Nulla di ordinario: conversazioni con Michał Rusinek (2/2)

Eccoci qui con la seconda parte della conversazione con Michał Rusinek su Nulla di ordinario, questa volta aperta al pubblico, moderata da Andrea Ceccherelli e svoltasi alle Librerie Coop Zanichelli di Bologna. Per chi si fosse perso la prima parte, consigliamo caldamente di recuperarla cliccando qui. Come sempre, la lettura inizia sotto il taglio!

Andrea Ceccherelli: Michał Rusinek adesso dirige la fondazione Szymborska ed è professore all’università Jagellonica, scrive libri seri, accademici, e scrive libri divertenti. Scrive poesia e scrive prosa, scrive Limerick come Wisława Szymborska e ha scritto anche un poemetto per ragazzi, Il piccolo Chopin, che è stato tradotto in italiano. Di lui Wisława Szymborska ha detto quanto segue:

Era un allievo di Teresa Walas. Questo vuol dire che lei aveva avuto modo di conoscerlo dal lato peggiore. Se lo ha proposto evidentemente sapeva quello che faceva. Senza il signor Michał, dopo il Nobel sarei stata completamente persa. So che aveva avuto qualche altra offerta di lavoro. Io ci ho messo sopra l’occhio al momento giusto e dopo tre mesi ho telefonato alla sua mamma per esprimerle tutta la mia ammirazione perché aveva educato così bene suo figlio”.

Che cos’è questo libro che stasera presentiamo? Sono memorie degli anni di frequentazione con Wisława Szymborska scritte come un flusso di coscienza, senza suddivisione in capitoli, passando da un anno a un altro per associazioni tematiche e per aneddoti.

Con quale risultato? Col risultato che capiamo meglio Wisława Szymborska, è così che capiamo meglio anche le sue poesie, perché poi è questo il motivo per cui siamo qui, perché ci piacciono le poesie, in particolare quelle di Szymborska. Poesie universali, lo sappiamo, ma capire l’autore aiuta anche a capire meglio le sue poesie.

Michał Rusinek ci dona in questo libro il suo sguardo, lo sguardo con cui in questi sedici anni ha osservato da vicino Wisława Szymborska. Attraverso i suoi occhi, quindi, leggendo il suo libro, vediamo Szymborska come nessuno l’ha mai vista.

Il titolo Nulla di ordinario è molto evocativo. Nulla di ordinario è stato certamente vivere accanto a Wisława Szymborska, ma è anche un’allusione ad una sua poesia che non ha titolo, inizia con “Il nulla si è rivoltato anche per me”, è una poesia che parla in apparenza dell’amore, di come sia straordinario vivere accanto alla persona che si ama. In realtà, come spesso accade nelle poesie di Szymborska, parla della vita. Parla dell’amore, ma attraverso l’amore parla della vita. Addirittura dà una definizione folgorante della vita come intervallo dell’infinito: la vita di ciascuno di noi è un intervallo nell’infinito. Questa poesia finisce proprio con non vedo in ciò, si dice di solito “non ci vedo nulla di straordinario”, ma lei, ribaltando come spesso fa i modi di dire, conclude dicendo “non vedo in ciò nulla di ordinario”.

Allora, passo alla prima domanda. La mia prima domanda riguarda il tempo in cui hai iniziato a lavorare con Wisława Szymborska. Avevi ventiquattro anni, era l’anno del Nobel, l’anno della tragedia di Stoccolma, e volevo chiederti quindi se non eri scioccato da tutto ciò che ti attendeva.

Michał Rusinek: Devo ammettere che all’epoca mi sentivo come il protagonista di una donna a cui chiedevano se sapesse suonare il pianoforte e lei rispondeva “Non lo so, non l’ho mai provato”. È vero che nessuno ha mai avuto l’esperienza di essere il segretario di un Noblista, in ogni caso tutti i Noblisti polacchi precedenti avevano vissuto troppo prima per poter chiedere ai loro segretari un’opinione. Ammetto con sincerità che se lei mi avesse detto allora che sarebbe stato un lavoro durato dieci anni, avrei avuto qualche esitazione, ma in realtà mi aveva assunto solo per tre mesi. In quei tre mesi si passò dall’attribuzione del premio Nobel alla cerimonia a Stoccolma. Credeva che dopo aver ricevuto il Nobel l’avrebbero lasciata in pace. In particolare, quando venne consegnato il premio a Dario Fo, pensava che i riflettori si sarebbero spostati su di lui. Ma non fu così, fino alla fine della sua vita non riacquistò la pace di prima. Credo che la metafora del riflettore non sia adeguata, una metafora più corretta sarebbe quella del tatuaggio.

Il mio lavoro all’inizio era abbastanza banale, perché passavo il mio tempo in fila alle poste. Per fortuna ho una vita interiore abbastanza ricca, quindi non mi annoiavo mai. Dopo un po’ di tempo, però, pubblicarono una mia intervista per una rivista femminile che cambiò la mia vita completamente, perché le signore alle poste mi riconoscevano e mi facevano passare avanti.

Un’altra parte del mio lavoro consisteva nel co-organizzare la partenza di Szymborska per la Svezia. Ora che ci penso, avevo dovuto elaborare vari modi per declinare. Organizzavo anche le sue interviste, perché è di parere comune credere che Szymborska avesse rilasciato solo poche interviste nella vita, ma non è vero, perché le rilasciava soprattutto a giornalisti stranieri. Aveva un senso del dovere verso i suoi traduttori, perché quando un suo libro veniva pubblicato all’estero, come in Spagna o anche in Italia, voleva aiutare i traduttori nella loro fatica. Li invitava di solito nel suo appartamento alle dieci del mattino, perché era la sua ora preferita per le interviste. Offriva loro un certo caffè solubile e un determinato tipo di Cognac, che causava un certo stupore soprattutto ai giornalisti svedesi, dopodiché iniziava a porre loro una serie di domande molto specifiche, di natura personale, per esempio se avevano una moglie, un gatto, dei figli, un amante maschile, femminile e dopo averli rimbambiti diceva “Prego, ora tocca a voi”.

A.C.: Sempre sul rapporto tra te e la signora Wisława, avete trascorso assieme sedici anni uno a fianco dell’altra, però non siete mai passati al “tu”; sempre per Pan, signore e signora, e questo è molto interessante. Quindi ti chiedo: che cosa significava questa forma con cui vi rivolgevate? Rispetto, distanza, ironia, vicinanza ironica?

M.R.: Szymborska usava il tu molto frequentemente ed era passata al tu anche con i miei figli. Ed è vero, era divertente che soltanto fra noi ci dessimo del lei. Aveva deciso che questo sarebbe stato l’unico segno della professionalità della nostra relazione. Dico l’unico perché lei era incapace di avere relazioni solo professionali. Quando per esempio veniva da lei un suo legale -e i legali solitamente prendono somme astronomiche per ogni ora passata insieme- prima chiedeva sempre notizie su di lui, sulla moglie, sui bambini e solo dopo passavano alle questioni professionali. Credo che questo stile amministrativo e burocratico le fosse puramente sconosciuto. Credo comunque che darci del lei fosse una forma che ci permetteva lo stesso un certo grado di vicinanza. Allo stesso tempo, come hai accennato giustamente, c’era qualcosa di ironico. Un’ironia che permetteva una distanza in grado di farci vedere meglio certe cose.

A.C.: Questa è sulla poesia. Stamane abbiamo incontrato gli studenti di polacco dell’Università di Bologna, che ti hanno chiesto quale poesia potesse essere considerata la più importante per Szymborska. A me sono venuti in mente due aneddoti raccontati nel tuo libro. Uno riguarda la poesia Niedziela w szkole, che forse ha impresso una determinata direzione alla poetica di Szymborska. L’altra è la poesia Ruch, una poesia che Michał discusse con i suoi studenti a lezione. Raccontò poi a Szymborska che gli studenti rimasero molto interessati, che ricevette molte interpretazioni di questa poesia che suscitò una grande discussione, e lo raccontò a Wisława Szymborska pensando che ne sarebbe stata felice. La reazione invece fu un’altra; lei si era rattristata, perché, se c’erano state così tante interpretazioni, voleva dire che forse non si era espressa in modo sufficientemente chiaro.

M.R.: È vero, sono due poesie e due momenti molto importanti per la poesia di Szymborska. Niedziela w szkole era una poesia scritta, si può dire, prima del debutto editoriale. Era quando ancora stava cercando una sua voce szymborskiana. È una poesia difficile, anche se basata su un concetto apparentemente semplice. Ci fa pensare a quello che fanno gli oggetti che ci aiutano a studiare a scuola quando sono a riposo, quando gli alunni non sono vicini. La poesia è stata pubblicata su una rivista letteraria. Dopo la pubblicazione, la redazione di questa rivista ricevette una lettera di un lettore offeso. In questa lettera rimproverava Szymborska di scrivere in un modo che la gente semplice, come operai o contadini, non avrebbe capito, perché troppo difficile. Erano tempi di un sociorealismo galoppante, una lettera del genere era abbastanza pericolosa per gli scrittori e poteva avere conseguenze di carattere politico. Lei invece prese questa lettera sul serio, io ho dei sospetti che fosse una lettera creata ad hoc dalla polizia segreta o da qualcun altro. Szymborska non la trattò come un’informazione politica, ma come un’informazione sulla sua poetica. Non pubblicò nulla per un periodo abbastanza lungo, e, in seguito, le sue altre poesie risultarono alla fine molto più leggibili e chiare. Non so se ciò che sto per dire sarà semplicistico, ma per Szymborska la poesia era una conversazione, un modo di dialogare coi lettori. La sua non era una poesia erudita che richiedeva una preparazione speciale, riteneva che la poesia dovesse essere leggibile.

La seconda poesia risale ad un tempo più vicino al nostro e parla di cosa succede alla lacrima mentre noi piangiamo; mentre piangiamo la lacrima esegue una certa danza. La poesia si regge così su una sorta di antitesi, da una parte c’è il pianto, dall’altra il ballo, che è un simbolo di felicità. L’ultimo verso della poesia è “Chi sei bella mascherina”, ed è una domanda. Difatti, l’ultimo verso ci ha incuriositi molto durante il corso, perché ci sembrava che in quel verso ne fosse racchiusa la polisemanticità, il fatto che ognuno la potesse leggere in modo diverso. Quando lo dissi a Szymborska si rattristò, e mi disse che doveva correggere subito la poesia, che non era chiara. La supplicai di non farlo. È vero anche che, una volta conosciuta bene la lirica di Szymborska, ci si rende conto che non si tratta di una lirica della maschera: lei scriveva la lingua che parlava, o, anzi, parlava la lingua che scriveva.

A.C.: I polacchi sono considerati di solito sfortunati, ma in questi quarant’anni sono stati molto fortunati. Hanno avuto due grandi premi Nobel: hanno avuto Miłosz nel 1980, Szymborska nel 1996 e ora sono ancora più fortunati, perché da pochi mesi hanno anche Tokarczuk.

Szymborska e Miłosz si sono conosciuti, si sono anche frequentati. Erano personalità molto diverse. Grande intellettuale, profondo pensatore Miłosz; Szymborska anch’ella filosofa e intellettuale, ma leggera. Tu li hai visti insieme, com’era il loro rapporto, malgrado o forse grazie a questa diversità?

M.R.: Mi rendo conto che, avendo conosciuto Szymborska, avendo conosciuto Miłosz e conoscendo ora Tokarczuk sono una sorta di reliquia di secondo grado. Spero si veda sopra di me un’aureola. Ci tengo molto. La conoscenza tra Szymborska e Miłosz è di vecchia data, perché si conobbero subito dopo la guerra. Una volta raccontò di essere andata ad un incontro poetico e di aver notato solo Miłosz per il suo modo di leggere poesia. Lo stesso giorno lo vide in un ristorante mentre mangiava una cotoletta con dei cavoli, e si disse che questa era una cosa improbabile, per un poeta talmente grande mangiare del cibo così scadente.

Miłosz apprezzava molto Szymborska e le sue poesie. I loro incontri erano molto insoliti, io mi misi ad orecchiare durante uno di questi incontri, perché lui aveva senso dell’umorismo ma lo usava molto raramente. Mentre l’umorismo di Szymborska si accendeva proprio nei momenti di soggezione. Lei provava a raccontare aneddoti, ma per Miłosz erano una perdita di tempo, perché di lì a poco saremmo morti tutti ed era più importante parlare di cose serie. Le poneva domande del tipo: “Wisława, cosa pensi dei rapporti polacco-ucraini?”. Lei quella volta si stupì e rispose: “Va bene, allora cosa pensi dei rapporti polacco-russi?”.

Parlo spesso di un aneddoto in cui stavamo passeggiando e Wisława disse: “Guarda, Czesław, che bel pino! È un albero incredibile, perché si aggrappa con le radici e può crescere anche nella sabbia”. Miłosz guardò stupito il pino e disse: “Il pino non è un albero. La quercia è un albero, oppure un faggio”. La loro era una conversazione difficile, ma insieme erano commoventi.

Szymborska conobbe anche Olga Tokarczuk. Mi ricordo molto bene del loro incontro, e ricordo che Szymborska era molto riconoscente per la scrittura di Olga Tokarczuk. Le disse che in essa viveva lo spirito del racconto, che nella prosa moderna stava scomparendo sempre più.

Olga Tokarczuk invece raccontò che una volta incontrò Szymborska in un caffè e quest’ultima si avvicinò a lei, chiedendole se sapesse come si chiamava. Lei rispose: “Ovviamente so come si chiama, tutti sanno come si chiama!”.

Al primo incontro con Olga Tokarczuk, dopo che le era stato assegnato il Nobel, ho fatto irruzione sul palcoscenico dicendo che avrei fatto volentieri richiesta di assunzione come segretario. Ho sedici anni di esperienza e sette di pausa.

A.C.: Nel 1996 i polacchi hanno scoperto una cosa che non si aspettavano. Non solo che una loro poetessa aveva vinto il Nobel, ma qualche settimana dopo il Nobel hanno scoperto, abituati com’erano ai grandi poeti come Mickiewicz, il vate romantico, o Miłosz, che un premio Nobel può comporre poesia scherzosa, può comporre limerick, può comporre poesia umoristica. E proprio di questo volevo chiederti, della composizione dei limerick: Szymborska scriveva limerick, tu scrivi limerick, a volte li scrivevate insieme. Allora la domanda è: cos’erano per lei i limerick, e come nascevano quelli scritti insieme?

M.R.: Nella tradizione letteraria polacca, la poesia viene creata per due motivi: per lodare la bellezza della natura o per rincuorare le persone. Così, la poesia dovrebbe avere un certo ruolo, una funzione sociale. Quando nel 1993, quindi tre anni prima del Nobel, venne pubblicata una raccolta di poesia anglosassone di puro nonsense, i polacchi non sapevano cosa farne. Da una parte era poesia, dall’altra non rincuorava né descriveva. Nella poesia anglosassone, però, ci sono due correnti di poesia, una con una funzione sociale e una che deve divertire, pur contenendo in sé una certa filosofia. La poesia del nonsense puro ha avuto un primo sviluppo in Polonia nel primo dopoguerra. Esiste però una teoria che dice che, per capire una poesia del nonsense, bisogna avere una sensazione di sensatezza. Ma nella Polonia del dopoguerra tutto era privo di senso. La poesia del nonsense non aveva una base solida su cui poter crescere. Veniva creata, ma era per uso interno tra scrittori.

A Cracovia c’era un posto molto particolare che si chiamava Casa dei letterati. L’idea delle autorità politiche era quella di mettere tutti i creatori di letteratura in una caserma per averli sotto controllo. Vi potete immaginare che la concentrazione di persone creative poteva avere come risultato solo l’esplosione della creazione letteraria. Queste opere, però, non vennero pubblicate, così quando dopo il Nobel scoprirono che Szymborska aveva creato poesie del genere decisero di pubblicarle. Nel frattempo la situazione politica era cambiata, perciò la sensatezza andava via via ricostruendosi. Dopo che questa sensazione fu ricostruita e il fatto che anche Szymborska scrivesse poesie del genere fu possibile ristabilire il posto della poesia nonsense sugli scaffali dei polacchi, creando un’antologia delle poesie nonsense che ebbe grande successo.

Il nonsense, però, non è satira. Un satirografo crede che, una volta descritto un buco nella strada, qualcuno verrà a ripararlo. Un poeta del nonsense invece è sicuro che nessuno verrà a riparare un buco, perché la vita non ha senso e moriremo tutti.

Stanisław Barańczak aveva scelto, tradotto e curato l’antologia di cui stavamo parlando, credeva che un poeta del nonsense puro fosse semplicemente un poeta metafisico un po’ più divertente. Credeva che si potesse definire anche un poeta esistenzialista, ma Szymborska lo faceva per puro divertimento. Noi, ora, se ci annoiamo tiriamo fuori lo smartphone e giochiamo. Szymborska invece tirava fuori taccuino e penna e scriveva dei limerick sui paesi che stavamo attraversando in treno. Devo ammettere che i nomi dei paesi italiani le portavano tanta gioia e tante idee per i limerick. Permettono rime perfette.

A.C.: Szymborska scriveva quindi per divertirsi. Scriveva tante poesie divertenti, ma anche tante poesie estremamente drammatiche. Penso per esempio a 11 settembre oppure alla poesia Ancora, sulla deportazione degli ebrei. Qual era il rapporto di Szymborska col suo tempo?

M.R.: L’avevo già detto oggi, ma lo ripeto. Szymborska aveva bisogno del contatto con la gente comune. Evitava i festival letterari e gli eventi in cui i poeti parlavano con altri poeti. Credeva che fosse una cosa abbastanza strana incrociare sempre gli animali della stessa cerchia. Aveva anche bisogno del contatto con la realtà. A volte quando sentiva le notizie alla televisione le passava la voglia di scrivere. Uno dei suoi amici le disse di spegnere la televisione e di scrivere, che lei doveva scrivere e non pensare alla tv. Lei però era uno di quei poeti che non potevano spegnere la televisione, perché la realtà era per lei il materiale per creare poesie.

A.C.: Passo a una domanda molto patriottica: il rapporto di Szymborska con l’Italia. È stata diverse volte in Italia, anche insieme a te, e vorrei sapere se questi momenti sono stati importanti per la poetessa.

M.R.: La cosa interessante era proprio come Szymborska viaggiava e come selezionava gli inviti, perché ne riceveva da tutto il mondo. Rinunciava categoricamente a tutti gli inviti provenienti dall’America, perché non poteva immaginarsi di non poter fumare per nove ore a causa del viaggio in aereo. Lei, tuttavia, non viaggiava verso i luoghi e verso l’architettura, viaggiava verso la gente e attraverso la gente. Viaggiava per i propri lettori e per le persone che erano sue amiche. Credo che nel caso italiano viaggiasse anche per la cucina. Uno dei momenti più importanti fra i viaggi italiani fu proprio quello a Bologna. Era stato organizzato per lei un incontro nell’aula magna di Bologna, e lì ha visto per la prima volta quanta gente era venuta per lei. Tra di loro c’era in prima fila anche Umberto Eco. Lui la adorava, e in quel momento citò la poesia Possibilità che fu inclusa nel suo libro Vertigine della lista. È una poesia che parla di quello che Szymborska preferisce. Nel momento in cui Eco prese la parola le disse: “Ah, se solo fossi stato trent’anni più giovane!”. Szymborska replicò che dieci erano sufficienti.

Uno dei viaggi più commoventi in cui l’accompagnai fu quello in Israele. Lì incontrò dei suoi amici scrittori che partivano, e in quel momento si vide che per lei era molto più importante incontrare quelle persone invece che toccare il Muro a Gerusalemme. Da questo libro si può trarre la conclusione che a Szymborska piacesse viaggiare, ma non era vero, perché viaggiava una, massimo due volte l’anno. Una volta le chiesero cosa le piacesse di più del viaggiare, lei rispose: “Tornare a casa”.

Una volta la televisione polacca decise di fare un film sulla Szymborska e di girarlo durante un suo viaggio. Stavo cercando di capire coi produttori cosa avrebbe convinto Szymborska a partire e poter così realizzare il film. Hanno funzionato due cose: prima di tutto il viaggio in Olanda, dove ha potuto vedere i quadri del suo amatissimo Vermeer. L’altra fu andare in Irlanda per potersi fotografare davanti al cartello con la scritta Limerick, che era anche il nome di un paese. La prima fu un successo, perché il direttore del museo ci fece entrare senza altri visitatori in giro per poter ammirare La ragazza con l’orecchino di perla. Szymborska fu commossa per questa opportunità. La seconda fu un fallimento, perché scoprimmo che il paese chiamato Limerick non aveva un cartello col suo nome.

A.C.: Questa in realtà è una mezza domanda. Questa è la foto di quando vide quante persone l’aspettavano in aula magna a Bologna. Crede che fu questo il colpo di grazia che fece passare la voglia a Szymborska di andare agli incontri?

M.R.: Credo proprio di sì. Mentre andavamo all’incontro notammo tante persone per strada dirigersi da qualche parte. Szymborska senza alcuna falsa modestia chiese se non ci fosse una partita di calcio. Lei aveva anche un trucchetto, durante gli incontri si toglieva gli occhiali, perché essendo miope poteva vedere solo le prime tre file del pubblico. Credo fosse una tecnica per sopravvivere. Era così sorpresa di dover firmare libri per più di un’ora, aveva l’impressione che le persone tornassero in fila per farsi fare altri autografi.

A.C.: Ultima domanda. Ricollegandoci a Vermeer, possiamo notare che Szymborska amava molto la pittura. Allora, la mia domanda è sulla poetica dell’osservazione dell’opera d’arte, come Szymborska guardava l’opera d’arte.

M.R.: Prima di tutto Szymborska, visitando una galleria d’arte, si sceglieva delle opere da vedere, non credeva fosse possibile assorbire tutta questa bellezza in una sola volta. Dopo il quinto, sesto, massimo decimo quadro chiedeva di uscire, perché iniziava a sentirsi confusa. Era incredibile come notasse cose nei quadri che nessuno vedeva, cose non in primo piano ma nascoste. Forse era perché era programmata per la sua poesia, per la sua poetica che si dedicava all’osservazione del dettaglio. Credo anche che a volte fosse travolta dalla troppa bellezza. Una volta siamo stati in gita a Portofino per un giorno, e mi ricordo che disse che quel posto era troppo bello per i poeti, e se c’erano poeti a Portofino avevano una vita difficile, perché la poesia può nascere solo nei posti più brutti.

Be’, che dire. Sono stati indubbiamente due incontri molto interessanti, che ci hanno permesso di avvicinarci a Szymborska su un piano più personale. Ma, a onor del vero, devo confessare che non abbiamo ancora capito la storia del pino.

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