Come si riconosce un fascista? Come ci si rapporta ai residui postumi del fascismo – o meglio, del nazismo, che tornano strisciando nell’opinione comune, riconfezionati sotto la guisa del pop, del camp, del glamour? Perché una simile persistenza nell’immaginario collettivo, e perché i benpensanti di tutte le fazioni politiche sembrano così inclini a perdonarne le avvisaglie? Ma soprattutto: il fascismo è davvero passato di moda?
Questa ostinazione del fascino fascista nonostante la caduta dei suoi leader va quasi a confutare la tesi di Weber per cui è il carisma a fare il leader, non l’anatomia del potere a detenerlo, senza contare la permanenza di elementi nazisti nell’immaginario sessuale e nelle subculture kinky, etero e gay – non che il concetto di Männerbund fosse scevro da connotati omoerotici -. La nazisploitation si è conclusa, almeno sulla carta, ma il filone narrativo prodotto su questa falsariga non sembra cessare, declinato alle volte in chiave romantica, altre in chiave direttamente erotica.
Perché un destino così curioso, quindi? Quali sono gli elementi che rendono possibile la sopravvivenza e la trasformazione dell’estetica nazista in una cultura dove per il nazismo non c’è più spazio? Queste e altre le domande a cui Sontag cerca di dare una risposta in questo saggio, originariamente incluso nella raccolta del 1980 Sotto il segno di Saturno.
Note di traduzione
Una traduzione di Fascinating Fascism, titolo inglese di questo saggio, è in realtà disponibile dal 2013 sul blog Abbatto i muri, ma nonostante delle ottime intuizioni lessicali presenti nel testo, ad un confronto con l’originale alcuni titoli, termini storici e parole in lingua tedesca sono tradotti in maniera approssimativa e mancano intere frasi. Ad una ricerca più approfondita, però, raffrontando il testo con quello riportato in libri tradotti in italiano che citano Sontag (nello specifico, Il sogno di Butterfly) sembra che la traduzione pubblicata sul blog sia proprio quella ufficiale del 1982. Considerata la facilità di oggi nel reperire virtualmente qualsiasi informazione online, gli errori e le sviste sono assolutamente perdonabili.
Il libro, infatti, uscì in edizione italiana per Einaudi ormai nel 1982, ed è ormai praticamente introvabile. Come segnalatomi dal collega Richárd, la casa editrice Nottetempo sta ripubblicando le opere di Sontag, e l’uscita di Sotto il segno di Saturno è prevista per il 2022. Per ingannare l’attesa, o magari anche solo per approfondire la scrittura e il pensiero di Sontag, vi proponiamo questa lettura.
Fascino fascista
I
Primo reperto. È un libro con 126 splendide fotografie a colori di Leni Riefenstahl, sicuramente il più affascinante libro fotografico pubblicato negli ultimi anni. Sulle impervie montagne del Sudan meridionale vivono solitari circa ottomila Nuba simili a dèi, emblemi della perfezione fisica, con teste grandi, armoniose e in parte rasate, i volti espressivi, e i corpi muscolosi depilati e decorati da cicatrici; cosparsi di una cenere sacra color grigio perla, gli uomini saltano, si accovacciano, meditano, lottano su aridi pendii. E qui, sul retro di copertina de L’ultimo dei Nuba, figura una suggestiva disposizione di dodici fotografie in bianco e nero di Riefenstahl, affascinanti anch’esse, una sequenza cronologica di espressioni del volto (da un’ardente riservatezza a un ghigno da matrona texana durante un safari) che sconfiggono l’implacabile marcia del tempo. La prima fotografia è stata scattata nel 1927, quando Riefenstahl aveva venticinque anni ed era già una stella del cinema, le più recenti sono datate 1969 (nella quale tiene in braccio un bimbo africano nudo) e 1972 (con la macchina fotografica in mano), e ciascuna mostra una versione diversa dell’aspetto ideale, una sorta di bellezza imperitura, come quella di Elisabeth Schwarzkopf, che col passare degli anni diventa soltanto più gioiosa, più argentea e dalle sembianze sempre più floride. Qui, sulla quarta di copertina, è riportata una breve nota biografica su Riefenstahl, e un’introduzione (anonima) intitolata “Come Leni Riefenstahl giunse a studiare i Nuba Mesakin di Kordofan” – piena di inquietanti bugie. L’introduzione, che ci fornisce un resoconto dettagliato del pellegrinaggio di Riefenstahl nel Sudan (ispirato, ci viene detto, dalla lettura di Verdi colline d’Africa di Hemingway “durante una notte insonne a metà degli anni Cinquanta”), descrive laconicamente la fotografa come “una figura mitica del cinema dell’anteguerra, quasi dimenticata da una nazione che ha scelto di ripulire dalla memoria un’era della propria storia.” Chi (si spera) se non la stessa Riefenstahl potrebbe aver escogitato questa menzogna su quella a cui ci si riferisce nebulosamente come “una nazione” che per una ragione non meglio specificata “ha scelto” di compiere il deplorevole atto di viltà di dimenticare “un’era”- che con un certo tatto si evita di specificare – “dalla propria storia”? Si presume che almeno qualcuno tra i lettori sarà rimasto sbigottito da questa ritrosia nell’alludere alla Germania e al Terzo Reich. In confronto all’introduzione, la quarta di copertina del libro è sorprendentemente approfondita riguardo alla carriera della fotografa, riportando a pappagallo le informazioni fittizie che Riefenstahl diffonde da ormai vent’anni.
Fu nel corso dei tumultuosi ed epocali anni Trenta della Germania che Riefenstahl assurse a fama internazionale in qualità di regista. Era nata nel 1902, e la sua prima devozione fu quella per la danza creativa. Questo la portò in seguito a prendere parte ad alcuni film muti, e ben presto fu lei stessa a girare – e interpretare nel ruolo di protagonista – dei film sonori, come La montagna (1929). Queste produzioni così intense e romantiche si guadagnarono molti ammiratori, non da ultimo Adolf Hitler, che dopo essere salito al potere nel 1933 commissionò a Riefenstahl un documentario sul Raduno di Norimberga del 1934.
Ci vuole una certa originalità per descrivere l’epoca nazista come “i tumultuosi ed epocali anni Trenta della Germania”, per riassumere gli eventi del 1933 come “essere salito al potere”, e per affermare che Riefenstahl, la cui opera fu correttamente identificata già dai contemporanei come propaganda nazista, godette “di fama internazionale in qualità di regista”, all’apparenza come i suoi contemporanei Renoir, Lubitsch e Flaherty. È possibile che gli editori abbiano permesso che LR scrivesse di suo pugno le note di copertina? Risulta difficile credere a una simile ipotesi, tuttavia “la sua prima devozione fu quella per la danza creativa” è una frase di cui pochi madrelingua inglesi sarebbero capaci. Questi fatti sono, ovviamente, inesatti o inventati. Non soltanto Riefenstahl non girò né prese parte a un film sonoro intitolato La montagna (1929). Tale film non esiste. Più in generale: Riefenstahl non si limitò dapprima a prendere parte ad alcuni film muti per poi, con l’avvento del sonoro, iniziare a dirigere e interpretare i propri film. In tutti e nove i film in cui ha recitato, Riefenstahl era la star; e sette di questi non furono diretti da lei. I sette film erano: La montagna dell’amore (Der heilige Berg, 1926), Il grande salto (Der große Sprung, 1927), Il crollo degli Asburgo (Das Schicksal derer von Habsburg, 1929), La tragedia di Pizzo Palù (Die weiße Hölle vom Piz Palü, 1929) -tutti muti- seguiti da Tempesta sul Monte Bianco (Stürme über dem Montblanc, 1930), Ebbrezza bianca (Der weisse Rausch, 1931) e S.O.S. Iceberg (S.O.S. Eisberg, 1932-1933). Tutti tranne uno furono diretti da Arnold Fanck, autore già dal 1919 di film di montagna di enorme successo, che girò solo altri due film, entrambi un fiasco, dopo che Riefenstahl lo abbandonò per intraprendere la carriera di regista nel 1932. (Il film non diretto da Fanck è Il crollo degli Asburgo, un polpettone melenso e strappalacrime sulla monarchia girato in Austria, nel quale Riefenstahl interpretava Maria Vetsera, l’amante del Principe Rodolfo a Mayerling. Non sembra esserci giunta nemmeno una copia.)
I prodotti popolar-wagneriani di Fanck, che funsero da veicolo per la carriera di Riefenstahl, non erano soltanto “intensi e romantici”. Indubbiamente pensati senza un fine politico al momento della realizzazione, col senno di poi questi film sembrano essere, come sottolineato da Siegfried Kracauer, un’antologia di sentimentalismi proto-nazisti. La scalata di una montagna nei film di Fanck era una metafora dal fascino irresistibile dell’aspirazione sfrenata verso una meta mistica superiore, sublime e terrificante al tempo stesso, che si sarebbe poi concretizzata nell’adorazione del Führer. Il tipo di personaggio generalmente interpretato da Riefenstahl era quello di una ragazza selvaggia che osa scalare la vetta da cui altri, i porci della valle, si tirano indietro. Nel suo primo ruolo, quello di una giovane ballerina di nome Diotima nel film muto La montagna sacra (1926), viene corteggiata da un appassionato scalatore che la converte alle sane estasi dell’alpinismo. Questo personaggio subì nel tempo una progressiva esaltazione. Nel suo primo film sonoro, Tempesta sul Monte Bianco (1930) (Sontag menziona il film come Avalanche, ma il film in questione è Tempesta sul Monte Bianco, il cui titolo inglese è effettivamente Storm Over Mont Blanc, NdT), Riefenstahl è una fanciulla ossessionata dalla montagna e innamorata di un giovane meteorologo, che porterà in salvo quando una tempesta lo bloccherà nel suo osservatorio sul Monte Bianco. Riefenstahl diresse da sola sei film, il primo dei quali, La bella maledetta (Das blaue Licht, 1932), era un altro film di montagna. Riefenstahl ne era anche la protagonista, in un ruolo simile a quelli dei film di Fanck per cui “si guadagnò molti ammiratori, non da ultimo Adolf Hitler”, ma questa volta trasformando in allegorie quegli oscuri temi di desiderio, purezza e morte che Fanck aveva trattato con una leggerezza da boy scout. Al solito, la montagna è rappresentata come supremamente bella e pericolosa, come quella forza maestosa che esorta all’estrema affermazione e alla fuga dall’io per unirsi nel coraggio fraterno e nella morte. Il ruolo che Riefenstahl si costruì era quello di una creatura selvaggia che aveva un rapporto particolare con una forza distruttiva: soltanto Junta, la stracciona emarginata dal villaggio, è in grado di raggiungere la misteriosa luce blu irradiata dalla vetta del Monte Cristallo, mentre altri giovani paesani, attratti dalla luce, tentano di scalare la montagna ma precipitano verso la morte. A causare alla fine la morte della ragazza non è l’impossibilità della meta simboleggiata dalla montagna, ma l’animo materialista e prosaico dei paesani invidiosi e il cieco razionalismo del suo amante, un forestiero pieno di buone intenzioni venuto dalla città.
Il film diretto da Riefenstahl immediatamente dopo La bella maledetta non fu “un documentario sul Raduno di Norimberga del 1934” – Leni Riefenstahl girò quattro film documentari, non due, come ha sempre affermato dopo gli anni Cinquanta e come riportato dalla maggior parte delle correnti di riabilitazione della sua carriera -, ma La vittoria della fede (Sieg des Glaubens, 1933), che celebra il primo Raduno del Partito Nazionalsocialista dopo l’ascesa al potere di Hitler. Poi venne la prima delle due opere che la consacrarono effettivamente a fama internazionale, il film sul successivo Raduno del Partito Nazionalsocialista, Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935) – il cui titolo non viene mai menzionato sulla quarta de L’ultimo dei Nuba – dopo il quale girò un cortometraggio (diciotto minuti) per l’esercito, Il giorno della libertà, il nostro esercito (Tag der Freiheit: Unsere Wehrmacht, 1935), che ritrae la bellezza dei soldati e della leva militare a servizio del Führer. (Non sorprende non trovare menzioni di questo film, di cui fu ritrovata una copia nel 1971; durante gli anni Cinquanta e Sessanta, quando Riefenstahl e tutti gli altri credevano che Il giorno della libertà fosse andato perduto, lei lo rimosse dalla sua filmografia e si rifiutò di discuterne con gli intervistatori.)
La nota sulla quarta di copertina continua:
Il rifiuto di Riefenstahl di piegarsi al tentativo di Goebbels di assoggettare la sua visione cinematografica alle esigenze strettamente propagandistiche del Partito portò ad uno scontro di volontà che raggiunse l’apice con la realizzazione del film di Riefenstahl sui Giochi Olimpici del 1936, Olympia. Goebbels tentò di distruggerlo; fu salvato solo grazie alla personale intercessione di Hitler. Ormai con due dei più straordinari documentari degli anni Trenta a suo credito, Riefenstahl continuò a girare film di sua ideazione, estranei all’ascesa della Germania nazista, fino al 1941, anno in cui le condizioni della guerra le impedirono di continuare. Le sue conoscenze tra i vertici del Partito Nazista le costarono l’arresto alla fine della Seconda Guerra Mondiale: fu processata due volte, e due volte fu assolta. La sua fama fu oscurata, e Riefenstahl venne in parte dimenticata – anche se per un’intera generazione di tedeschi il suo nome era stato familiare.
Ad eccezione del punto in cui si dice che il suo nome era stato familiare per la Germania nazista, in queste parole non c’è la benché minima parte di verità. Investire Riefenstahl del ruolo dell’individualista-artista che sfida i burocrati filistei e la censura dello Stato mecenate (“il tentativo di Goebbels di assoggettare la sua visione cinematografica alle esigenze strettamente propagandistiche del Partito”) dovrebbe sembrare un’assurdità per chiunque abbia visto Il trionfo della volontà – un film la cui concezione stessa esclude la possibilità che la regista possa aver avuto un’estetica indipendente dalla propaganda. I fatti, costantemente negati da Riefenstahl dal dopoguerra in poi, vogliono che lei abbia girato Il trionfo della volontà con mezzi illimitati e con l’appoggio incondizionato del regime (non ci fu mai nessun attrito tra la regista e il ministro tedesco della propaganda). Anzi, Riefenstahl era stata coinvolta, come racconta nel breve libro sulla lavorazione de Il trionfo della volontà, nell’organizzazione del raduno che fin dall’inizio era stato concepito come il set di un kolossal (nota 1). Olympia, un film di tre ore e mezza diviso in due parti, Festa di popoli (Fest der Völker) e Festa di bellezza (Fest der Schönheit) non era da meno quanto a produzione ufficiale. A partire dagli anni Cinquanta, nelle interviste Riefenstahl ha sempre mantenuto la versione per cui Olympia fosse stato commissionato dal Comitato Olimpico Internazionale, prodotto dalla propria compagnia e realizzato a scapito delle proteste di Goebbels. La verità è che Olympia fu commissionato e interamente finanziato dal governo nazista (fu creata una compagnia fantoccio a nome di Riefenstahl perché sarebbe risultato sconveniente che il governo apparisse nelle veci di produttore) e agevolato dal ministero di Goebbels nel corso di ogni fase delle riprese (nota 2), persino la verosimile leggenda dell’opposizione di Goebbels alle immagini del trionfo del campione di atletica, l’afroamericano Jesse Owens, si rivelò falsa. Riefenstahl lavorò al montaggio per diciotto mesi, terminando il film giusto in tempo per far sì che la prima mondiale si tenesse a Berlino il 29 aprile 1938, come parte dei festeggiamenti in occasione del quarantanovesimo compleanno di Hitler; più tardi, in quello stesso anno, Olympia rappresentò la Germania alla Mostra del Cinema di Venezia, dove si aggiudicò il primo premio (Sontag utilizza il termine medaglia d’oro, ma in epoca fascista il premio per il primo classificato la Coppa Mussolini, NdT).
Altre bugie: affermare che Riefenstahl “continuò a girare film di sua ideazione, estranei all’ascesa della Germania nazista, fino al 1941.” Nel 1939 (di ritorno da una visita a Hollywood, ospite di Walt Disney), accompagnò la Wehrmacht nell’invasione della Polonia in qualità di corrispondente di guerra con una troupe di operatori al seguito; ma non esistono prove della sopravvivenza di questo materiale. Dopo Olympia Riefenstahl girò solo un altro film, Tiefland, che iniziò nel 1941, riprese dopo un’interruzione nel 1944 (negli studi Barrandov nella Praga occupata dai nazisti) e terminò nel 1954. Come La bella maledetta, Tiefland mette a confronto la corruzione della pianura o della valle con la purezza della montagna, e ancora una volta la protagonista (interpretata da Riefenstahl) è una bellissima emarginata. Riefenstahl preferisce dare l’impressione di aver girato soltanto due documentari nel corso di una lunga carriera come regista di film di finzione, ma la verità è che quattro dei sei film da lei diretti erano documentari realizzati e finanziati dal governo nazista.
Non è molto appropriato descrivere il rapporto professionale e personale di Riefenstahl con Hitler e Goebbels come “conoscenze tra i vertici del Partito Nazista”. Riefenstahl era un’amica intima di Hitler ben prima del 1932; ed era anche un’amica di Goebbels: non esistono prove a supporto della versione di Riefenstahl dal 1950 in poi secondo cui Goebbels la odiasse, o che avesse addirittura il potere di interferire nel suo lavoro. Proprio per la confidenza che aveva con Hitler, Riefenstahl era l’unica regista in tutta la Germania a non dover rispondere alla Camera del Cinema (Reichsfilmkammer) del ministero della propaganda di Goebbels. In ultimo, è fuorviante affermare che Riefenstahl fu “processata due volte e due volte fu assolta” dopo la guerra. Ciò che avvenne è che fu arrestata dagli Alleati per un breve periodo nel 1945, e due delle case di sua proprietà (una a Berlino e una a Monaco) furono sequestrate. Gli interrogatori e le apparizioni in tribunale ebbero inizio nel 1948 e proseguirono a intermittenza fino al 1952, quando fu denazificata una volta per tutte con il verdetto: “Nessuna attività politica a sostegno del regime nazista che giustifichi una punizione.” Una precisazione più importante: che Riefenstahl meritasse o meno un periodo di detenzione, la questione non risiedeva nelle sue “conoscenze” con i vertici del nazismo, bensì nelle sue attività come propagandista di punta del Terzo Reich.
La nota biografica sulla quarta di copertina de L’ultimo dei Nuba riassume fedelmente la principale linea difensiva che Riefenstahl si fabbricò negli anni Cinquanta e che è esplicitata più nei dettagli nell’intervista rilasciata a Cahiers du Cinéma nel settembre del 1965. Lì negò che il suo lavoro fosse propaganda, definendolo cinema verità. “Nemmeno una singola scena è preparata”, dice Riefenstahl a proposito de Il trionfo della volontà, “Tutto è autentico. E non esiste un commento tendenzioso per la semplice ragione che non esistono affatto commenti. È storia-pura storia.” Siamo lontani anni luce dal veemente disprezzo per i “film di cronaca”, i semplici “reportage” o “riprese della realtà”, giudicati indegni dello “stile eroico” di tali eventi, espresso nel suo libro sulla realizzazione del film. (nota 3)
Anche se Il trionfo della volontà non ha una voce narrante, si apre con un testo che preannuncia il raduno definendolo la redenzione culminante della storia tedesca. Ma questa dichiarazione d’apertura è il meno originale nei modi in cui il film è tendenzioso. Non ha un commento perché non ne ha bisogno, perché Il trionfo della volontà rappresenta una trasformazione della realtà radicale e già raggiunta: la storia diviene teatro. Il modo in cui il raduno del Partito del 1934 fu allestito fu in parte determinato dalla decisione di produrre Il trionfo della volontà – l’evento storico fungeva da set di un film che avrebbe poi assunto il carattere di documentario autentico. Oltretutto, quando parte delle riprese sui discorsi dei capi di Partito sulle tribune risultò rovinato, Hitler diede l’ordine di rifare le scene; e Streicher, Rosenberg, Hess e Frank giurarono nuovamente con fare istrionico la loro fedeltà al Führer alcune settimane dopo, senza Hitler e senza un pubblico, in un set ricostruito in studio da Speer. (Tutto sommato appare corretto che Speer, che costruì l’immensa sede del raduno alla periferia di Norimberga, figuri come architetto del film nei crediti de Il trionfo della volontà.) Chiunque difenda le pellicole di Riefenstahl in quanto documentari, ammesso che il documentario vada distinto dalla propaganda, è un ingenuo. Ne Il trionfo della volontà, il documento (l’immagine) non solo è testimonianza della realtà ma è uno dei motivi per cui suddetta realtà è stata costruita, e dovrà alla fine sostituirsi a essa.
Nelle società liberali la riabilitazione delle figure proscritte non avviene con il carattere radicale e definitivo della Grande enciclopedia sovietica, che a ogni nuova edizione ripropone alcuni personaggi fino ad allora innominabili e ne relega un numero uguale o maggiore ad un destino di non-esistenza. Le nostre riabilitazioni sono più sottili, più insinuanti. Non è che il passato nazista di Riefenstahl sia diventato tutto a un tratto accettabile. È solo che, siccome la ruota culturale ha fatto il suo giro, ora non ha più importanza. Invece di somministrare dall’alto una versione gelida e asettica della storia, una società liberale risolve simili questioni aspettando che i cicli dell’opinione pubblica dirimano gradualmente la controversia. La purificazione della nomea di Riefenstahl dalle scorie del nazismo ha preso piede ormai da qualche tempo, ma ha probabilmente raggiunto il suo culmine quest’anno, con Riefenstahl come ospite d’onore a un nuovo festival cinematografico organizzato da cinefili che si è tenuto durante l’estate nel Colorado, con il fiume di articoli e interviste pieni di deferenza rilasciati ai giornali e alla televisione, e ora con la pubblicazione di L’ultimo dei Nuba. Parte di questa promozione di Riefenstahl a monumento culturale è sicuramente dovuta al fatto che è una donna. La locandina del Festival del Cinema di New York del 1973, realizzata da un’artista nota anche come femminista, ritraeva una bambolona bionda il cui seno destro è racchiuso da tre nomi: Agnès Leni Shirley (ossia Varda, Riefenstahl, Clarke). Le femministe avrebbero provato una fitta al cuore al dover sacrificare l’unica donna che ha diretto film che tutti considerano di prima classe. Ma l’impulso più forte all’origine di questo cambio di atteggiamento verso Riefenstahl risiede nella nuova, fortunata diffusione del concetto del bello.
La linea adottata dai difensori di Riefenstahl, tra le cui fila militano ormai le voci più influenti nel panorama del cinema d’avanguardia, è insistere sulla sua eterna preoccupazione per il bello. Questa, naturalmente, è ormai da qualche anno anche la tesi della stessa Riefenstahl. Così, l’intervistatore di Cahiers du Cinéma riuscì ad incastrare la regista osservando con una certa nonchalance che Il trionfo della volontà e Olympia “danno entrambi forma a una certa realtà, basata essa stessa su una certa idea di forma. Lei riconosce qualcosa di tipicamente tedesco in questa preoccupazione per la forma?”. Al che Riefenstahl rispose:
“Posso solo affermare di sentirmi spontaneamente attratta da tutto ciò che è bello. Sì: bellezza, armonia. E forse questa cura per la composizione, quest’aspirazione alla forma è, a tutti gli effetti, una particolarità tutta tedesca. Ma non so esattamente come descriverla. È qualcosa che viene dall’inconscio, non dalla mia consapevolezza… Cosa vuole che le dica? Tutto ciò che è puramente realistico, scorci di vita, tutto ciò che è mediocre, ordinario, non mi interessa… Io sono affascinata da ciò che è bello, forte, sano, vivo. Cerco l’armonia. Quando si produce armonia sono felice. Credo, con questo, di averle risposto.”
Ecco perché L’ultimo dei Nuba è l’ultimo, indispensabile passo per la riabilitazione di Riefenstahl. È la definitiva riscrittura del passato; o, per i suoi sostenitori, la definitiva conferma che fosse soltanto una fanatica della bellezza, non una propagandista dell’orrido. (nota 4)
All’interno dello splendido volume, fotografie della nobile, impeccabile tribù. E sul retro di copertina, fotografie della “mia perfetta donna tedesca” (come la definiva Hitler) che trionfa sugli affronti della storia, tutta sorrisi.
Bisogna riconoscere che, se il libro non fosse stato firmato da Riefenstahl, il sospetto che queste fotografie siano state scattate dalla più interessante, talentuosa e significativa artista dell’epoca nazista non sorgerebbe spontaneo. La maggior parte delle persone che sfogliano L’ultimo dei Nuba lo vedranno probabilmente come l’ennesimo lamento per la progressiva estinzione delle popolazioni primitive – l’esempio più noto rimane il Lévi-Strauss di Tristi tropici sugli indigeni Bororo nel Brasile – ma se le fotografie si esaminano attentamente, combinate con il prolisso testo scritto da Riefenstahl, risultano una chiara continuazione delle sue opere sotto il nazismo. L’inclinazione particolare di Riefenstahl è svelata dalla sua scelta di questa specifica tribù e non di un’altra: un popolo che lei descrive come profondamente artistico (ognuno possiede una lira) e maestoso (gli uomini Nuba, annota Riefenstahl, hanno una struttura atletica rara nelle altre tribù africane); dotati di “una sensibilità molto più forte per i rapporti spirituali e religiosi rispetto alle questioni terrene e materiali”, la loro principale attività, ripete, ha carattere cerimoniale. L’ultimo dei Nuba è l’incarnazione di un ideale primitivista: il ritratto di un popolo che vive in perfetta armonia col proprio ambiente, inviolato dalla “civiltà”.
Tutti e quattro i film di Riefenstahl commissionati dai nazisti – che siano sui raduni del Partito, sulla Wehrmacht o sugli atleti – celebrano la rinascita del corpo e della collettività, mediata dall’adorazione per un leader irresistibile. Seguono le orme dei film di Fanck nei quali aveva recitato e dal suo La bella maledetta. I film di montagna erano storie di aspirazione a luoghi più elevati, di sfida e di ordalia degli elementi e della natura primigenia, raccontano la vertigine di fronte al potere, simboleggiato dalla magnificenza e dalla bellezza delle montagne. I film nazisti sono l’epica di una comunità già realizzata, dove la realtà di ogni giorno è trascesa attraverso l’estasi dell’autocontrollo e della sottomissione; sono opere sul trionfo del potere. E L’ultimo dei Nuba, un’elegia per la bellezza destinata a spegnersi e per i mistici poteri di quei selvaggi che Riefenstahl definisce “il suo popolo adottivo”, è la parte finale del suo trittico di suggestioni fasciste.
Nel primo pannello, i film di montagna, persone intabarrate si sforzano di salire sempre più in alto per dimostrare il proprio valore nella purezza del gelo, la vitalità si identifica con l’ardua prova fisica. Nel pannello centrale, i film realizzati per il governo nazista: Il trionfo della volontà utilizza inquadrature delle masse ampie e sovraffollate alternate a primi piani che isolano una sola passione, una singola perfetta sottomissione: in una zona temperata delle prestanti persone in uniforme si assembrano e si raggruppano, come a cercare la coreografia perfetta per esprimere la propria lealtà. In Olympia, il suo film più ricco di suggestioni visive (impiega sia i movimenti di macchina verticali dei film di montagna che quelli tipicamente orizzontali de Il trionfo della volontà), una dopo l’altra, figure dai muscoli tesi e dagli abiti succinti ricercano l’estasi della vittoria, acclamate da file di compatrioti sulle tribune, tutti sotto lo sguardo immobile del benevolo SuperSpettatore, Hitler, a consacrare questo sforzo con la sua presenza nello stadio. (Olympia, che avrebbe potuto benissimo intitolarsi anch’esso Il trionfo della volontà, sottolinea che non esistono vittorie facili.) Nel terzo pannello, L’ultimo dei Nuba, i selvaggi praticamente nudi, in attesa della prova finale per la loro comunità orgogliosa ed eroica, la loro imminente estinzione, scorrazzano e posano sotto il sole cocente.
È l’ora del Crepuscolo degli dèi. Gli eventi centrali nella società dei Nuba sono gli incontri di lotta e i funerali: intense unioni di splendidi corpi maschili e morte. Come i Masai dipinti di henné e i cosiddetti Uomini di fango della Nuova Guinea, i Nuba si dipingono per tutte le più importanti occasioni sociali e religiose, spalmandosi addosso una cenere grigio perla che allude inequivocabilmente alla morte. Riefenstahl sostiene di essere arrivata “appena in tempo”, perché nei pochi anni trascorsi dallo scatto di queste fotografie i Nuba sono stati corrotti dal denaro, dal lavoro, dai vestiti. (E, probabilmente, dalla guerra – che Riefenstahl non menziona mai, dal momento che ciò che le interessa è il mito, non la storia). La guerra civile che sta lacerando quella zona del Sudan da una dozzina d’anni deve aver disseminato sul suo cammino una nuova tecnologia e un gran numero di detriti. Nonostante i Nuba siano neri, non ariani, il ritratto che ne dà Riefenstahl evoca alcuni dei temi più importanti dell’ideologia nazista: il contrasto tra il puro e l’impuro, l’incorruttibile e il profanato, il fisico e lo spirituale, il lieto e il grave. Una delle principali accuse agli ebrei mosse dalla Germania nazista era il loro essere cittadini, intellettuali, portatori di un corrosivo “spirito critico” che aveva il seme della distruzione. Il rogo dei libri del maggio 1933 si aprì col grido di Goebbels: “L’era dell’esasperato intellettualismo ebraico ormai è finita, e il successo della nostra rivoluzione ha restituito la precedenza allo spirito tedesco.” E quando nel novembre del 1936 Goebbels proibì ufficialmente la critica d’arte, fu perché aveva “tratti tipicamente ebraici”: anteponeva la testa al cuore, l’individuo alla collettività, l’intelletto al sentimento. Nelle tematiche rielaborate dal fascismo dei giorni nostri, non sono più gli ebrei ad avere il ruolo di profanatori. È la “civiltà” stessa.
Ciò che distingue la versione fascista della vecchia idea del Buon Selvaggio è il suo disprezzo per tutto ciò che è riflessivo, critico e pluralista. Nel compendio di virtù primitive di Riefenstahl, non sono certo decantate – come in Lévi-Strauss – la complessità e la raffinatezza del mito, l’organizzazione sociale o del pensiero dei primitivi. Riefenstahl si richiama fortemente alla retorica fascista quando celebra la modalità in cui i Nuba si esaltano e si unificano nelle prove fisiche dei loro incontri di lotta, nei quali i maschi Nuba “ansanti e affaticati”, “gli enormi muscoli tesi”, si lanciano a terra l’un l’altro – combattendo non per un premio materiale ma per “il rinnovamento della sacra vitalità della tribù”. La lotta e i rituali che la accompagnano, nel racconto di Riefenstahl, sono elemento di coesione per i Nuba. La lotta
È l’espressione di tutto ciò che distingue lo stile di vita dei Nuba…. La lotta genera le più appassionate lealtà e partecipazione emotiva nei sostenitori, ossia tutti gli abitanti del villaggio che non prendono parte al combattimento… La sua importanza come espressione della visione dei Mesakiu e Korongo non potrà mai essere abbastanza sottolineata, è l’espressione del mondo invisibile della mente e dello spirito nel mondo visibile e sociale.
Nel celebrare una società in cui l’esibizione della forza fisica e del coraggio e della vittoria del più forte sul più debole sono, per come la vede lei, i simboli unificanti della cultura collettiva – dove il successo nella lotta è “la principale aspirazione della vita di un uomo” – Riefenstahl non sembra affatto aver cambiato idea dai tempi dei suoi film nazisti. E il ritratto che dà dei Nuba va al di là dei suoi film nell’evocare un aspetto dell’ideale fascista: una società in cui le donne ricoprono la mera funzione di riproduttrici e aiutanti, escluse da tutte le funzioni cerimoniali, e rappresentano una minaccia all’integrità e alla forza degli uomini. Dal punto di vista “spirituale” dei Nuba (e con Nuba Riefenstahl intende, ovviamente, i maschi), il contatto con le donne è un atto sacrilego; ma, in una società ideale come questa, le donne sanno stare al loro posto.
Le fidanzate o le mogli dei lottatori sono preoccupate quanto gli uomini di evitare ogni contatto intimo… l’orgoglio di essere la sposa o la moglie di un forte lottatore prevale sulla sensualità.
In ultimo, Riefenstahl va dritta al bersaglio scegliendo come soggetto un popolo che “guarda alla morte come a una semplice questione di destino – a cui non oppongono resistenza e contro cui non combattono, una società il cui cerimoniale più entusiasmante e fastoso è il funerale. Viva la muerte.
Rifiutarsi di staccare L’ultimo dei Nuba dal passato di Riefenstahl può sembrare un atto ingrato e rancoroso, ma ci sono delle utili lezioni che si possono imparare dalla continuità della sua opera, così come da quel recente evento curioso e implacabile – la sua riabilitazione. Le carriere di altri artisti che divennero fascisti, come Céline e Benn e Marinetti e Pound (per non parlare di quelli, come Pabst e Pirandello e Hamsun, che abbracciarono il fascismo al tramonto delle loro energie creative), non sono altrettanto istruttive. Perché Riefenstahl è l’unica artista di spessore ad essersi completamente identificata con l’epoca nazista e la sua opera, non soltanto durante il Terzo Reich ma trent’anni dopo la sua fine ha illustrato coerentemente molti temi dell’estetica fascista.
L’estetica fascista include ma va ben oltre la particolare celebrazione del primitivo riscontrata ne L’ultimo dei Nuba. Più in generale, sgorga da (e giustifica) una preoccupazione per situazioni di controllo, di sottomissione, di sforzo esagerato, e la sopportazione del dolore; accoglie in sé due stati d’animo apparentemente contraddittori, l’egomania e l’asservimento. I rapporti di dominanza e schiavitù assumono la forma di un classico spettacolo sfarzoso: le masse e i gruppi di persone, la trasformazione di persone in cose, la moltiplicazione o la ripetizione delle cose, e il raggruppamento delle persone/cose attorno a un’onnipotente e ipnotica forza o figura dominante. La drammaturgia fascista si incentra sui rapporti orgiastici tra forze potenti e i loro burattini, tutti agghindati allo stesso modo e mostrati in numero sempre crescente. La sua coreografia si alterna tra moto perpetuo e pose congelate, statiche, “virili”. L’arte fascista glorifica la resa, esalta l’incoscienza, deifica la morte.
Un simile tipo di arte non è certo confinato alle sole opere chiaramente etichettate come fasciste o prodotti sotto governi fascisti. (Per citare soltanto alcuni film: anche Fantasia di Walt Disney, Banana split di Busby Berkeley e 2001: Odissea nello spazio di Kubrick sono esempi straordinari di certe strutture formali e temi dell’arte fascista.) E, com’è naturale che sia, elementi dell’arte fascista proliferano nell’arte ufficiale dei Paesi comunisti – che si presenta sempre sotto la bandiera del realismo, mentre l’arte fascista rigetta il realismo in nome dell’“idealismo”. Il gusto del monumentale e dell’obbedienza di massa all’eroe è comune all’arte fascista e comunista, e riflette l’idea propria di tutti i regimi totalitari secondo cui l’arte ha la funzione di “rendere immortali” i suoi leader e le sue dottrine. La rappresentazione del movimento in schemi rigidi e grandiosi è un altro elemento in comune, perché una simile coreografia è prova dell’unità dell’ordinamento politico. Le masse prendono forma, diventano design. Ecco quindi che le dimostrazioni atletiche di massa, uno spettacolo coreografico di corpi, sono un’attività apprezzata in tutti i Paesi totalitari; e l’arte della ginnastica, così popolare oggi nell’Est Europa, evoca anch’essa elementi ricorrenti dell’estetica fascista: la forza dominata o controllata, la precisione militare.
Sia nei regimi fascisti che comunisti, la volontà è messa in scena pubblicamente, nel dramma del leader e del coro. Ad essere interessante nella relazione tra politica e arte sotto il nazionalsocialismo non è la subordinazione dell’arte a esigenze politiche, perché questo è vero nelle dittature di destra come in quelle di sinistra, ma il fatto che la politica si fosse appropriata della retorica dell’arte – dell’arte nella sua fase tardo-romantica. (La politica è “l’arte più elevata e più completa che ci sia”, disse Goebbels nel 1933, e “noi che forgiamo la nuova politica tedesca ci sentiamo noi stessi artisti… [essendo] il compito dell’arte e dell’artista quello di formare, di rimuovere i malati e creare libertà per i sani.”) Ciò che è interessante dell’arte sotto il nazionalsocialismo sono quelle caratteristiche che la rendono una variante a sé dell’arte totalitaria. L’arte ufficiale di nazioni come l’Unione Sovietica e la Cina mira a esporre e rinforzare una moralità utopica. L’arte fascista esibisce un’estetica utopica – quella della perfezione fisica. Pittori e scultori sotto il nazismo raffiguravano spesso il nudo, ma era loro proibito di mostrare qualsiasi imperfezione fisica. I loro nudi sembrano immagini delle riviste per culturisti: pin-up che sono al tempo stesso ipocritamente asessuate e (in senso tecnico) pornografiche, perché hanno la perfezione di una fantasia. La retorica del bello e del sano propagata da Riefenstahl, bisogna dire, è molto più sofisticata e mai stupida, come invece avviene in altre forme di arte visiva nazista. Apprezza una vasta gamma di tipi fisici – in materia di bellezza non è razzista – e in Olympia mostra anche momenti di sforzo e fatica, con le conseguenti imperfezioni, oltre a esercizi stilizzati eseguiti apparentemente senza sforzo (come nel caso dei tuffi, nella sequenza più apprezzata del film).
In contrasto con l’asessuata castità dell’arte ufficiale comunista, l’arte nazista è al tempo stesso libidinosa e idealizzante. Un’estetica utopica (la perfezione fisica; l’identità come presupposto biologico) implica un erotismo ideale: la sessualità convertita nel magnetismo dei leader e nella gioia dei seguaci. L’ideale fascista mira a incanalare l’energia sessuale in una forza spirituale per il beneficio della collettività. L’elemento erotico (ossia, le donne) è sempre presente come tentazione, e la reazione più ammirevole è un’eroica repressione dell’impulso sessuale. In questo modo Riefenstahl spiega perché i matrimoni Nuba, a differenza dei loro splendidi funerali, non prevedono cerimonie o feste.
Il desiderio più grande di un maschio Nuba non è l’unione con una donna ma essere un buon lottatore, affermando perciò il principio di astensione. Le danze cerimoniali dei Nuba non sono occasioni per la sensualità, ma piuttosto “celebrazioni della castità” – di contenimento della forza vitale.
L’estetica fascista si basa sul contenimento delle forze vitali; i movimenti sono limitati, trattenuti, mantenuti.
L’arte nazista è reazionaria, si pone come una provocazione al di fuori delle principali correnti artistiche del secolo. Ma proprio per questa ragione si sta guadagnando un posto nel gusto contemporaneo. Gli organizzatori di sinistra di un’esposizione di quadri e sculture naziste (la prima dopo la guerra) attualmente in mostra a Francoforte, hanno riscontrato, con grande disappunto, un pubblico eccessivamente grande e meno serio di quanto avessero sperato. Anche se corredata da ammonimenti didattici di Brecht e da fotografie dei campi di concentramento, ciò che l’arte nazista ricordava a queste folle erano altre forme d’arte degli anni Trenta, in particolare l’Art Déco. (L’Art Nouveau non potrebbe mai essere uno stile fascista; è, piuttosto, il prototipo di quell’arte che il fascismo definisce decadente; lo stile fascista al suo apice è l’Art Déco, con le sue linee nette e i suoi bruschi accostamenti di materiali, con il suo erotismo pietrificato.) La stessa concezione estetica responsabile dei colossi bronzei di Arno Breker – lo scultore preferito di Hitler (e, per un breve periodo, di Cocteau) – e di Josef Thorak ha prodotto anche l’Atlante dai muscoli scolpiti di fronte al Rockefeller Center di Manhattan e il monumento vagamente osceno ai fanti caduti nella prima guerra mondiale nella stazione ferroviaria della Trentesima Strada a Filadelfia.
Per un pubblico tedesco poco sofisticato, il fascino dell’arte nazista risiedeva forse nel suo carattere di arte semplice, figurativa, emotiva; non intellettuale; un sollievo rispetto alle complessità sempre più esigenti dell’arte modernista. Per un pubblico più sofisticato, il fascino è in parte dovuto a quell’attuale fame di riportare in auge tutti gli stili del passato, specialmente quelli maggiormente messi alla gogna. Ma una rinascita dell’arte nazista, com’è accaduto per l’Art Nouveau, la pittura preraffaellita e l’Art Déco, è alquanto improbabile. Quei quadri e sculture non soltanto sono sentenziosi, sono anche un’arte sbalorditivamente povera. Ma sono proprio queste qualità a invitare il pubblico a guardare all’arte nazista con un distacco consapevole e malizioso, come a una forma di Pop Art.
Il lavoro di Riefenstahl è scevro dal dilettantismo e dall’ingenuità che si ritrovano in altri prodotti artistici di epoca nazista, ma nondimeno propaganda molti degli stessi valori. E persino la sensibilità più moderna è in grado di apprezzare anche lei. L’ironia della sofisticazione pop crea un modo per guardare al lavoro di Riefenstahl in cui non soltanto la sua bellezza formale ma anche il suo fervore politico si possono considerare una forma di eccesso estetico. E accanto a questo apprezzamento distaccato di Riefenstahl c’è una reazione, conscia o inconscia, all’argomento in sé, che conferisce all’opera la sua forza comunicativa.
Il trionfo della volontà e Olympia sono indubbiamente dei film superbi (sono forse i due più grandi documentari mai girati), ma non sono così importanti nella storia del cinema dal punto di vista formale. Nessuno girando un film al giorno d’oggi allude a Riefenstahl come punto di riferimento, mentre molti registi (me inclusa) considerano Dziga Vertov una provocazione inesauribile e una continua fonte di idee sul linguaggio filmico. Eppure è opinabile che Vertov – la più importante figura del cinema documentario – abbia mai girato un film efficace e appassionante come Il trionfo della volontà od Olympia. (Naturalmente, Vertov non ha mai avuto a disposizione i mezzi concessi a Riefenstahl. I finanziamenti del governo sovietico per i film di propaganda negli anni Venti e nei primi anni Trenta erano tutt’altro che generosi.)
Di fronte all’arte di propaganda di sinistra e di destra, prevale un doppio standard. Pochi ammetterebbero che la manipolazione delle emozioni negli ultimi film di Vertov e in quelli di Riefenstahl risultino altrettanto esaltanti. Quando devono spiegare la propria commozione, quasi tutti sono sentimentali nel caso di Vertov e disonesti nel caso di Riefenstahl. Così l’opera di Vertov suscita una buona dose di simpatia morale da parte dei cinefili di tutto il mondo; le persone accettano di commuoversi. Con l’opera di Riefenstahl, il trucco consiste nel filtrare via la nociva ideologia politica dei suoi film, trattenendo soltanto i loro meriti “estetici”. La lode dei film di Vertov presuppone sempre la consapevolezza che lui fosse un individuo carismatico, nonché un artista intelligente e un pensatore originale, schiacciato alla fine dalla dittatura sotto la quale serviva. E la maggior parte del pubblico contemporaneo di Vertov (così come di Ėjzenštejn e di Pudovkin) è dell’idea che i film di propaganda dei primi anni dell’Unione Sovietica illustrassero un nobile ideale, tradito poi nella pratica. Ma la lode di Riefenstahl non fa ricorso a simili argomentazioni, perché nessuno, neppure i fautori della sua riabilitazione, è stato in grado di far apparire Riefenstahl minimamente simpatica, e non si può certo definirla una pensatrice.
Più importante, secondo l’opinione comune il nazionalsocialismo significa solo brutalità e terrore. Ma questo non è vero. Il nazionalsocialismo – più in generale, il fascismo – significa un ideale, o meglio degli ideali che perdurano ancora oggi sotto bandiere diverse: l’ideale della vita come arte, il culto della bellezza, il feticismo del coraggio, l’annullamento del senso di alienazione in un estatico sentimento collettivo, il rifiuto dell’intelletto, la famiglia comune dell’umanità (sotto la guida dei leader). Questi ideali sono vividi e toccanti per molti, ed è disonesto quanto tautologico dire di essere colpiti da Il trionfo della volontà e Olympia solo in quanto realizzati da un genio della regia. I film di Riefenstahl risultano ancora efficaci perché, fra le altre ragioni, i loro desideri sono ancora sentiti, perché il loro contenuto è un ideale romantico al quale molti continuano a rimanere attaccati e che viene espresso in diverse modalità di dissidenza culturale e propaganda per nuove forme di comunità come la cultura rock giovanile, la terapia Primal, l’antipsichiatria, il volontariato nel Terzo Mondo e l’occultismo. L’esaltazione del senso di comunità non preclude la ricerca di un capo assoluto; al contrario, può inevitabilmente condurre a ciò. (Non a caso, una buona parte dei giovani che oggi si prostrano davanti ai guru e si sottopongono alla più grottesca disciplina autocratica sono ex anti-autoritari e anti-elitisti degli anni Sessanta.)
L’attuale denazificazione di Riefenstahl e la sua rivendicazione come indomita sacerdotessa del bello – in qualità di regista e oggi anche di fotografa – non fa ben sperare per l’acume delle abilità attuali di individuare le aspirazioni fasciste fra di noi. La forza della sua opera risiede proprio nella continuità delle sue idee politiche ed estetiche, a risultare interessante è che un tempo questo era visto molto più chiaramente di adesso, ora che la gente afferma di essere attratta dalle immagini di Riefenstahl per la bellezza della loro composizione. In mancanza di una prospettiva storica, questo gusto artistico spiana la strada per un’accettazione curiosamente distratta della propaganda per ogni genere di sentimenti dannosi – sentimenti di cui la gente rifiuta di prendere sul serio le implicazioni. Da qualche parte, naturalmente, tutti sanno che in un’arte come quella di Riefenstahl è in gioco molto più della bellezza. E così le persone cercano di tutelarsi ammirando questo genere di arte per la sua indubbia bellezza, e trattandola con condiscendenza per la sua ipocrita propaganda del bello. A sostegno di questi esigenti apprezzamenti formali c’è un’importante fonte di apprezzamento, la sensibilità camp, che è svincolata dagli scrupoli dell’alta serietà: e la sensibilità moderna poggia su continui scambi tra l’approccio formale e il gusto camp.
Oggigiorno l’arte che evoca i temi dell’estetica fascista è molto popolare, e probabilmente per la maggior parte delle persone non è che una variante del camp. Il fascismo può essere semplicemente di moda, e forse la moda con quella sua incontenibile promiscuità di gusti ci salverà. Ma i giudizi del gusto sembrano anch’essi meno innocenti. Un’arte che dieci anni fa valeva la pena difendere, come gusto minoritario o alternativo, oggi non sembra più difendibile, perché le questioni etiche e culturali che solleva sono diventate serie, addirittura pericolose, come invece non erano allora. L’amara verità è che quanto può sembrare accettabile nella cultura d’élite può non esserlo nella cultura di massa, quei gusti che pongono solo questioni etiche innocue in quanto circoscritte a una minoranza possono avere il potere di corrompere una volta consolidati. Il gusto è contesto, e il contesto è cambiato.
II
Secondo reperto. È un libro che si può acquistare nelle edicole degli aeroporti e nelle librerie “per adulti”, un’edizione tascabile piuttosto economica, non un costoso libro fotografico da tavolino che fa presa sugli amanti dell’arte e sui benpensanti come L’ultimo dei Nuba. Eppure entrambi i libri condividono una certa origine morale, una preoccupazione di fondo: la stessa preoccupazione a stadi di evoluzione differenti – sebbene l’idea morale che anima L’ultimo dei Nuba sia più velata rispetto a quella più cruda, più efficace che si cela dietro a SS Regalia. Sebbene SS Regalia sia una rispettabile compilazione britannica (con una prefazione storica di tre pagine e un apparato di note in fondo al testo), sappiamo che il suo fascino non è accademico ma erotico. È chiaro già dalla copertina. Una scritta gialla che attraversa diagonalmente la grande svastica nera di una fascia da braccio delle SS recita: “Più di 100 fotografie a colori a soli 2 dollari e 95”, proprio come un adesivo con il prezzo incollato – in parte per stuzzicare, in parte per riguardo alla censura – sulla copertina delle riviste pornografiche, proprio sopra i genitali dei modelli.
Esiste una fantasia condivisa sulle uniformi. Danno un’idea di comunità, di ordine, di identità (attraverso i gradi, i distintivi, le medaglie, tutte cose che specificano chi è colui che le indossa o cosa ha fatto: un riconoscimento del suo valore), competenza, legittima autorità, legittimo esercizio della violenza. Ma uniformi e fotografie di uniformi non sono la stessa cosa – queste ultime diventano materiale erotico e le fotografie delle uniformi delle SS sono le singole unità di una fantasia sessuale particolarmente efficace e diffusa. Perché le SS? Perché le SS sono state l’incarnazione ideale dell’aperta rivendicazione fascista della giustizia della violenza, del diritto di detenere un potere assoluto sugli altri e trattarli come assoluti inferiori. Fu nelle SS che questa rivendicazione sembrò più completa che mai, perché potevano manifestarla in modo straordinariamente brutale ed efficace; e perché la drammatizzarono attenendosi a certi standard estetici. Il corpo delle SS fu progettato come una comunità militare d’élite che non doveva essere soltanto estremamente violenta ma anche estremamente bella. Difficilmente ci si potrà imbattere in un libro intitolato “SA Regalia”. Le SA, che che furono poi sostituite dalle SS, non erano meno brutali dei loro successori, ma sono passate alla storia come dei tipi rozzi e tarchiati da taverna, come semplici Camicie Brune.
Le uniformi delle SS erano eleganti, ben tagliate e con un tocco di eccentricità (ma senza esagerare). Confrontiamole alle alquanto noiose uniformi di discutibile fattura dell’esercito americano: giacca, camicia, cravatta, pantaloni, calzini e scarpe coi lacci – praticamente abiti civili, non importa quanto adornati di medaglie e distintive. Le uniformi delle SS erano strette, pesanti, rigide e comprendevano guanti per stringere le mani e stivali che appesantivano gambe e piedi, incassandoli, e obbligavano chi li indossava a stare ritto in piedi. Come spiega il retro di copertina di SS Regalia:
L’uniforme era nera, un colore che in Germania aveva connotazioni importanti. Sul nero, le SS indossavano una varietà di decorazioni, simboli, distintivi per indicare i gradi, dalle rune sul colletto al Totenkopf, la testa di morto. Avevano un aspetto drammatico e minaccioso al tempo stesso.
L’invito quasi nostalgico della copertina non prepara granché alla banalità di gran parte delle fotografie. Insieme alle tanto decantate uniformi nere, i soldati delle SS venivano dotati di uniformi color cachi dall’aspetto simile a quelle americane, corredate di poncho e giubbotti mimetici. E oltre alle fotografie delle uniformi, ci sono pagine di mostrine, polsini, galloni, fibbie, distintivi commemorativi, stendardi di reggimento, insegne, berretti da campo, medaglie di servizio, spalline, permessi, lasciapassare – su ben poche delle quali figurano le famigerate rune e teste di morto; tutte meticolosamente identificate per rango, unità, anno e stagione di emissione. È proprio il carattere innocuo di quasi tutte le fotografie a che testimonia il potere dell’immagine: è come avere tra le mani il breviario di una fantasia sessuale. Ma perché la fantasia abbia profondità, ha bisogno di dettagli. Quale, ad esempio, era il colore del permesso di viaggio di cui un sergente delle SS avrebbe avuto bisogno per andare da Treviri a Lubecca nella primavera del 1944? È necessario avere tutte le prove documentarie.
Se il messaggio del fascismo è stato neutralizzato da una visione estetica della vita, i suoi orpelli sono stati sessualizzati. L’erotizzazione del fascismo può essere rimarcata in manifestazioni così travolgenti e devote come le Confessioni di una maschera e Sole e acciaio di Mishima, e in film come Scorpio Rising di Kenneth Anger, e nei più recenti ma meno interessanti La caduta degli dei di Visconti e Il portiere di notte di Cavani. La solenne carica erotica del fascismo dev’essere distinta da un gioco sofisticato con l’orrore culturale, dove è presente un elemento di messinscena. Il poster che Robert Morris ha realizzato per la sua recente mostra alla Galleria Castelli è un manifesto che ritrae l’artista, nudo fino alla vita, con addosso un paio di occhiali scuri, quello che sembra un elmetto nazista e un collare con borchie d’acciaio a cui è attaccata una robusta catena che regge tra le mani ammanettate e sollevate. Si dice che Morris la considerasse l’unica immagine che ha ancora il potere di sconvolgere: una virtù singolare per chi dà per scontato che l’arte sia una sequela di gesti provocatori sempre nuovi. Ma l’obiettivo del manifesto è la sua stessa negazione. Sconvolgere la gente significa anche assuefarla, ed è così che il materiale nazista entra nel vasto repertorio di iconografia popolare utilizzabile per i commenti ironici della Pop Art. Tuttavia, il nazismo affascina in un modo in cui altre icone tenute sotto sorveglianza dalla sensibilità pop (da Mao Zedong a Marilyn Monroe) non fanno. Indubbiamente, parte del generale aumento di interesse nei confronti del fascismo può ricondotto a curiosità. Per chi è nato dopo i primi anni Quaranta, da sempre massacrato da discussioni, pro e contro, in merito al comunismo, è il fascismo – quel grande argomento di conversazione della generazione dei suoi genitori -, a rappresentare l’esotico, l’ignoto. Inoltre c’è una fascinazione generale tra i giovani per l’orrore, per l’irrazionale. I corsi universitari che trattano la storia del fascismo, insieme a quelli sull’occulto (incluso il vampirismo), sono tra i più frequentati negli atenei. E oltre a questo il richiamo evidentemente sessuale del fascismo, di cui SS Regalia è una chiara e spudorata testimonianza, sembra immune all’ironia o alla troppa familiarità.
Nella letteratura pornografica, nei film e nell’oggettistica erotica prodotta in tutto il mondo, specialmente negli Stati Uniti, in Inghilterra, Francia, Giappone, Scandinavia, Olanda e Germania, le SS sono ormai un rimando all’avventurismo sessuale. Gran parte dell’immaginario del sesso sfrenato si colloca sotto il segno del nazismo. Stivali, cuoio, catene, Croci di Ferro su toraci splendenti, svastiche, insieme a ganci da macellaio e alle motociclette, sono diventati i paramenti segreti e più lucrosi dell’erotismo. Nei sexy shop, nei bagni pubblici, nei locali gay, nei bar a tema leather, nei bordelli, le persone tirano fuori la loro attrezzatura. Ma perché? Perché la Germania nazista, che era una società sessualmente repressiva, è diventata erotica? Com’è possibile che un regime che perseguitò gli omosessuali sia diventato eccitante per la comunità gay?
Una chiave d’interpretazione sta nella predilezione che i gerarchi fascisti stessi dimostravano per le metafore sessuali. Come Nietzsche e Wagner, Hitler considerava il comando come una padronanza sessuale delle masse “femminee”, come uno stupro. (L’espressione delle folle ne Il trionfo della volontà è estatica; il leader porta la folla all’orgasmo). I movimenti di sinistra tendevano ad avere un immaginario neutro e asessuato. I movimenti di destra, per puritane e repressive che siano le realtà da loro introdotte, hanno una patina erotica. Sicuramente il nazismo è “più sexy” del comunismo (il che non torna a credito del nazismo, ma anzi spiega qualcosa della natura e dei limiti dell’immaginazione sessuale).
Naturalmente, molte persone eccitate dalle uniformi delle SS non intendono mostrare approvazione per quanto compiuto dai nazisti, ammesso e concesso che ne abbiano una minima conoscenza. Ciò nonostante, ci sono correnti di sessualità molto forti e in aumento, generalmente designate con il nome di sadomasochismo, che fanno sembrare erotico giocare al nazismo. Queste fantasie e pratiche sadomasochiste hanno un riscontro sia fra gli eterosessuali che fra gli omosessuali, anche se è fra gli omosessuali che l’erotizzazione del nazismo è più visibile. Il sadomasochismo, non lo scambismo, è il grande segreto sessuale degli ultimi anni.
Tra sadomasochismo e fascismo c’è un legame naturale. “Il fascismo è teatro”, come ha detto Genet (nota 5). E così è la sessualità sadomasochista: prender parte al sadomasochismo significa prender parte a un teatro sessuale, una messa in scena della sessualità. Gli habitué del sesso sadomaso sono esperti costumisti, coreografi e interpreti, in un dramma che è tanto più eccitante in quanto proibito alla gente qualunque. Il sadomasochismo sta al sesso come la guerra sta alla vita civile: l’esperienza magnifica. (Come disse Riefenstahl: “Tutto ciò che è puramente realistico, scorci di vita, tutto ciò che è mediocre, ordinario, non mi interessa.” E se il contratto sociale sembra insipido al confronto con la guerra, allo stesso modo scopare e succhiare finiscono per sembrare a malapena piacevoli, e per questo non eccitanti. Il fine a cui tendono tutte le esperienze sessuali, come ha sempre insistito Bataille in tutta una vita di scrittura, è la profanazione, la blasfemia. L’essere “gentile”, nel senso di essere civile, significa essere estranei a quest’esperienza selvaggia – che è in tutto e per tutto una messinscena.
Sadomasochismo, ovviamente, non significa solo persone che feriscono i loro partner sessuali, come è sempre avvenuto – e generalmente significa uomini che picchiano donne. Il contadino russo perennemente ubriaco che bastona la moglie sta soltanto facendo qualcosa che gli va di fare (perché è infelice, oppresso, perché ha la mente annebbiata; e perché le donne sono vittime a portata di mano). Ma l’inglese che si fa frustare continuamente in un bordello sta ricreando un’esperienza. Sta pagando una puttana perché interpreti con lui un’esibizione teatrale, per ricreare o rievocare le esperienze passate di scolaro o bambino che oggi racchiudono per lui un’enorme riserva di energia sessuale. Oggi può essere il passato nazista che le persone invocano, nella teatralizzazione della sessualità, perché sono quelle le immagini (piuttosto che i ricordi) da cui sperano di poter attingere una riserva di energia sessuale. Quello che i francesi chiamano “il vizio inglese”, tuttavia, potrebbe essere un qualche tipo di affermazione artificiosa di individualismo; la commediola si riferiva, dopotutto, alla cartella clinica del soggetto in sé. La mania per le insegne naziste indica qualcosa di molto diverso: una reazione a un’opprimente libertà di scelta in materia di sesso (e in altri campi), a un grado intollerabile di individualità; le prove generali di un asservimento, piuttosto che la sua rievocazione.
I rituali di dominazione e schiavitù via via più praticati, l’arte sempre più devota a riproporne i temi, sono forse soltanto una logica estensione della tendenza di una società del benessere a trasformare ogni aspetto della vita delle persone in un gusto, in una scelta; a invitare tutti a considerare le proprie stesse vite come uno stile (di vita). In tutte le società fino a quella attuale, il sesso è stato soprattutto un’attività (qualcosa da fare, senza pensarci troppo su). Ma una volta che il sesso diventa un gusto, è già sulla buona strada per diventare una forma teatrale consapevole, proprio come il sadomasochismo: una forma di gratificazione che è insieme violenta e indiretta, molto cerebrale.
Il sadomasochismo è sempre stato il limite estremo dell’esperienza sessuale: quando il sesso diventa sessuale nel modo più puro, ossia staccato dalla persona, dalle relazioni, dall’amore. Non dovrebbe sorprendere il suo recente legame con la simbologia nazista. Mai prima di allora la dialettica tra schiavi e padroni è stata rappresentata in modo così consapevolmente estetico. Sade si era dovuto costruire il suo teatro di punizione e piacere dal nulla, improvvisandone gli arredi, i costumi di scena e i rituali blasfemi. Adesso esiste uno scenario magistrale disponibile per chiunque. Il suo colore è il nero, il suo materiale è il cuoio, la sua seduzione è la bellezza, la sua giustificazione è l’onestà, il suo fine è l’estasi, la sua fantasia è la morte.
(1974)
Note:
- Leni Riefenstahl, Hinter den Kulissen des Reichparteitag-Films (Monaco di Baviera, 1935). Una fotografia a pagina 31 mostra Hitler e Riefenstahl chini su alcuni progetti, con la didascalia: “I preparativi per il Raduno del Partito vennero organizzati di pari passo con i preparativi per le riprese.” Il raduno ebbe luogo dal 4 al 10 settembre; Riefenstahl racconta di aver iniziato a lavorarci su a maggio, progettando il film sequenza dopo sequenza e supervisionando i lavori di costruzione di complessi ponti, torri e binari per le riprese coi carrelli. Alla fine di agosto Hitler si recò a Norimberga con Viktor Lutze, comandante delle SA, “per un’ispezione e per impartire le ultime istruzioni”. I trentadue operatori di Riefenstahl indossavano uniformi delle SA per tutta la durata delle riprese, “su consiglio del Capo dello Staff [Lutze], così che nessuno potesse disturbare la solennità dell’immagine con degli abiti civili.” Le SS misero a disposizione un gruppo di guardie.
- Vedi Hans Barkhausen, “Footnote to the History of Riefenstahl’s Olympia” in Film Quarterly, autunno 1974-un raro atto di dissenso ben informato in mezzo all’enorme quantità di elogi a Riefenstahl apparsi nelle riviste di cinema americane e dell’Europa occidentale nel corso degli ultimi anni.
- Volendo rifarsi a un’altra fonte -dal momento che Riefenstahl oggi afferma (in un’intervista per la rivista tedesca Filmkritik, agosto 1972) di non aver scritto una sola parola di Hinter den Kulissen des Reichparteitag-Films, e di non averlo neppure letto al tempo-, c’è un’intervista nel Völkischer Beobachter, 26 agosto 1933, in cui parla delle riprese del Raduno, dove fornisce dichiarazioni simili. Riefenstahl e i suoi apologi parlano sempre de Il trionfo della volontà come se fosse un “documentario” indipendente, citando spesso le difficoltà tecniche incontrate durante la realizzazione, a dimostrare che lei avesse dei nemici tra i vertici del partiti (l’odio di Goebbels), come se simili difficoltà non fossero ordinaria amministrazione sul set di un film. Una delle riproposizioni più deferenti del mito di Riefenstahl come semplice documentarista e politicamente innocente è la Filmguide to “Triumph of the Will”, pubblicata nella Filmguide Series dell’Indiana University Press, il cui autore, Richard Meram Barsam, conclude la prefazione esprimendo la propria “gratitudine per Riefenstahl, che ha collaborato con ore e ore di interviste, ha aperto le porte del suo archivio per la mia ricerca, e ha dimostrato un interesse genuino per questo libro.” E certamente non poteva che interessarsi di un libro che aveva come capitolo introduttivo “Leni Riefenstahl e il fardello dell’indipendenza”, e il cui tema è “la convinzione di Riefenstahl che l’artista debba, a tutti i costi, restare indipendente dagli avvenimenti del mondo materiale. Nel corso della vita riuscì ad ottenere la propria libertà artistica, ma a un caro prezzo.” Eccetera. Come antidoto, lasciate che citi una fonte inconfutabile (almeno non può essere qui per dirci di non averlo mai scritto) – Adolf Hitler. Nella sua breve prefazione a Hinter den Kulissen, Hitler descrive Il trionfo della volontà come “una glorificazione del potere e della bellezza del nostro movimento assolutamente unica e incomparabile.” E lo è.
- È così che Jonas Mekas (The Village Voice, 31 ottobre 1974) rende omaggio alla pubblicazione de L’ultimo dei Nuba: “Riefenstahl continua la sua celebrazione -o è una ricerca?- della bellezza classica del corpo, la ricerca cominciata nei suoi film. Ciò che le interessa è l’ideale, il monumentale.” Mekas sullo stesso giornale il 7 novembre 1974: “Ed ecco il mio commento definitivo sui film di Riefenstahl: se sei un idealista, nei suoi film ci vedrai l’idealismo; se sei un classicista, nei suoi film ci vedrai un’ode al classicismo; se sei un nazista, nei suoi film ci vedrai il nazismo.”
- Fu Genet, nel suo romanzo Pompe funebri, a fornirci uno dei primi testi che dimostravano l’attrazione erotica del fascismo su chi fascista non era. Un’altra descrizione viene da Sartre, un candidato improbabile per queste sensazioni, che può averne sentito parlare da Genet. Ne La morte nell’anima (1949), il terzo romanzo della sua tetralogia I cammini della libertà (Il testo riporta il termine tetralogia, ma dopo l’abbandono da parte di Sartre della stesura del quarto romanzo divenne a tutti gli effetti una trilogia, NdT), Sartre descrive l’esperienza di uno dei protagonisti che assiste all’ingresso dell’esercito tedesco a Parigi nel 1940: “[Daniel] non aveva paura, si abbandonò fiducioso a quelle migliaia di occhi, pensava: ‘I nostri conquistatori!’ ed era estremamente felice. Li guardava negli occhi, assaporava i loro capelli chiari, i loro volti scottati dal sole con occhi simili a laghi ghiacciati, i loro corpi snelli, le loro cosce incredibilmente lunghe e muscolose. Mormorò: “Come sono belli!” […] Qualcosa era caduto dal cielo: era la legge degli antichi. La società dei giudici era crollata, la sentenza era stata annullata, quegli spettrali, piccoli soldati color kaki, difensori dei diritti dell’uomo, erano stati sconfitti. […] Un’insostenibile, deliziosa sensazione pervase il suo corpo; non riusciva quasi più a vedere nulla, ripeteva, ansimante, “Come se fosse burro-stanno entrando a Parigi come se fosse burro.” […] Avrebbe voluto essere una donna per gettar loro dei fiori.