Nel tessere è nascosta una danza, la stessa che il ragno compie per ricamare la sua tela. Questo movimento, che in sé contiene il senso della nostra esistenza, sta al confine tra due mondi, quello che sta dentro al nostro corpo e quelli che sta fuori e che si estende tra le esistenze degli altri. È in questo incrociarsi di fili che si tesse la vita del mondo a passo di danza. Senza movimento non esisterebbe la tessitura, senza tessitura non ci sarebbe alcuna esistenza.
Così, l’artista Maria Chiara Calvani, ha fatto di un ponte che bacia assieme due confini, quello della Slovacchia e quello dell’Ungheria, il luogo di un atto magico. Presa dimora presso la residenza d’artista The Bridgeguard a Sturlovo, Maria Chiara ha deciso di tessere assieme le esistenze di chi passava quel ponte e la cui sorte è inesorabilmente legata a quella della sua terra, l’Europa, che le appartenesse questa per un giorno o per nascita. In questa tela Maria Chiara ha inciso il sentimento di questi uomini nei confronti di una terra che ancora oggi è pervasa dall’irruenza di chi l’abita e chi la vive. Disprezzo, nostalgia, tenerezza, ostilità sono solo accenni del ricco ricamo che le parole della tela hanno creato. Incastrati in questa tela di ragno e costretti alla danza ci sono le più svariate espressioni interiori dell’uomo, digerite in questo organismo vivente che è diventato lo sconcertante e prodigioso quadro di esistenze che presto finiranno per squarciarsi e venire sopraffatte da nuovi moti.
Il risultato attuale, ma non finale, che è questa tela parlante sarà possibile osservarlo in mostra dall’11 al 18 marzo a Roma.
Ci lasciano tre impressioni su questa vicenda i filosofi Vincenzo Sorrentino e Dávid Mellár, e il poeta e artista Tom Nobrega, donandoci una riflessione sulla condizione dell’Europa e dei suoi confini in continuo movimento.
Vincenzo Sorrentino
Quella di Maria Chiara Calvani è un’opera-esperienza. Ha una tradizione alle sue spalle, che interpreta in maniera personale. […] Partire e collocarsi su un ponte al confine tra Slovacchia e Ungheria, per incontrare delle persone con le quali e attraverso le quali interrogarsi sul senso dell’Europa, è espressione della natura più profonda del lavoro artistico di Maria Chiara Calvani. […].
Un ponte come luogo della creazione artistica. Ponte su un confine nel cuore dell’Europa. I confini sono ponti e non muri. I ponti non annullano le distanze e non cancellano le differenze, ma le mettono in relazione, salvaguardandole, senza schiacciarle in identità omologanti, soffocanti, violente (come le cesure determinate dai muri). I confini sono soglie. Le soglie non chiudono, sono fatte per essere attraversate: ci spingono a cambiare direzione, a guardare quello che abbiamo alle spalle, ad uscire dal Dentro e ad entrare nel Fuori, a comprendere che ogni Dentro è un Fuori, e viceversa. Basta voltare lo sguardo. Al di là dei ponti non vi è niente di assoluto. Le soglie sono linee di problematizzazione, ci sollecitano ad interrogarci.
Europa. Una parola antica. Come antico è il gesto del cucire. Reso nuovo nell’opera di Maria Chiara Calvani, proiettato nel futuro. Come il parlare e lo scrivere. Parole, ancora e sempre. Trame di emozioni, idee, valori. Lacerati nel loro cuore e ricomposti, con un filo. Il filo dell’arte, il filo della vita, fragile e tenace.
Europa. Tracce remote, volti nuovi: Frontiera, Casa, Sicurezza, Pace, Merda, Libertà, Corruzione, Sogno, Fortezza, Identità, Forza, Minaccia, Passato, Futuro, Crisi, Delusione, Cimitero, Diversità, Speranza, Salvezza.
Giudizi, aspettative, sentimenti, diversi, spesso opposti, confliggenti: mostrano, però, che l’Europa non è qualcosa di lontano o un mero progetto, ma una realtà centrale nella vita della gran parte delle persone, nel bene o nel male. Parole sull’Europa. Parole dell’Europa. Raccolte e scritte su un pezzo di stoffa. Un taglio le attraversa. Unione fragile, che contiene ferite vive nella memoria, che non vanno coperte. L’arte come rammemorazione contro ogni rimozione. Unione che va costruita, cucita, con attenzione, cura, senza forzature, con lo sguardo concentrato a evitare gli strappi e la mente che guarda lontano.
Dávid Mellár – prossimità
[…]
Siamo prima scolpiti e poi cesellati dal linguaggio, dalle parole e dai significati. Impariamo cose sulla specie umana e sul pianeta che tutti condividiamo. Che non ci sono due cose uguali, ma quanto queste cose hanno in comune! Apprendiamo che condividiamo qualcosa non solo con un fungo velenoso o con un albero in fiore, ma perfino con le stelle, qualcosa di essenzialmente ed invisibilmente simile al nostro sostanziale essere creature.
Tutti immaginando ed esperendo il mondo nello stesso momento, lo costruiamo dentro noi stessi. Immaginiamo noi stessi dentro di lui. Creiamo il nostro stesso mondo. Racconti immaginari o reali. Storie di amici o di sconosciuti. Di personaggi morti da tempo o viventi in carne ed ossa. Di animali, piante, corpi celesti, oggetti, creature fantastiche: qualsiasi cosa ed in qualsiasi modo la desideriamo, senza fine. E questo nostro percorso dipende da quali racconti riceviamo e in quali storie ci imbattiamo; che siano bibliche o mitiche, canoniche o apocrife. Che provengano dal folklore o che siano una peculiare prospettiva della nostra creatività. Sogni dall’inconscio collettivo. O ammettiamolo che possa essere entrambe queste cose. E conta anche il fatto che tramandiamo ad altri cose che possono sconvolgere, che trasmettiamo pensieri e sentimenti non inclusivi e stigmatizzanti attraverso testi scritti o narrati; o che viceversa, rappresentiamo questi racconti sotto la luce di una reciproca accettazione ed empatia.
È qui che il contesto nel quali siamo nati, le influenze emotive e psicologiche che abbiamo subito nel nostro stato più vulnerabile e i racconti che abbiamo ereditato sul mondo, diventano cruciali. Perché le storie del mondo, le storie dell’Europa, e anche le storie nazionali sono infinite per l’individuo. Ad ogni nostro incontro, riceviamo un racconto e, in questo processo, noi stessi diventiamo un nuovo racconto che si dipana. Nonostante siano le parole che per prime creano la distanza tra noi e gli altri, è proprio anche attraverso le parole stesse che possiamo ritrovarci.
Come i nostri incontri con le emozioni, le parole ed i loro significati danno colore al nostro mondo interiore, così anche lo fanno i nostri – spesso privi di parole – collegamenti con il mondo esteriore che via via ci definiscono, assieme alle nostre storie personali. Così come i racconti reali o fantastici che ci sono stati fatti sul mondo ci definiscono sempre di più – cosi anche gli incontri che facciamo arricchiscono sempre più la nostra storia personale. C’è una connessione tra il racconto e l’incontro, ed in essa parte del nostro mondo interiore incontra la realtà creata a più mani del mondo esteriore.
Da quando il mondo digitale – un nuovo universo sconosciuto alle precedenti generazioni – ha permeato le nostre vite, molto è cambiato nel modo in cui si intrecciano i nostri incontri ed i nostri racconti. Mai prima d’ora il mondo e i suoi abitanti, con le loro culture e racconti, sono stati così accessibili. Mai prima d’ora è stato così facile sapere cose gli uni degli altri. Mai prima d’ora è stato così facile incontrarsi in uno spazio comune senza essere vicini gli uni agli altri. Quello che questa rivoluzione digitale e virtuale nello spazio della rete ha offerto all’umanità è vicino al miracoloso, ma è anche estremamente utile allo stesso tempo.
Nel frattempo però, lo sbiadirsi dei confini tra il mondo digitale e la realtà sta continuamente avvenendo e continua ad avvenire anche per noi, senza che spesso ce ne rendiamo conto. In altre parole, in funzione di quanto tempo noi spendiamo nello spazio digitale, i nostri incontri con gli altri e la condivisione dei nostri racconti possono prendere strade differenti. Questo tipo di socializzazione digitale può portare alla solitudine ed alla alienazione, ma non è in grado di sostituire il nostro istinto sociale che esiste dall’alba dell’umanità. Solo nello sperimentare la vicinanza dell’altro la compassione e l’accettazione possono diventare una realtà, il che significa che il nostro ingresso nel mondo digitale rischia di cancellare una cosa: la prossimità.
E se c’è una cosa che l’essere Europeo significa per me, è la prossimità. La vicinanza fisica dell’altro. Di un’altra lingua, di un differente dialetto, di una terza nazione, di un quarto paese, di una quinta cultura. La prossimità di toccare pelle, capelli, occhi. La persistente vicinanza dello straniero. Alimentata dal desiderio di conoscerlo. Dall’innata curiosità di sapere cosa l’altro possa essere. Distanze alla portata, aree densamente popolate. Non solo in termini di chilometri, ma anche di spirito. Persone, l’una sull’altra, piccoli villaggi remoti, le loro piccole nascoste storie e tradizioni. Incontri. Un incrocio di sguardi.
Forse non c’è altro luogo nel mondo dove puoi sperimentare così intensamente, nel tessuto della realtà, quanto culture, tradizioni, linguaggi e generazioni possano effettivamente interagire. C’è una incredibile abbondanza di opportunità di praticare l’empatia nella vita di ogni giorno, di mettersi nei panni degli altri, e di vedere te stesso attraverso lo sguardo altrui. Un sentimento di stupore e familiarità circola continuamente nell’anima. Anche in gruppi variegati, se tu fai una certa attenzione, salta sempre fuori che stiamo parlando della stessa cosa, che stiamo raccontando le stesse storie, soltanto, sempre in modo differente.
Proprio come i racconti, i linguaggi e le parole possono avere differenti significati e possono apparire diversi: all’inizio, ci sembra di non poterli comprendere, ma con la continua prossimità del diverso da sé e dell’altro da sé, finiamo sempre per capirci vicendevolmente, se siamo aperti a darci questa opportunità. E perché no, visto che questo spazio pieno di connessioni e distanze superabili, questa storica, mistica terra di Europa, è essa stessa vicinanza: una raggiungibile prossimità di comprensione e cognizione.
Bugie bianche – Tom Nóbrega
Parole bianche ricamate su teli bianchi. Bianchi fili cuciti su frammenti di tessuto, i cui orifizi, piuttosto piccoli, quasi non permettono al refe di passare attraverso. Pezzi di stoffa, fragili nella loro semi trasparenza, ci ricordano che non c’è altro modo di pensare all’Europa se non a questo colore.
Qualcuno ha scelto la parola “delusione”; la trasparenza non è che una bugia bianca, un trucco per fingere che qualcosa di fin troppo evidente non sia mai accaduto lì. Qualcuno sceglie la parola “sicurezza”, essere bianchi è un passaporto: l’unico che ti garantisce di non essere fermato dalla polizia. Qualcuno sceglie la parola “privilegio”, il privilegio di concedersi una certa distrazione: il bianco è il fenotipo di chi può permettersi di non pensare al colore. Qualcuno sceglie la parola “xenofobia” ci sono macchie di sangue nel bianco, teli bianchi proiettano spettri bianchi. Qualcuno sceglie la parola memoria; non importa quanto tu possa faticare a sbiancare questo panno, alcune tracce restano impossibili da lavare. Qualcuno sceglie la parola “confine” ci sono macchie in questa cartografia, che appaiono ovunque lungo le linee arbitrarie tracciate su carta bianca da un gruppo selezionato di persone che ha deciso di imporsi invadendo territori lontani.
Qualcuno sceglie la parola colonizzatori, è una storia di fantasmi, i cui personaggi si fingono immateriali mentre fanno affari con i corpi degli altri. Qualcuno sceglie la parola “libertà”, la favola in corso dei colletti bianchi, che sfruttano costantemente il lavoro altrui. Qualcuno sceglie la parola “fortezza”, lo strano gioco di un territorio ossessionato dalla conservazione dei propri confini, che si dimentica opportunamente di aver costruito il proprio potere e la propria fortuna invadendo i confini altrui. Qualcuno sceglie la parola “scheggiato”, le bugie bianche si frantumano, sono tutt’altro che innocue, la trasparenza è tagliente e quando si rompe suona come un’arma. Qualcuno sceglie la parola “pace”, le sue finestre chiuse sono sempre dotate di allarmi, sempre pronte a qualsiasi attacco.
Qualcuno sceglie la parola “tolleranza”, il bianco non si considera un colore, rifiuta tutte le sfumature della luce incapace di assorbire le differenze. Qualcuno sceglie la parola “malattia”, nessun colore della pelle è realmente bianco, solo le nostre ossa e i nostri denti lo sono. Qualcuno sceglie la parola “bordo”, il candore vince, la vita continua a giocare con gli scheletri, decidendo quale morte è accettabile e quale no.
Sarà possibile visitare la mostra a Roma, fermata B della Garbatella, via delle Sette Chiese 78. Il progetto verrà presentato l’11 marzo alle ore 18, mentre sarà possibile visitare l’installazione dall’11 al 18 marzo dalle ore 18: alle ore 20:00.