliedrico lessico coniato in mancanza di termini specifici – espressioni come “linguaggio del corpo” e “comunicazione non verbale” all’epoca non esistevano ancora – combina diverse materie, spesso scientifiche, dando vita a postulati non concreti, nebulosi, incompatibili col marxismo.
In alcuni casi il regista riscrive interi passaggi, aggiungendo definizioni contorte ai concetti chiave per ricondurli in qualche modo alla parte fisica del lavoro dell’attore su se stesso. In altri casi invece difende con coraggio le sue scelte terminologiche facendo leva sull’impossibilità di trovare sinonimi con cui sostituirle, come scrive espressamente in una lettera diretta al Comitato centrale del PCUS. Anche dai vertici del governo le controproposte scarseggiano; vengono fatti compromessi da entrambe le parti. Poco prima della pubblicazione Stanislavskij aggiunge una breve prefazione al volume, in cui sottolinea l’assenza di qualunque significato scientifico dietro all’insieme di vocaboli usati, definendolo “un gergo da attori fatto in casa”.
L’emerito attore però non vedrà mai la versione stampata de Il lavoro dell’attore su se stesso, pubblicato nel 1938 a tre settimane dalla sua morte. Il successo in Unione Sovietica è immediato, e va in ristampa dopo pochi mesi. Per ovviare al problema dei termini ‘sovversivi’ ancora presenti, il governo si affida ai critici, che propongono svariate interpretazioni distorte del libro attraverso le teorie materialiste e comportamentiste. In questo modo Stanislavskij è infine assolto e legittimato post mortem, e le sue teorie riescono a eludere le maglie della censura sovietica, arrivando intatte fino ai giorni nostri.