Per quanto imperfetto negli esiti, il #MeToo ha avuto molti meriti, primo fra tutti un cambiamento di rotta nella descrizione delle figure abusanti e delle dinamiche prese in esame: non più (o perlomeno non sempre) incarnazioni unidimensionali di violenza e controllo, bensì personaggi ambigui, miserabili, spesso e volentieri grotteschi. Ne Il consenso di Vanessa Springora, forse il romanzo più emblematico dell’era #MeToo, c’è un capitolo in cui la voce narrante, V., incontra casualmente Nathalie, un’altra delle ragazze -o meglio, bambine- circuite da Matzneff. Le due hanno uno scambio in cui è il trauma a fare da fil rouge e sottotesto nemmeno troppo velato, ma c’è una parte in cui l’umorismo prende il sopravvento:
“E dire che si crede il numero uno, il migliore amante, e invece com’era patetico!”
Ci assale un riso nervoso. E all’improvviso il viso di Nathalie ritorna calmo e luminoso.
Non è l’unico passaggio del libro in cui alla figura del mostro subentra quella dell’inetto, espediente retorico che ricorre anche in altri testi dello stesso filone, come Questo è il piacere di Mary Gaitskill, o Harvey di Emma Cline, uno spaccato di quotidianità di un Weinstein tutt’altro che minaccioso e onnipotente tra udienze in tribunale, babbucce firmate, rapporti con i vicini di casa e letture di Don DeLillo. Nelle ultime pagine, Springora osserva beffarda che “per quanto ne so, nessuna di quelle innumerevoli amanti ha voluto testimoniare in un libro la meravigliosa relazione che aveva vissuto con G. Forse è un segno?”.
Ebbene, in un’epoca di sad/hot girl books, complex female characters e di tutto un nuovo canone dove la riflessione sulla dialettica tra i sessi si perde in una pletora di risentimento, cliché e personaggi femminili modellati sugli antieroi maschili, Mio marito, raccolta di racconti della scrittrice macedone Rumena Bužarovska pubblicata qui in Italia da Bottega Errante, è una ventata d’aria fresca. E tra poeti falliti, mariti fedifraghi e problemi con la genitorialità, l’autrice dimostra che non serve essere David Foster Wallace per avventurarsi da vicino nell’interiorità degli uomini schifosi: a volte basta essere una donna sposata nei Balcani.
Le controparti maschili delle protagoniste, presentate sempre attraverso la loro professione, sono goffe, inadeguate e macchiettistiche, ma la loro comicità – grottesca e molto, molto amara – non rende meno reali le problematiche che l’autrice mette sul tavolo. Filo conduttore dei racconti non sono infatti né gli uomini né le voci narranti femminili, esse stesse figure tragicomiche lontane dalla perfezione, bensì la situazione particolare che innesca il conflitto tra le due parti, a creare più un mosaico di canovacci, raccontati attraverso il prisma dell’umorismo, e le donne protagoniste, per quanto ironiche, sono anche ciniche, disilluse e prive di speranze di risoluzione. Tuttavia, l’intento di Bužarovska è proprio quello di descrivere una rassegnazione realistica, che porti la consapevolezza di simili situazioni su un piano attivamente critico nel dibattito pubblico piuttosto che sulla semplice insoddisfazione sulla carta – il che offre una visione ben più ottimista di quanto appaia dai racconti.
In modo non dissimile dall’omonima raccolta di Dacia Maraini, anch’essa incentrata sulle contraddizioni e le difficoltà del matrimonio, i racconti di Bužarovska evidenziano i problemi che le mogli si trovano spesso ad affrontare: la responsabilità del lavoro domestico e della crescita dei figli, l’insoddisfazione coniugale o l’impotenza che sfociano nell’adulterio, il poco tempo da dedicare agli hobby, il rapporto con le altre donne, le promesse e le semplificazioni del femminismo occidentale. Il tutto, ovviamente, inserito nella specificità culturale della realtà macedone, perché, citando l’autrice, “il patriarcato ha le sue varianti locali, proprio come la letteratura: si parla sempre di tematiche universali, ma a renderle specifiche sono la lingua e il contesto sociale”. Si hanno quindi storie di infedeltà e depressione post-parto, tematiche in cui molte più donne possono riconoscersi, accanto a racconti immersi nella specifica realtà locale, carica di tensioni etniche tuttora irrisolte.
È anche grazie a questa specificità culturale che la produzione di Bužarovska è così letta. Il successo di Mio marito è stato tale da valere al testo un adattamento teatrale in Macedonia e in Slovenia e traduzioni in vari Paesi europei, ma è proprio sulla tensione tra universale e particolare, e soprattutto sulla recente ascesa di prosa che racconta gli attriti dei rapporti eterosessuali, che l’autrice si interroga. In un’intervista condotta dalla drammaturga slovena Ana Duša, Bužarovska e Duša notano come l’argomentazione del “patriarcato balcanico” abbia portato i lettori a derubricare dei comportamenti o delle problematiche universali a semplice coloritura locale. Inoltre, la recente popolarizzazione delle tematiche di genere nel mercato editoriale ha condotto il dibattito femminista ad un appiattimento spesso superficiale che riduce le rivendicazioni concrete a un piano puramente teorico, come osservato da Duša; ma Bužarovska, per quanto critica di questo trend anche all’interno del libro (si veda il racconto L’Otto marzo, in cui al centro dell’azione c’è l’appiattimento del discorso femminista), è più clemente nei confronti del discorso pubblico.
Nella già menzionata intervista di Exberliner, l’autrice afferma di ispirarsi all’approccio di Toni Morrison nell’anteporre il realismo spiacevole all’infallibilità di un personaggio senza difetti, soprattutto se femminile. Bužarovska ne parla in termini di normalizzazione della realtà, anche se dai racconti è facile notare come la verosimiglianza della narrazione non risieda nella spiacevolezza realistica dell’uno o dell’altro personaggio, quanto nella situazione in sé. La regista dell’adattamento teatrale sloveno, Ivana Djilas, apprezza proprio la possibilità per queste donne di essere imperfette, testarde o malevole proprio come le loro controparti maschili, in una relazione dove la partecipazione delle protagoniste le affranca dal ruolo di vittima a cui le donne vengono spesso relegate, ma che si conclude più nell’umorismo caustico che nel risentimento. Il tutto, e non è poco, fuori dalle regole del male gaze e dello scrutinio dell’opinione pubblica, abituata a vedere con sdegno i comportamenti femminili ritenuti inappropriati o riprovevoli (che, nel caso delle donne di Bužarovska, spaziano dal trascurare i lavori domestici all’aggredire il marito con una pala). La forma-racconto diventa quindi il mezzo ideale per riassumere con efficacia e in poche pagine uno spaccato di realtà verosimile e tagliente, fuori dalla prolissità evolutiva e analitica che caratterizza i romanzi o le serie tv, e la scelta di concepire il testo come una serie di monologhi dà spazio a una pluralità di voci che permettono un’esplorazione più trasversale delle diverse declinazioni di questi rapporti.
È impossibile parlare della produzione letteraria di Bužarovska senza menzionarne l’impegno politico. In Macedonia, l’autrice è stata una delle iniziatrici del movimento #MeToo locale: insieme a un gruppo di amiche ha organizzato un’iniziativa che ha coinvolto cento donne e le loro esperienze di abusi sessuali, raccontandole senza nomi né dettagli specifici per sottolineare la natura sistemica del problema più che la necessità di trovare un capro espiatorio sorvolando sulla pervasività del fenomeno, cosa che invece è accaduta negli States. Di queste donne, sessanta hanno risposto all’appello e tutte le storie sono state pubblicate online il 16 gennaio 2018 sotto l’hashtag #СегаКажувам , la prima iterazione virale del #MeToo in area balcanica.
Le reazioni sono state contrastanti: se da un lato la condivisione delle storie ha da subito creato un dibattito molto acceso, ci sono anche state molte critiche, prima fra tutte la domanda “perché ora?”, nonostante l’hashtag significhi proprio “parlo adesso”, a sottolineare l’importanza del raccontare la propria esperienza indipendentemente dal quando. Nella conversazione con Duša, Bužarovska lamenta le riserve dimostrate dall’opinione pubblica, dalla tendenza a minimizzare al non credere in toto ai racconti pubblicati online, anche per l’assenza di nomi. Oltre a queste critiche e ad alcuni troll, però, sono state molte le istituzioni nazionali e internazionali che hanno supportato la campagna, e al primo hashtag è seguito un secondo, riguardante stavolta le molestie sui mezzi e negli spazi pubblici. Non stupisce che la portata virale del tema abbia incluso anche le sue iterazioni in letteratura, Mio marito in primis, e che i racconti abbiano ispirato numerosi adattamenti teatrali nell’area balcanica, con produzioni locali dalla Macedonia alla Slovenia, dove il #MeToo è partito proprio dal teatro.
Resta comunque doverosa una riflessione sull’opera di Bužarovska all’interno della produzione letteraria post-#MeToo, e l’argomentazione che una raccolta come Mio marito aggiunge a una discussione di per sé insidiosa. Per via della necessità di mettere sul tavolo la gravità e la pervasività di abusi e molestie, la produzione letteraria relativa al #MeToo ha spesso rischiato di raccontare queste dinamiche in maniera unilaterale, disperata, senza spazio per sfumature o complicazioni emotive. Le stesse recensioni e discussioni su questi racconti insistono spesso e volentieri su come le protagoniste non siano vittime, rientrando nuovamente nella difficile categorizzazione di chi e cosa sia una vittima, come si comporti o si debba comportare, o se lo status di vittima, che mette sul piatto mancanza o meno di agency da un lato e richiesta di tutela dall’altro, sia da auspicare o rigettare. Il dibattito sulla ricezione critica del movimento è divenuto quasi un corpus letterario a sé. In che modo, quindi, Mio marito si discosta da queste tendenze?
Insieme ai racconti di Bužarovska, uno dei testi più incisivi sul tema è sicuramente Questo è il piacere di Mary Gaitskill, già menzionato in apertura. Gaitskill, che in meno di cento pagine racconta l’amicizia tra i colleghi Margot e Quin, editor letterario accusato di molestie da una lunga trafila di donne, sceglie come Bužarovska di approcciarsi al tema con complessità, empatia e una buona dose di umorismo nero. Il taglio di Gaitskill, meno manicheo di molti romanzi del filone, offre uno spaccato delle zone grigie del consenso che, per quanto più comprensivo nei confronti del suo protagonista, non gli risparmia le critiche. In una delle scene più caustiche, in risposta all’affermazione di Quin per cui flirtava con altre donne per sentirsi vivo senza esserle infedele, la moglie controbatte: “Non sei manco un predatore. […] Manco quello. Sei un buffone. Un gretto, strisciante, subdolo buffone. È questa la cosa insopportabile”. Un buffone non troppo diverso dai mariti di Bužarovska.
Si può tornare quindi al discorso sulla rappresentazione di questi uomini schifosi, che non esistono, però, fuori da dinamiche in cui entrambe le parti hanno la capacità di agire all’interno della cornice. Sia in Questo è il piacere che in Mio marito, entrambi ben lungi dall’offrire soluzioni o giudizi morali netti, la narrazione riporta l’ago della bilancia verso il peso che le donne hanno in ognuna di queste dinamiche, ed è una narrazione che all’antagonismo fatalista e alla rassegnazione impotente oppone la responsabilità individuale, anche e soprattutto per mezzo dell’ironia. Resta tuttavia un nervo scoperto, la frequenza e la pervasività di episodi simili a quelli raccontati, ed è qui che letteratura e dibattito pubblico, specie per quanto concerne un’autrice impegnata come Bužarovska, devono separarsi.
Nel pieghevole dell’adattamento teatrale sloveno del Drama di Lubiana, messo in scena anche in Italia nella scorsa edizione di Mittelfest, i contributi critici si concentravano sul significato del matrimonio nella società neoliberista, sulle aspettative e gli stereotipi di genere con cui bambine, ragazze e giovani donne si devono confrontare, sulla capacità che il marito, “una parola senza forma”, ha di plasmare il destino della consorte. Parte delle protagoniste di Bužarovska, nota Djilas, si ritrova proprio ad affrontare il proprio ruolo di moglie quasi fosse una serie di compiti da portare a termine per rientrare nella definizione di donna, “un soggetto che per far parte della società deve mentire e allontanarsi dalle sfaccettature della propria identità che sceglie di celare dentro di sé”.
Sempre secondo Djilas, la pluralità dei monologhi delle donne di Mio marito, in letteratura come a teatro, ha una sfumatura di solitudine, ed evidenzia la mancanza di supporto amicale o umano nel caso in cui anche le altre donne siano concentrate sulle proprie difficoltà quotidiane. Lungi dall’essere una problematica unicamente letteraria, la narrazione in prima persona sembra quasi un punto fermo della comunicazione nella società odierna, tra i social media, l’attenta costruzione del sé (spesso e volentieri attraverso lo storytelling) e la crescente atomizzazione dei singoli.
Come uscirne, allora? È proprio qui che letteratura e prassi si incontrano e si diramano: chiuso il libro, ci si accorge che quello che appariva come un dramma esclusivamente individuale è una storia (una commedia, addirittura!) più comune di quanto sembri, e questa presa di coscienza può, proprio come nel #СегаКажувам, sfociare in un’azione collettiva. A dispetto della solitudine delle voci narranti, che si volatilizza però nella tanto vituperata pluralità, la fortuna di Bužarovska e Mio marito dimostra che la nascita di un dibattito pubblico sul tema, dal racconto della propria esperienza (in termini sia tragici che umoristici) al dialogo alla pari con altre donne e con le istituzioni, ha la possibilità di fare la differenza. E anche che, nel frattempo, possiamo perfino riderci su.