Nel fantastico mondo di Mark Verlan

Non molto tempo fa, durante un pomeriggio in biblioteca ho scoperto per caso un libretto davvero geniale. Si tratta di una guida illustrata a luoghi, usi e costumi di una piccola repubblica post-sovietica che si chiama Molvanîa: i suoi creatori si sono divertiti a costruire un collage di stereotipi occidentali verso tutto ciò che sta più ad Est, con lo stesso gusto per il satirico e il demenziale del Borat di Sacha Baron Cohen. La Molvanîa è un paese assurdo, dove si parlano lingue altrettanto strambe e la popolazione si distingue per molte bizzarre abitudini, le infrastrutture funzionano male e la burocrazia è praticamente inesistente. Mentre sfogliavo la guida, non ho potuto fare a meno di pensare che Mark Verlan in Molvanîa ci sarebbe vissuto benissimo con i suoi quadri, sculture, installazioni e chissà quali altri progetti. 

 

Il lavoro di Verlan, che in Europa è praticamente sconosciuto anche a chi si occupa di arte contemporanea, nella sua Moldova non era particolarmente apprezzato, insieme alle stranezze che lo rendevano «un clown, artigiano, scultore, poeta, truffatore sentimentale oppure teppista», per riprendere le parole nel catalogo di una sua mostra. E in effetti Mark Verlan (1963-2020) è stato un personaggio stralunato, che ha vissuto gli ultimi anni dell’Unione Sovietica con gli occhi pieni di realismo socialista, spettacoli al circo e astronauti trionfanti e subito si è divertito a pigliare per i fondelli tutta quell’iconografia in modo assolutamente libero. La mancanza di informazioni biografiche precise la dice lunga sulla sua volontà di rimanere un outsider rispetto al sistema dell’arte, di cui certamente gli interessava poco. Solo i nomi delle identità che gli piaceva creare sono rimasti: Marian, Mark, Marik, Marioca sin dodzhea, «figlio della pioggia» e tanti altri rappresentano le sfumature della sua personalità.

 

 

È stato lo stesso Verlan, in una delle sue rare interviste, a raccontare come tutto è iniziato quando era ragazzino: mentre fumava con la sorella sotto un grande albero, «all’improvviso si è sentito forte un tuono, ha iniziato a piovere e qualcosa è successo nel mio cervello. Mi sono reso conto che non sarei mai stato un trebbiatore, elettricista, soldato o cosmonauta, ma un artista. “Figlio della pioggia” è un’allegoria, perché in un certo senso sono nato sotto la pioggia». Sarà l’inizio di un’attività creativa non convenzionale, in cui Verlan affronta qualsiasi linguaggio dalla pittura alla scultura, l’assemblaggio, la grafica, la poesia visiva fino a fotografia e performance, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Chişinău. Tutti questi lavori non si prendono mai sul serio, nati come sono dalle idee assurde ma vincenti di Verlan; come il funerale che celebra nel 1995 per una Barbie trovata senza una gamba per strada con un grande pubblico di cittadini che assiste, o i colbacchi militari in cemento che sembrano escrementi, insieme ai ritratti di Lenin con gli alberi natalizi sostituiti da rigogliose piante di cannabis.

 

In fondo all’artista piaceva molto giocare con tutti i simboli del potere, tanto sovietico quanto della Moldova contemporanea: aveva creato addirittura un’entità statale che si chiamava Reame della Pioggia, fornita di bandiera, lingua ufficiale inventata e valuta personalizzata come solo agli autori di Molvanîa sarebbe potuto venire in mente. Esiste anche una cartina geografica e un mappamondo che Verlan aveva costruito per il Reame, un continente con la forma della Moldova in mezzo alle altre terre emerse. Il paese si spostava ogni volta che Verlan traslocava, come ricorda l’amico Octavian Eşanu, proprio perché attività artistica e personalità per lui erano una cosa sola. Non c’era insomma nessuno studio o laboratorio a parte, la casa di Verlan era il suo regno e insieme la sua fucina di idee e opere in movimento. Questa assenza di confini percepibili dev’essere sempre stata presente in Mark, che nella realtà complessa della Moldova ha vissuto per tutta la vita e ha imparato a farci i conti; tanto più che Cocieri, il paese dov’è nato, è l’unico della Transnistria ad essersi ribellato ai separatisti nel 1991. 

 

Ho conosciuto il lavoro di Mark Verlan mentre lavoravo alla mia tesi di ricerca su una mostra curata da Harald Szeemann, che raccoglieva artisti contemporanei di dodici paesi balcanici. Che in questo gruppo ci siano anche artisti moldavi non è una scelta a caso, tenuto conto che Szeemann viaggia in lungo e in largo dalla Slovenia alla Grecia perché vuole scoprire gli artisti di questa grande regione a sud-est dell’Europa; una zona che per lo sguardo occidentale è sempre stata troppo orientale per essere davvero parte della comunità europea, ma non abbastanza da essere considerata completamente “Oriente”. Non ci vuole molto perché Szeemann, che amava tantissimo il bizzarro e l’inaspettato, rimanga folgorato dai lavori e dalla personalità dell’artista. In fondo penso che abbia visto in Verlan il trickster che non riusciva a trovare altrove nell’arte, il malandrino con le tasche piene di idee e un asso sempre nella manica. A partire dal loro incontro mancato: storia vuole che Szeemann fosse volato dalla Svizzera a Chişinău per discutere il progetto espositivo con Mark Verlan, che però si rende irrintracciabile e sparisce nel nulla per tutta la durata del suo soggiorno. Fatto sta che Verlan si guadagna una sezione personale all’interno di Blood and Honey. Future is at Balkan (2003) alla Fondazione Essl di Klosterneuburg, con venticinque opere tra quadri, ceramiche e litografie. 

 

 

Particolarmente interessanti sono i due oli scelti da Szeemann. Apparentemente lo spettatore ha davanti un esempio del realismo socialista che in Unione Sovietica si trovava in tutti i musei e le gallerie, con statue e monumenti enormi che dominano sulla città in fermento. Quando si guarda questo tipo di opere risalta la staticità del monumento di pietra, solenne come solo il leader del partito può essere, in un contrasto con la velocità della metropoli che però ne è complementare: grandi (monu)menti per altrettanto grandi capitali. Verlan opera proprio su questo rapporto e lo sospende, decide di rendere per un attimo tutto immobile nella città che le riprese di Ėjzenštejn e Dziga Vertov ci avevano fatto sempre vedere in movimento. In Moscow (1994) pare di essere all’interno di un deserto, o meglio di una scenografia di qualche vecchio colossal, con le rovine dei palazzi e dei leader comunisti in pietra che vengono inghiottite dalla sabbia e dal cielo rosso fuoco; New York Under Water allarga il discorso all’America e ci fa vedere la statua della libertà in mezzo all’oceano, poco lontano da una donna che dorme beata nella sua camera subacquea. Non c’è più traccia degli automobilisti impazziti, del turbine di persone che si incrociano nelle strade e delle fabbriche, solo una veduta di qualcosa che ormai è irrimediabilmente in rovina. 

 

Verlan sarebbe tornato in Europa occidentale nel 2011, nello spazio dedicato alla Transnistria che debutta per la prima volta alla Biennale di Venezia. A dire il vero la cartella stampa ufficiale riunisce sotto la Moldova anche gli artisti transinistriani, ma i due paesi hanno mostre separate come si può immaginare dalla situazione politica. Verlan espone insieme ad Aliona Kononova e Igor Avramenko in un collettivo che si chiama Art Group Moe: anziché un padiglione o una piccola galleria in qualche calle di Venezia, la Transnistria sceglie come spazio uno squero, uno di quei cantieri a pelo d’acqua dove vengono costruite le gondole. Gli operai continuano a lavorare sulle barche dentro questo padiglione stranissimo, che forse nessuno fino a quel momento ha immaginato; su un muro è attaccato con lo scotch un foglio dove c’è scritto che quella è la mostra della Transinistria, mentre sulla riva c’è una trovata di Verlan che vince ancora una volta. Il nostro freak infatti ha preso la porta dalla propria casa e l’ha sistemata proprio dietro agli artigiani e alle gondole, con moltissime scarpe e cianfrusaglie appese agli infissi e sulla soglia. Una porta senza pareti o fondamenta attorno che arriva direttamente dall’Est Europa: l’artista non si può separare da ciò che crea e dalla sua fucina, non solo mentale ma anche fisica, e allora se la porta dietro in Italia fino alla città della Biennale.

 

Ogni tanto mi chiedo cosa si sarebbe ancora inventato Mark Verlan, se non fosse morto per un attacco di cuore quasi due anni fa; il Centro d’Arte Contemporanea di Chişinău ha raccolto a partire dal 1995 un sacco di materiale su di lui, un archivio di cui forse a Verlan importava relativamente ma che sarà utile per ricostruire tutto quello che ha fatto nel corso del tempo, insieme al gran lavoro che Octavian Eşanu porta avanti per non farlo dimenticare. Il suo funerale non ha avuto grande risonanza al di fuori della cerchia di amici e conoscenti, una cerimonia al cimitero dove le istituzioni non hanno partecipato, al di là del Centro d’Arte Contemporanea che ha organizzato una parata commemorativa con uno spirito simile a quella per la Barbie di ventisei anni prima. Come racconta Eşanu, la processione ha seguito il feretro e la bandiera creata da Verlan, «un gatto nero seduto in una sorta di yin e yang, come in una posizione di meditazione» su sfondo verde. Si tratta di un omaggio degno di Verlan e della sua ironia. 

 

 

In ogni caso, fino all’ultimo Mark Verlan non ha smesso di portare avanti quell’opera d’arte totale che è stata la sua vita; Lilia Dragnev ricorda che Verlan stava sviluppando delle idee impossibili, come una mostra in orbita e un ascensore per collegare i due poli della Terra, che però lui cercava di mettere a punto come se fossero ordinaria amministrazione. Non sono mancate nemmeno una serie di lettere che scrive alle persone più disparate, tra cui il governo vietnamita, Tina Turner e la nuova Presidente della Moldova, Maia Sandu. Tutta roba che sembra senza senso, se non si tiene conto che «tutto questo ha fatto parte di un grande progetto artistico, assolutamente complesso e continuo, che si chiamava Mark Verlan». 

 

(Le fotografie che ritraggono l’artista sono state scattate da Andrei Benimetchi: Benia pictures production — ЖЖ (livejournal.com)) 

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