Pubblichiamo qui la trascrizione della tavola rotonda sul teatro contemporaneo dei Balcani con Ivan Medenica, Sasho Ognenovski e Dubravka Vrgoč, coordinati da Natasha Tripney, svoltasi durante il POLIS Teatro Festival. Il video dell’incontro, tenutosi in inglese, è reperibile cliccando su questo link.
Natasha Tripney: Buon pomeriggio. Prima di iniziare vorrei che ci prendessimo un attimo per riconoscere che in questo momento la Serbia sta attraversando un periodo di lutto per le sparatorie avvenute in quest’ultima settimana, una delle quali ha colpito una scuola. Penso sia importante tenerlo a mente durante la conversazione. Il mio nome è Natasha Tripney, sono una critica e scrittrice che vive tra il Regno Unito e Belgrado, sono l’editor internazionale di The Stage, giornale che si occupa dell’industria dello spettacolo, e sono anche l’editor di See Stage, portale online di critica teatrale per l’Europa sud-orientale. Vorrei ora presentare gli altri partecipanti a questo incontro in cui discuteremo il teatro contemporaneo nei Balcani.
Abbiamo qui con noi Ivan Medenica, docente di Storia della drammaturgia e del teatro mondiale alla Facoltà di Arti drammatiche di Belgrado, critico teatrale pluripremiato e collaboratore di riviste sia nazionali che internazionali. È presidente di numerosi simposi internazionali di critici e accademici, e il suo libro The tragedy of initiation or the inconstant prince è stato premiato come miglior libro sul teatro pubblicato in Serbia nel 2017. È stato il direttore artistico dello Sterijino Pozorje di Novi Sad, il principale festival teatrale nazionale della Serbia, tra il 2003 e il 2005, e il direttore artistico del prestigioso Bitef (Festival internazionale del teatro di Belgrado) tra il 2015 e il 2022.
Con noi c’è anche Sasho Ognenovski, critico teatrale e communicologo macedone. Ha pubblicato cinque raccolte di poesie, due libri di spettacoli per bambini, due spettacoli e due romanzi. Il suo ultimo spettacolo, Citadel, è stato tradotto in inglese e pubblicato dalla casa editrice Lulu del North Carolina. Scrive regolarmente di teatro e letteratura per varie riviste macedoni, serbe ed europee e vari portali online, tra cui Plays International & Europe, ed è caporedattore della rivista letteraria Literary Elements e della rivista online Elementi.
Abbiamo poi Dubravka Vrgoč, anche lei critica teatrale ed editor per il quotidiano croato Vjesnik, collaboratrice di riviste culturali sia in Croazia che all’estero. Lavora come direttrice artistica del World Theatre Festival dal 2003, ed è stata la direttrice artistica del Zagreb Youth Theatre dal 2004 al 2014, mentre dal 2014 al 2022 è stata sovrintendente e direttrice artistica del Teatro Nazionale Croato. È stata presidente dell’European Theatre Convention per tre mandati, e dal 2015 dirige la European Theatre Academy for Young European Producers al Festival d’Avignon. È stata insignita dell’Ordine della Stella d’Italia per il suo contributo nell’espansione dello scambio della cultura teatrale tra Italia e Croazia.
L’argomento di cui andremo a parlare oggi è il teatro contemporaneo dei Balcani, e sarebbe utile chiarire innanzitutto cosa si intenda con il termine “Balcani”. Questa conversazione richiederebbe ben più dei cinque minuti che abbiamo a disposizione per riassumere al meglio la questione, ma potremmo dire che la geografia, la lingua, la storia e la cultura hanno tutte un ruolo nel definire cosa intendiamo quando parliamo di Balcani. C’è in gioco anche qualcosa di più intangibile, credo, una questione di come la regione si percepisce e come viene percepita dall’esterno. Oggi, passeggiando per Ravenna, stavamo ammirando i mosaici, eravamo in un museo e ci è stato chiesto di abbassare un po’ il volume della voce, al che Ivan ha risposto “Scusateci, siamo dei Balcani”. Ecco, forse questo rende un po’ l’idea di questa percezione.
Quando parla dei Balcani, Žižek è solito dire che la regione inizia a Est del luogo in cui ci si trova, per cui gli sloveni credono che i Balcani inizino a Est della Slovenia, i Croati a Est della Croazia e così via. Ma su una cosa possiamo essere d’accordo: il teatro dei Balcani non è una realtà omogenea, non c’è un solo teatro, c’è invece una compresenza di scene ben distinte. Alcune si sovrappongono, altre sono più isolate se paragonate alle altre, è il caso della scena del Kosovo, di cui abbiamo visto il bellissimo Burrnesha di Jeton Neziraj ieri sera. Tra queste scene a volte ci sono degli elementi comuni, dei riferimenti culturali o persino delle lingue condivise, c’è la complessa eredità della Jugoslavia, e c’è un passato comune che in un certo senso non è ancora passato. Anche il fatto che nella regione ci siano parole diverse per dire teatro, gledališče, kazalište, pozorište, ciascuna con connotazioni leggermente diverse su cosa sia il teatro e come viene percepito, ecco, penso sia un esempio molto calzante di come esista un teatro ma ne esistano anche diversi.
Darei quindi inizio alla nostra discussione concentrandoci sul contemporaneo, fornendovi uno sguardo d’insieme sulla scena contemporanea di ciascuno dei Paesi qui presenti, ma tenendo anche a mente che sarà per forza di cose un quadro incompleto del teatro dei Balcani. Possiamo iniziare con Sasho: ci daresti una panoramica della scena macedone?
Sasho Ognenovski: Grazie. Sono Sasho Ognenovski, vengo dalla Macedonia e sono un critico teatrale. Vi ringrazio molto per l’opportunità di raccontarvi brevemente quello che è il teatro macedone.
Il Teatro nazionale macedone fu fondato 79 anni fa, dopo la Seconda guerra mondiale, nell’allora Jugoslavia. In quel periodo vennero fondate e istituite nelle città principali tutte le istituzioni professionali del teatro macedone, che facevano parte di quelle jugoslave. Queste istituzioni erano otto in tutto, tre delle quali site a Skopje, e il repertorio dell’epoca era composto principalmente da opere classiche, di autori in prevalenza russi, o di autori macedoni che si ispiravano a eventi storici avvenuti sotto l’occupazione ottomana e al conflitto di classe tra le due guerre. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia e l’indipendenza della Macedonia, oggi chiamata Macedonia del Nord, il numero di istituzioni nazionali, sovvenzionate dal Ministero della Cultura, salì a sedici, di cui sei a Skopje. Lì troviamo il Teatro nazionale macedone, il Drama Theatre, fondato nel 1946, il Comedy Theatre, fondato nel 2010, il Teatro per bambini e ragazzi, fondato nel 1993, il Teatro albanese e il Teatro turco, che sotto la Jugoslavia erano un’unica istituzione; mentre le altre città con il loro teatro nazionale sono Bitola, Prilep, Kumanovo, Shtip, Strumica Veles, Gostivar, Tetovo (il cui teatro è albanese perché la popolazione è prevalentemente albanese) e Ohrid.
Per quanto riguarda la gestione e il management delle istituzioni teatrali, è il Ministero della Cultura a occuparsene. Sovvenzionate dal ministero, nel 2023 le istituzioni nazionali hanno portato avanti 48 progetti, 42 dei quali basati su testi di drammaturghi internazionali, e i restanti 6 di macedoni. 26 registi erano macedoni e 8 provenienti dalla regione, tra questi troviamo Dino Mustafić, Branko Brezovec, Veljko Mićunović, Olja Lozica, Kokan Mladenović, Blerta Rustemi, Nela Vitosević e Vladimir Milčin. Per quanto riguarda la programmazione, il Ministero della Cultura macedone sceglie ogni anno un tema o delle priorità: alcuni anni si sceglieva di concentrarsi sui drammaturghi macedoni, altri sui drammaturghi internazionali, ma in questi ultimi anni la preferenza viene riservata ai macedoni.
Esistono anche diverse realtà indipendenti, emerse negli ultimi dieci anni, che affrontano temi politici e sociali con un linguaggio teatrale completamente nuovo. I gruppi indipendenti più importanti della Macedonia sono Golden Elets, Wonderland, Artopia e Shtrih. I Golden Elets sono attivi dal 2020 e si concentrano su forme brevi come il monodramma. Hanno messo in scena un progetto molto interessante, tratto dal Diario di un pazzo di Gogol’ e ibridato con Lu Sin, mettono molta cura nei loro spettacoli e hanno davvero fatto presa sul pubblico. Poi c’è Artopia, un’ONG e gruppo teatrale indipendente che affronta questioni politiche di particolare rilevanza nel dibattito pubblico in Macedonia, e che all’attivo quattro progetti: Say Hi and Blow Me, per la regia di Biljana Radinoska, Experiment di Jane Spasić, Rancidness di Vladimir Milčin e The Shee(i)t di Irem Aydin. Anche Wonderland, fondato da Nela Vitošević e Vasil Hristov, è uno dei gruppi indipendenti più interessanti della scena. Hanno messo in scena una bellissima produzione di Boat for Dolls di Milena Marković, una delle mie preferite, e si occupano spesso di problemi sociali e inclusione nel teatro. L’ultimo collettivo, Strih (che in macedone significa taglio), è stato fondato appena un anno fa, ma conta tra le sue fila artisti giovani e molto capaci come Ava Huseini, Tomislav Davidovski, Janka Lefkova e Marjan Naumov. Hanno già dato vita a dei progetti molto interessanti, penso si cimenteranno presto con nuove forme sperimentali e sarà interessante vedere cosa porteranno sulle scene ai festival in Macedonia.
Quanto ai festival, menzionerò soltanto i due principali. Il primo è il Festival teatrale macedone Vojdan Černodrinski, primo drammaturgo a scrivere in macedone e autore di Macedonian Blood Wedding, una tragedia del 1900 che tocca temi come l’assimilazione culturale durante l’occupazione ottomana. Il festival è stato inaugurato nel 1965 ed è oggi alla cinquantasettesima edizione, vi partecipano le istituzioni teatrali nazionali macedoni e c’è anche una lineup di artisti in gara. Il secondo festival è il MOT, il Festival di teatro internazionale che la prossima edizione ospiterà anche ErosAntEros, ed è una delle realtà più aperte e seguite. Oggi è alla sua quarantottesima edizione e spero sarà appassionante come le precedenti, che hanno collaborato da vicino con il Bitef e altre realtà. Il MOT ha anche ospitato nomi europei molto importanti come Thomas Ostermeier, Tomi Janežič, András Urbán e molti altri.
Per quanto riguarda i drammaturghi macedoni, si servono tutti di un linguaggio molto forte per trattare sia eventi storici che movimenti sociali contemporanei. Oltre ad autori di inizio Novecento, come Vojdan Černodrinski, Vasil Iljoski e Anton Panov, i nomi di punta del panorama contemporaneo macedone sono Goran Stefanovski, che purtroppo è scomparso qualche anno fa, Jordan Plevnes, che tocca spesso temi storici, Dejan Dukovski, uno dei migliori drammaturghi, il suo La polveriera è stato uno degli spettacoli più rappresentati e di successo; poi ci sono Jugoslav Petrovski, che ha ricevuto un premio nel Regno Unito, e due drammaturghe, Eva Kamchevska e Katerina Momeva. Tutte le loro opere sono spesso incluse nei repertori e, cosa che ritengo particolarmente rilevante, in Macedonia il teatro viene letto e messo in scena. Negli ultimi tempi ci si è aperti sempre più alla possibilità di pubblicare testi teatrali sia prima che dopo il loro allestimento in teatro, e per me è davvero importante avere i testi su carta, così da non perderli e non farli finire nel dimenticatoio. Stiamo anche lavorando a un archivio elettronico dei testi teatrali macedoni, anche tradotti in inglese, per renderli disponibili su larga scala.
Vi ringrazio per l’attenzione.
Natasha: Grazie a te. Dubravka, ci daresti una panoramica della scena contemporanea in Croazia?
Dubravka Vrgoč: Innanzitutto vorrei ringraziare Agata per avermi invitata a essere qui con voi oggi, specialmente perché non sono mai stata al POLIS, l’ho trovato una realtà molto affascinante. Non è solo interessante, è anche utile per tutti noi avere uno sguardo d’insieme su cosa succede nei Balcani, perché anch’io, pur provenendo dai Balcani, non conosco molto del teatro che viene annoverato in quest’etichetta.
Vorrei iniziare a parlare della scena croata dalla mia esperienza personale e professionale. Negli anni Novanta sono stata una critica per molti quotidiani, stavo a teatro sei giorni su sette e guardavo centinaia di spettacoli atroci. Per il teatro croato era davvero un brutto periodo: eravamo in guerra, nessuno veniva in Croazia e anche noi non potevamo andare da nessuna parte, eravamo completamente isolati. All’epoca c’erano due festival, l’Eurokaz e l’International Dance Open, entrambi ancora attivi, ma gli artisti avevano paura di venire da noi e ci sentivamo come se vivessimo in un ghetto, ci conoscevamo tutti e c’erano sempre gli stessi registi che andavano da un teatro all’altro, lo stesso pubblico e gli stessi attori. La fine degli anni Novanta è stata una catastrofe per il teatro croato, eravamo fermi nella nostra estetica, nella nostra poetica e nelle nostre aspettative. È stato un periodo di grande crisi, il pubblico aveva iniziato ad abbandonare il teatro.
All’inizio degli anni Duemila, nel 2003, il mio collega Ivica Buljan e io abbiamo deciso di fondare il World Theatre Festival, perché avevamo davvero bisogno di sentirci in contatto con il resto d’Europa. L’obiettivo era non solo quello di informare il pubblico croato sulla realtà europea, ma anche quello di tenere aggiornati gli artisti croati, perché non avevano nessun metro di paragone con la scena internazionale, e quel tipo di consapevolezza era necessario, specialmente dopo la guerra. Abbiamo iniziato con il World Theatre Festival ed è stato un successo, negli ultimi vent’anni abbiamo presentato quasi tutta l’attuale scena mainstream del teatro europeo, tra cui grandi nomi come Peter Brook, Pëtr Fomenko, Eimuntas Nekrošius, Lev Dodin, Thomas Ostermann è stato nostro ospite più volte, Frank Castorf, Milo Rau, qualsiasi grande nome vi venga in mente è passato per il nostro festival, e ci ha aiutato molto a sentirci parte dell’Europa e del teatro europeo.
Nel 2004 sono diventata direttrice artistica dello Zagreb Youth Theatre. Ho messo in chiaro sin da subito che presentare il teatro europeo in Croazia non era sufficiente, era necessario portare anche il teatro croato in Europa. Dovrebbe essere uno scambio equo, siamo una nazione piccola che parla una lingua minore, ma siamo anche parte dell’Europa, qualsiasi cosa significhi per noi. Così, quando ho iniziato a lavorare lì, ho fondato il programma European theatre in Zagreb Youth, che ogni mese presentava un diverso teatro europeo con un orientamento artistico simile al nostro, e abbiamo iniziato anche noi a mettere in scena i nostri spettacoli all’estero. Il primo è stato Bobo Jelčić, che si era già esibito all’estero ma che nel 2006 ha messo in scena S druge strane, una performance con quattro attori dello Zagreb Youth Theatre che ha riscosso un enorme successo. È la storia di una famiglia, con una madre e un figlio e altri personaggi del vicinato, ha ricevuto ottime critiche in tutti i teatri dove ci siamo esibiti e finalmente siamo riusciti a essere più presenti sui palchi europei.
Dopo le rappresentazioni all’estero e dall’estero abbiamo dato il via alle coproduzioni. Nei dieci anni in cui ho lavorato lì ho seguito quasi 40 coproduzioni con teatri europei, eravamo l’unico teatro croato a ricevere fondi dall’Unione Europea ancora prima di diventare membri. Questi finanziamenti hanno reso possibili delle coproduzioni davvero belle, ce n’è stata una di cui vado particolarmente fiera. Era una coproduzione con il Birmingham Rep, lo Staatstheater di Dresda e il teatro di Bydgoszcz, in Polonia, lo spettacolo si intitolava Europa. Era il 2010, avevamo chiesto a quattro drammaturghi di scrivere qualcosa sul tema dell’Europa e abbiamo passato un anno a fare ricerche su cosa significhi Europa in diverse parti del continente. A Dresda c’è stato un laboratorio in una casa di riposo, a Zagabria abbiamo allestito un laboratorio per i bambini, mentre a Birmingham abbiamo lavorato con i migranti, perché abbiamo scoperto che lì c’è una grande comunità polacca, ci sono addirittura voli giornalieri da e per Bydgoszcz. Così dopo un anno abbiamo terminato il copione, scritto in quattro lingue, e scelto come regista Janusz Kica: nato in Polonia, attivo in Germania e sposato con un’attrice croata, ci sembrava la combinazione perfetta. Abbiamo lavorato per un mese a Zagabria, avevamo due attori da Birmingham, due da Dresda, due da Zagabria e due da Bydgoszcz, ma poi sono emersi dei problemi. Una delle attrici era nera, e non so se lo sapete ma la Croazia all’epoca non era per niente abituata a vedere persone nere, e quest’attrice non si sentiva a suo agio perché le persone continuavano a fissarla. C’è stato un momento in cui voleva tornare a casa, il che sarebbe stato davvero rischioso per la coproduzione, ma poi ha scelto di restare e alla fine non voleva più andarsene. Davvero, con le coproduzioni non sai mai come inizieranno e come andranno a finire, ma questa è andata benissimo. Ci siamo esibiti nelle quattro città, in ciascuna delle città lo spettacolo era nella lingua del posto, con i sottotitoli in tre lingue diverse, ed è stato fantastico.
Ci siamo impegnati molto per presentare il teatro croato in Europa e quello europeo in Croazia, abbiamo anche messo in scena uno spettacolo in anteprima mondiale al La MaMa di New York nel 2010. L’abbiamo preparato a Zagabria, completamente in inglese, inizialmente saremmo dovuti restare a New York per una settimana ma siamo rimasti per tre settimane, poi siamo tornati a Zagabria, abbiamo tradotto il testo in croato e l’abbiamo rimesso in scena in Croazia. Volevamo dimostrare, con questi dieci anni di lavoro, che tutto è possibile: volevamo attraversare dei confini non solo geografici, ma anche culturali e artistici.
Nel 2014 sono passata dallo Zagreb Youth Theatre al Teatro Nazionale, che in quel periodo non godeva di grande popolarità. Se si chiedeva a qualsiasi passante nella piazza principale di Zagabria cosa pensasse del Teatro Nazionale la risposta era sempre “biglietti costosi, abiti eleganti e spettacoli noiosi”, e volevamo che le cose cambiassero. All’inizio del mio mandato il teatro era vuoto. Il pubblico dell’opera era over 65, quello del balletto era over 65 con i nipoti e agli spettacoli non c’era proprio nessuno. Era un’istituzione molto tradizionale, molto conservatrice, e continuavo a chiedermi quale significato potesse avere il Teatro Nazionale nel ventunesimo secolo. È una bella domanda, perché il Teatro Nazionale è stato fondato nel diciannovesimo secolo per promuovere la cultura, la letteratura e la lingua nazionale, ma che significato ha in un’epoca di apertura e globalizzazione? Siamo consapevoli di tutto ciò che ci circonda, perciò dovremmo proporre e promuovere delle nuove idee sul teatro, dovremmo andare oltre quella vecchia idea tradizionalista e conservatrice. Così abbiamo organizzato degli eventi gratuiti sulla piazza di fronte al teatro: abbiamo cantato dalle porte e dalle finestre aperte, gli attori andavano in giro a leggere poesia e il corpo di ballo si esercitava su un grande palco sul prato lì vicino. Ci siamo anche spostati nei vari quartieri di Zagabria, invitando le persone a venirci a vedere. Così il pubblico ha ricominciato pian piano a fidarsi, e dopo soli due anni e mezzo abbiamo ripreso popolarità. Nel 2019, prima della pandemia, il teatro era pieno al 96% sia nell’opera che nella prosa e nel balletto, con un box office di due milioni di euro.
Per il teatro di prosa abbiamo scelto di mettere in scena testi croati contemporanei, già durante il periodo allo Zagreb Youth Theatre mi ero accorta che alle persone piacevano molto. Specialmente dopo la guerra, era bello per loro poter sentire sul palco persone che parlavano dei loro problemi, persone che potevano effettivamente incontrare per strada, nel quartiere, persone in cui potevano rispecchiarsi. E se mettiamo a confronto, ad esempio, 3 Winters di Tena Štivičić con Shakespeare, Čechov o Molière, Štivičić aveva il 50% di pubblico in più. Ero sorpresa anch’io, ma quando ci ho riflettuto ho scoperto che gli spettatori volevano storie legate al quotidiano in cui rivedersi, storie che toccassero la contemporaneità e le loro difficoltà di ogni giorno. Penso sempre che il teatro non sia il posto da cui aspettarci risposte, ma che sia invece il modo migliore per interrogare la realtà, per far sì che tutti si possano fare domande sulla propria epoca e sulle proprie vite. Quanto alla mia esperienza con i testi croati negli ultimi dieci anni, ho già citato Tena Štivičić, poi vale la pena citare Ivana Sajko, il testo Pentagram messo in scena con lo Youth Theatre, dove abbiamo invitato cinque giovani scrittori (Igor Rajki, Filip Sovagović, Nina Mitrović, Damir Karakaš, Ivan Vidić) per mettere insieme dei racconti brevi su Zagabria, e poi gli adattamenti di romanzi famosi.
Quindi sì, questa è a grandi linee l’esperienza al Teatro Nazionale. La cosa che ho trovato particolarmente emozionante è che alla fine del nostro mandato avevamo istituito un premio per il miglior testo teatrale e per il miglior drammaturgo, che per cinquant’anni non era più esistito al Teatro Nazionale. Abbiamo concluso il mandato nel settembre 2022, io e il mio team abbiamo lasciato il Teatro Nazionale per motivi politici, ora questo premio già non esiste più, ma ci abbiamo provato e abbiamo avuto due anni di premi.
Un altro aspetto molto interessante è la scena indipendente. Già negli anni Ottanta il teatro croato aveva una scena underground molto forte, ma negli ultimi mesi ho visto due spettacoli molto interessanti – tre, in realtà, allestiti in spazi molto piccoli. Uno in una casa e uno in un appartamento, uno al Kunst Teatar, che due anni fa ha iniziato a mettere in scena spettacoli in una piccola casa del quartiere di Trešnjevka, e gli altri due all’EXIT, attivo da vent’anni, che ha un palco molto piccolo in un appartamento in affitto. I posti a sedere sono pochi, una cinquantina, ed è quasi come essere in salotto a casa di amici. Di solito allestiscono spettacoli contemporanei con tre o cinque attori, e l’atmosfera è molto intima. Si parla di argomenti semplici e quotidiani, amicizia, amore, tradimenti, ma l’ambiente così intimo rende tutto davvero toccante. In questo spettacolo, I IS AND IS NOT, c’erano due attori, Livio Badurina e Jelena Miholjević, che facevano teatro fisico, con pochissime parole, in un appartamento con meno di quaranta persone. È qualcosa di completamente nuovo nel teatro croato, e penso si svilupperà ulteriormente in futuro.
Ad ogni modo, vorrei solo aggiungere che se parliamo dei Balcani siamo ancora molto distanti gli uni dagli altri. Non sappiamo molto delle altre scene, ed è arrivato il momento di essere più presenti, di essere più creativi e trovare degli spazi per lavorare insieme e far vedere cosa siamo capaci di fare.
Natasha: Grazie mille. Ivan, ti andrebbe di presentare il punto di vista serbo, anche alla luce di quanto detto da Dubravka?
Ivan Medenica: Grazie, Natasha, e ringrazio anche Agata e Davide per avermi invitato a un incontro così interessante. Non penso di voler fornire una panoramica storica del teatro serbo, vorrei piuttosto iniziare mettendo in discussione la nozione stessa di contemporaneità. Ci hai chiesto di presentare la realtà contemporanea dello spettacolo nei nostri Paesi, e se parliamo di contemporaneità o novità, il contesto serbo ha un punto di riferimento ben preciso.
Come Dubravka farò riferimento al mio percorso professionale, e questo punto di riferimento, che prima non esisteva e che ancora non esiste in altre parti dell’ex Jugoslavia, è il Bitef, il Belgrade International Theatre Festival. Il Bitef, fondato nel ’67, è a oggi un festival molto affermato e ospita artisti da tutto il mondo, non solo serbi o europei. Ad esempio, il primissimo spettacolo a essere rappresentato al Bitef nel ’67 era di una compagnia del Kerala, India. Quindi sì, il Bitef è sempre stato un punto di riferimento sulla contemporaneità nel contesto globale, perché dobbiamo comunque tenere a mente che non possiamo parlare di novità o contemporaneità in termini universali. Qualcosa che può sembrare nuovo a Belgrado può essere superato a Ravenna, e la faccenda si complica quando si parla di culture e repertori non europei e non occidentali.
Quando sono diventato direttore del Bitef, nel 2016, il festival era ormai un evento locale, con artisti provenienti da Europa, ex Jugoslavia eccetera, senza più ospiti internazionali, e il mio primo obiettivo è stato quello di riportare a Belgrado il teatro non europeo. Una delle cose di cui sono più orgoglioso è che nei sette anni del mio mandato abbiamo potuto assistere a Belgrado a spettacoli provenienti da Cina, Singapore, Iran, Libano, Nigeria, Messico, Brasile e tantissime altre coproduzioni con attori africani o tedeschi. Il Bitef è sempre stato attento all’innovazione nel contesto del teatro mondiale. Nella prima edizione, quella del ’67, la Jugoslavia, Belgrado e il Bitef sono stati uno spazio unico al mondo dove professionisti del teatro provenienti da Est e da Ovest hanno potuto incontrarsi. Era la Jugoslavia di Tito, del Movimento dei Paesi non allineati, e siamo orgogliosi della leggenda che vede il Bitef come punto d’incontro tra il guru polacco Jerzy Grotowski e il Living Theatre, una delle compagnie americane d’avanguardia più famose dell’epoca, incontro che ha poi permesso a Grotowski di tenere delle lezioni negli States e organizzare dei laboratori. Per cui di nuovo, è davvero un punto di riferimento per lo scambio tra teatro locale e mondiale. Non fornirò una visione d’insieme sulle tendenze o sui nomi più noti, ma vale la pena menzionare Ljubiša Ristić e il suo KPGT, un autentico baluardo della nuova contemporaneità nel teatro jugoslavo, e realtà indipendenti come il DAH, una compagnia femminile che si ispira al lavoro di Eugenio Barba e delll’ODIN Theatre.
Negli anni Novanta, però, a causa della guerra, vi fu una rottura. Il Bitef non fu un festival internazionale per due edizioni dopo le sanzioni internazionali imposte alla Serbia, ma Jovan Ćirilov e Mira Trajlović, fondatori e direttori artistici del festival, scelsero di continuare anche in un contesto così difficile, e il Bitef perse la lettera I, ospitando solo spettacoli locali. Alcuni critici e artisti osteggiarono questa decisione, anch’io all’epoca ero molto arrabbiato, perché era come se avessimo costruito dei villaggi Potëmkin per dare l’impressione che fosse tutto normale e che andasse tutto bene, ma col senno di poi penso che Ćirilov abbia fatto la scelta giusta, rendendo possibile la continuazione del festival anche in una situazione così critica. In questo periodo di isolamento non ci si poteva spostare e le compagnie estere non potevano venire a Belgrado, ma molti dei miei studenti, all’epoca giovani produttori, iniziarono a creare dei punti di riferimento comuni e degli spazi di aggregazione su Internet, così da poter restare aggiornati sul contesto anche senza la possibilità di vedere direttamente le produzioni estere, cosa che per me è stata cruciale.
Poi, a metà degli anni Novanta, quando il Bitef ha ripreso con le produzioni estere, ha lasciato il segno su queste nuove generazioni di produttori interessate alla contemporaneità. L’influenza del Bitef sulla scena locale è stata uno dei principali punti di discussione negli ambienti di Belgrado, perché in Serbia, come anche in Croazia o in Macedonia, le istituzioni nazionali sono piuttosto conservatrici. Non troppo, in realtà, ma se guardo alla scena slovena vedo molto più intento polemico. Jovan Ćirilov era solito fare una piccola classifica per dire che il Bitef ha influenzato prima di tutto i critici, che hanno potuto vedere da vicino la scena contemporanea e intavolare un dibattito critico autentico, poi sui registi, che hanno sviluppato nuovi modi di vedere il teatro, e per ultime le accademie di arti drammatiche, che hanno mantenuto un’impostazione tradizionale.
È comparsa allora sulla scena una nuova generazione di produttori e registi formatisi in questo contesto internazionale, come ad esempio Miloš Lolić, giovane regista di spicco che porta avanti un teatro nuovo e politicamente audace, ma che purtroppo non vive più in Serbia e si è spostato sulla scena germanofona. Alla fine degli anni Novanta è emerso anche un altro fenomeno, una nuova generazione di drammaturghi influenzati dal teatro post-drammatico che vedeva un nuovo modo di scrivere per il teatro, una nuova estetica. La cosa importante di questa nuova ondata di drammaturghi è che la maggior parte di loro sono donne, che stanno portando avanti un nuovo modo di scrivere per il teatro. Questa nuova ondata è iniziata con Biljana Srbljanović, molto conosciuta e portata in scena anche all’estero, vincitrice del Premio Europa per il Teatro, poi ci sono Milena Marković, Maja Pelević, Olga Dimitrijević, Tanja Šljivar… ci sono anche degli uomini, ma sono trascurabili. Non ci sono più drammi classici, la più classica tra loro è Biljana.
Per cui sì, Belgrado è stata molto importante per l’apertura al teatro internazionale, e anche molti artisti che sono stati presentati al Bitef sono poi stati invitati a lavorare a Belgrado. L’esempio più illustre è quello del Belgrade Drama Theatre, che ha ospitato nomi importanti come Ersan Mondtag, giovane regista tedesco che mette in scena delle produzioni davvero originali, ha lavorato anche con Frank Castorf, poi è venuto a Belgrado per allestire una performance inedita tratta dalla Divina Commedia, quindi abbiamo avuto la Divina Commedia diretta da Castorf e un sacco di altri registi provenienti dall’ex Jugoslavia. Tra l’altro, quando parliamo di Balcani generalmente pensiamo agli Stati dell’ex Jugoslavia, nessuno prima dei tempi recenti ha mai fatto riferimento alla Grecia o alla Bulgaria, e credo che questa sia una questione di cui parlare più approfonditamente. Per il Belgrade Drama Theatre sono passati anche Sebastijan Horvat, uno dei migliori, se non il migliore, regista sloveno, che apprezzo molto, Jernej Lorenci, che non ha lavorato al Drama Theatre ma al Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad, poi Tomi Janežič, anche lui sloveno, Bobo Jelčić, che Dubravka ha già menzionato, Ivica Buljan e molti altri.
Concluderò con… non la definirei una provocazione, ma non mi trovo d’accordo con quello che Dubravka ha detto alla fine del suo intervento, che non ci conosciamo e non comunichiamo abbastanza. Penso che queste coproduzioni, questi scambi di drammaturghi e registi, siano ormai parte integrante del teatro dell’area ex-jugoslava già da vent’anni. Oggi non è raro avere uno spettacolo croato in un repertorio serbo o sloveno, ci sono registi croati che lavorano a Belgrado e viceversa, per cui penso che questo scambio stia già avvenendo ed è importante che ci sia. Ha ovviamente dei lati positivi sul fronte delle differenze culturali, dell’aspetto multiculturale eccetera, una delle sfide per noi è lo scambio tra Kosovo e Serbia, tra Prishtina e Belgrado, qui c’è anche Jeton [Neziraj], ma anche in quest’ambito si stanno facendo dei grandi passi avanti. I testi di Jeton vengono messi in scena a Belgrado, la scena indipendente si sta attivando molto, c’è stato Romeo e Giulietta diretto da Miki Manojlović con attori provenienti sia da Prishtina che da Belgrado…
Certo, si potrebbe fare di più, ma anche in una situazione così delicata le cose si stanno muovendo. Penso che la collaborazione nel contesto dell’ex Jugoslavia esista, nel settore teatrale è iniziata prima che in tanti altri, e finirò con un’altra provocazione. C’è un lato positivo, che è palese, ma c’è anche un aspetto più insidioso, perché tutti i Paesi formatisi dopo la disgregazione dell’ex Jugoslavia sono molto piccoli, e quando si vive un Paese piccolo si vive sempre una forma di provincialismo. Allora queste coproduzioni diventano anche un modo di espandere il mercato e il bacino d’utenza, così ci sono anche scambi basati più sugli interessi economici che sulle necessità culturali. È un lato negativo della cooperazione tra i Paesi ex-jugoslavi, lo capisco, un mercato più grande serve a presentare il proprio lavoro, si hanno più opportunità, ma d’altro canto si vengono a creare quasi delle lobby, tu vieni nel mio teatro e poi io vengo nel tuo, poi troviamo i fondi per questo progetto perché ovviamente è internazionale e dev’essere ben accolto e tutto il resto, ma se le idee non sono buone o non c’è un reale interesse artistico e culturale si finisce per ritrovarsi con qualcosa di completamente diverso.
Natasha: Grazie. Avrei un’altra domanda che tocca delle questioni che tutti voi avete menzionato. Nel Regno Unito al momento si sta parlando molto, anche a teatro, di diversità e rappresentazione, di come il teatro possa riflettere ogni aspetto della comunità in cui viene messo in scena. Questo include soggettività queer, disabili, si parla di etnia e di identità culturale, e sarei interessata a sapere come si sviluppano queste conversazioni nell’area, come vengono affrontate, chi viene rappresentato e chi no, chi è visibile e chi è meno visibile, e quali siano gli artisti che ne parlano e come. Sarebbe interessante parlare un po’ di diversità.
Ivan: Inizierò parlando delle donne, perché in Serbia si è già intavolato questo discorso.
Tutte le edizioni del Bitef che ho curato avevano un focus tematico, quello dell’ultima era mercato del lavoro e precariato, e ci siamo accorti che sarebbe stato molto problematico ospitare produzioni internazionali costose e non supportare la scena locale, specialmente quella indipendente, che è stata molto penalizzata dalla pandemia. Sarebbe stato ipocrita spendere centinaia di migliaia di euro per produzioni estere sui diritti dei lavoratori e non fare nulla per i nostri artisti. Così abbiamo allestito due coproduzioni, una con il Centre for Cultural Decontamination di Belgrado, un’istituzione indipendente, e una con lo Yugoslav Drama. Quest’ultima è stata particolarmente toccante perché l’abbiamo messa in scena nell’auditorium della facoltà di Medicina, e trattava il tema dell’emigrazione di massa del personale medico serbo in Germania, che ha portato il Paese a una carenza di personale medico. In Serbia ci sono due lavori che pagano bene: lo psicoterapeuta, perché siamo tutti matti, e l’insegnante di tedesco, perché tutti vogliono trasferirsi in Germania.
Comunque, una di queste due coproduzioni parlava del personale medico, l’altra della posizione delle lavoratrici dello spettacolo nei teatri di Belgrado. E inizialmente mi chiedevo perché fosse ancora una questione così urgente, perché la maggior parte dei drammaturghi sono donne, le donne ricevono la maggioranza dei premi alla sceneggiatura, se si guarda alla lista dei vincitori degli ultimi vent’anni ci sono pochissimi uomini, ma poi le autrici mi hanno detto che un conto è ricevere un premio, un altro essere invitate a lavorare in teatro. Hanno redatto una serie di statistiche, poi incluse nello spettacolo, in cui emerge che non c’è effettivamente l’equità che ci si aspetterebbe. Hanno aperto la pièce con la questione delle quote rosa, di cui personalmente non sono troppo a favore, preferisco cercare altre modalità per riequilibrare la condizione di registi e registe.
Però è un esempio di come abbiamo trattato il tema della diversità in termini di genere, di etnia e di cultura, e un altro elemento che vale la pena menzionare nel teatro serbo è il teatro ungherese in Voivodina, una regione al nord della Serbia con una grande comunità ungherese. La scena è molto vivace, ci sono dei teatri professionali sovvenzionati dallo stato, ci sono alcune compagnie e gli scambi culturali e linguistici sono molto frequenti. Vengono regolarmente allestite delle coproduzioni con attori sia ungheresi che serbi, e da quella scena è emerso il regista ungherese più conosciuto, András Urbán, già menzionato da Sasho. Urbán ha lavorato in tutta l’area, potremmo quasi definirlo un regista jugoslavo. Volevo solo rimarcare anche l’elemento ungherese, per riallacciarmi alla domanda iniziale. Grazie.
Natasha: Grazie. Dubravka, ti andrebbe di continuare su questo tema? Sarebbe interessante discutere di diversità nel contesto croato: diversità linguistica, culturale, ma anche magari di come vengono portate sulla scena le narrative queer. Sarei curiosa di saperne di più.
Dubravka: Forse il tema più caldo nel teatro croato al momento è la sostenibilità, c’è anche un aneddoto interessante sulla diversità nel progetto di cui vi andrò a parlare. La storia risale a quand’ero parte del direttivo del Teatro Nazionale Croato, avevamo iniziato a lavorare a questo progetto STAGE (Sustainable Transition to the Agile and Green Enterprise), che riuniva quattordici teatri e festival europei tra cui l’NTGent, il Dramaten di Stoccolma, il Lithuanian Drama di Vilnius, e l’idea di base era quella di lavorare a un progetto sulla sostenibilità. La sostenibilità, lo sapete, è un tema molto attuale nel teatro europeo. In realtà non credo che tutti abbiano le idee chiare su cosa significhi sostenibilità nel teatro, ma vorrei portarvene un esempio con questa storia.
L’idea del progetto, che non includeva la mobilità fra i teatri coinvolti, partiva da Losanna, dove Katie Mitchell ha allestito la performance A Play for the Living in a Time of Extinction partendo da un testo dell’americana Miranda Role Hall. Lo spettacolo raccontava una catastrofe globale provocata dall’uomo, ma la particolarità del progetto era che ciascun teatro doveva sviluppare il proprio allestimento con artisti locali in base alle direttive di Mitchell: gli attori devono essere del posto, il testo non deve subire variazioni, l’attrice protagonista dev’essere nera e in teatro non deve esserci corrente elettrica, la luce e l’elettricità devono essere prodotte dagli altri attori che pedalano su delle bici. Come attrice avevo scelto Anica Tomić, ma quando siamo andati a Losanna ho avuto una discussione con Mitchell perché voleva un’attrice nera. Io le ho risposto che in Croazia non c’erano attrici nere e lei ci ha detto che eravamo razzisti, al che le ho spiegato che in Croazia non ci sono molte persone di altre etnie perché non abbiamo un passato coloniale.
Ivan: È un aneddoto molto interessante, credo che questo fraintendimento abbia avuto un esito positivo. Anche il Bitef era interessato a mettere in scena questa produzione di Katie Mitchell con artisti e registi locali, ma i criteri erano già cambiati. Non cercavano più attrici nere ma attrici di una minoranza della regione, ad esempio della comunità rom.
Dubravka: Aspetta, non ho ancora finito!
Ivan: Oh. Scusa!
Dubravka: Dicevo, le ho spiegato che non abbiamo attrici nere, e lei ha risposto ok, non è che potete prendere qualche attrice di una minoranza, magari qualche serba [ride, ride anche Ivan]? E io le ho chiesto ma come faccio a chiederglielo, come faccio a sapere se un’attrice è serba? Poi ho scoperto che anche a Losanna, dopo la prima performance, l’attrice protagonista si era messa a ridere perché aveva scoperto di essere stata scelta solo perché era nera.
A Zagabria avevamo deciso di mettere in scena lo spettacolo con dei bambini, per il ruolo da protagonista eravamo riusciti a trovare questa adolescente croata e nera, mentre gli altri ragazzi pedalavano in fondo al proscenio per produrre l’elettricità. Durante il periodo di allestimento e prove abbiamo scoperto che i bambini e i ragazzi sono molto più informati di noi sul tema della sostenibilità, sono più consapevoli delle catastrofi ecologiche, e poi ecco che è successo quello che volevo portare come esempio di sostenibilità. Ci siamo esibiti ed è andata benissimo, ma la madre dell’attrice protagonista, che era sposata con un croato si era trasferita in Croazia cinque anni fa, si è trovata ad affrontare un divorzio nel bel mezzo delle prove e rischiava di dover tornare in Africa. Sarebbe stata una tragedia sia per i ragazzi del gruppo che per noi, e allora abbiamo messo in scena lo spettacolo non nel Teatro Nazionale ma in un altro stabile, che si trovava di fronte a un bar. Il barista ha chiesto alla donna di restare lì a lavorare con lui, così ha ottenuto un permesso di lavoro ed è rimasta in Croazia.
Penso che una storia come questa, in cui abbiamo salvato una famiglia grazie al teatro, sia un esempio di teatro sostenibile. Viviamo in un’epoca difficile, ci troviamo di fronte a così tante catastrofi, la pandemia, le guerre, la crisi economica e quella climatica, e chissà cosa succederà domani o tra un anno. Il teatro dovrebbe prendere una posizione, perché in casi come quello che vi ho appena raccontato può salvare delle vite. Possiamo parlare di solidarietà nei Balcani, ma possiamo parlarne anche per gli artisti da tutta Europa, e questa solidarietà per me è importante, perché di questi tempi è particolarmente difficile.
Natasha: Ti ringrazio. Ci è rimasto poco tempo, perciò vorrei chiedere al pubblico se qualcuno ha delle domande.
Jeton Neziraj: Solo un piccolo commento, vorrei chiedere a Natasha di spiegare meglio cos’è See Stage, così da far vedere che le cose si stanno muovendo in termini di coproduzioni e collaborazioni locali, e spiegare al pubblico cosa viene presentato nell’area di cui vi occupate.
Natasha: Certamente. Jeton fa riferimento alla piattaforma online di cui curo l’editing, See Stage, che si occupa di critica teatrale nell’Europa sud-orientale. Con noi collaborano critici provenienti da tutte le aree dell’ex Jugoslavia e delle zone limitrofe, e non solo si stanno formando individualmente come professionisti, ma si sta anche venendo a creare una nuova generazione di critica teatrale in inglese che copre tutta l’area. Quindi sì, sono felice di poter promuovere questa iniziativa, perché è un’altra forma di collaborazione e cooperazione tra Paesi.
Stavo riflettendo sull’ultima parte del discorso di Dubravka, sul modo in cui affrontiamo le questioni più urgenti, come la catastrofe climatica e gli strascichi della pandemia, il suo impatto sugli artisti, sui lavoratori dello spettacolo e sulla società. Ripenso anche al discorso che stavamo facendo stamattina, ai fatti terribili avvenuti in Serbia e al contesto sociale che ha contribuito a questi esiti, e vorrei chiedervi se e come il teatro stia cercando di avvicinarsi a queste problematiche, e quali sono le questioni più urgenti nei diversi Paesi.
Ivan: Sasho, volevi dire qualcosa?
Sasho: Solo due parole, qualcosa che mi salta spesso alla mente quando rifletto su questi temi. Penso che i problemi essenziali del teatro in queste regioni siano ben più radicati e profondi, e vedere così tanti spettacoli provenienti da queste aree, specialmente quella balcanica, mi fa domandare se il teatro riesca ancora a lanciare dei messaggi. Credo che al di là della necessità di condividere i problemi comuni dei Paesi balcanici, specialmente quelli che facevano parte della Jugoslavia, il teatro, specialmente quello di prosa, deve stare attento a non perdere il linguaggio della sperimentazione e dell’avanguardia. Non dobbiamo perdere di vista la questione, perché in tutta la storia del teatro, specialmente alla fine del ventesimo secolo, abbiamo avuto delle avanguardie, ma qualcosa si è perso. Nei Paesi in cui viviamo, specialmente il mio, dove le questioni dell’identità, della storia e dell’eredità culturale sono ancora molto centrali e sentite… Penso che una delle questioni sia stata affrontata molto bene in (A)pollonia di Warlikowski, e dovremmo riflettere più a fondo in quella direzione. Non importa se nella regia, nella drammaturgia o nella teoria critica: dobbiamo scavare a fondo. Penso che il teatro stia perdendo un po’ la sua vocazione e la sua essenza spirituale, ma forse questo non è il momento più adatto per esplorare bene questo spunto. Grazie.
Ivan: Torno un attimo sull’argomento, prima avevi menzionato lo Sterijino Pozorje, che è il nostro festival principale. Era stato fondato come un festival nazionale jugoslavo, ma dopo la dissoluzione della Federazione è diventato un festival serbo. Allo Sterijino ho ricoperto un po’ tutte le cariche, moderavo le tavole rotonde, lavoravo come direttore artistico, ma non sono mai stato un membro della giuria. Quest’anno mi hanno invitato a farne parte, allora vi faccio un esempio concreto.
Ci saranno otto performance in gara, di cui sei o sette su questioni femminili. Sta diventando il tema predominante nel teatro serbo, questo perché il movimento #MeToo è molto sentito, forse più che nelle altre regioni. Certo, ci sono dei buoni motivi: era scoppiato un enorme scandalo su un insegnante di recitazione che ha molestato delle giovani attrici, il processo è ancora in corso, e sono emerse poi altre storie simili. Quindi la condizione femminile è uno dei temi più affrontati nel teatro serbo contemporaneo, poi c’è anche una sottocategoria di questi spettacoli e testi teatrali che tratta la posizione delle lavoratrici dello spettacolo e le loro difficoltà nelle istituzioni, nel mondo del lavoro eccetera.
Quello che intendo dire è che la Serbia ha tutti i problemi del mondo globalizzato, questa sparatoria che si è verificata nella mia vecchia scuola elementare nel centro di Belgrado, da un lato abbiamo le sparatorie che sono qualcosa che conosciamo dagli Stati Uniti, dove purtroppo sono molto comuni, ma dall’altro – voglio dire, siamo influenzati dai nuovi media, la nuova tecnologia, l’alienazione, tutte problematiche globali, ma dall’altra c’è una statistica spaventosa: dopo gli Stati Uniti la Serbia è il secondo Stato al mondo per possesso di armi da fuoco. E da dove vengono tutte quelle armi? Dalle guerre degli anni Novanta. È questo il problema, la Serbia ha tutto il pacchetto di problemi globali contemporanei come sparatorie, catastrofi ambientali e crisi sociali, ma al tempo stesso abbiamo dei problemi irrisolti legati alle guerre negli anni Novanta.
E quando alcune persone in Serbia dicono frustrate che dobbiamo combattere su due fronti, quello dei problemi globali e quello dei problemi locali, rispondo che è normale, può succedere nella vita avere più di un problema. La società serba ha entrambi.
Dubravka: Queste tematiche di cui hai parlato adesso vengono affrontate anche sulla scena teatrale?
Ivan: Le guerre un po’ meno. Sono presenti, ma meno delle problematiche globali.
Dubravka: Sì, è lo stesso anche in Croazia. Non penso ci sia una tendenza unica, ma qualche cosa succede.
Ivan: Sì, quando c’era stato Srbenka, quello spettacolo di Oliver Frljić che parlava di una famiglia serba uccisa a Zagabria negli anni Novanta, scoppiò uno scandalo e le rappresentazioni a Fiume vennero interrotte. Ci troviamo davanti agli stessi problemi quando parliamo di responsabilità nella guerra negli anni Novanta.
Dubravka: No, secondo me noi non abbiamo davvero preso una posizione nei confronti della guerra negli anni Novanta quando avremmo dovuto farlo. Poi abbiamo aspettato e aspettato e aspettato, e ogni tanto c’è qualche spettacolo, c’è quello di Frljić, ce n’è qualcun altro, ma non c’è nessuna continuazione, nessuna catarsi…
Ivan: Purtroppo, e concluderò il discorso con un paradosso tragico, questa sparatoria nella mia scuola avvenuta due giorni fa può essere l’inizio di una catarsi per la società serba, perché le persone hanno iniziato a chiedersi da dove venissero le armi, da dove le prendono, quale società ha cresciuto questi bambini, quali sono i loro punti di riferimento. Perché dall’altra parte della strada, davanti a quella scuola, c’è un murale di Putin, e venti metri dopo un murale del criminale di guerra Ratko Mladić? Qual è il contesto in cui sono cresciuti questi bambini? Ma penso che per la prima volta il pretesto sia stato così tragico, la morte di nove persone di cui otto bambini, che la gente ha iniziato a farsi delle domande. Credo possa essere l’inizio di una catarsi per la società serba, e spero che il teatro sarà il primo a occuparsi di questi problemi.
Natasha: Grazie, Ivan. Penso sia un punto molto importante, ed è qui che chiuderemo la discussione. Ringrazio ancora tutti i partecipanti per il loro contributo, è stata una discussione davvero interessante e ringrazio di nuovo Agata e Davide per avermi dato l’opportunità di moderarla. Vi ringrazio ancora e vi auguro un buon pomeriggio.