La transizione dal sovietico al post-sovietico è innanzitutto una questione di identità. Se in mezzo al tumulto del comunismo e del capitalismo le altre nazioni hanno potuto volgere indietro lo sguardo e ricercare la propria essenza ultima nel folclore e nella collettività perduta, la Russia dovette ricostruirsi ex novo. L’avvento di una nuova cultura del denaro ha trasformato Mosca in un frenetico conglomerato di mutamenti, in cui i media, il jet set e la performatività la fanno da padroni.
È in questo contesto, questa Russia proteiforme tra stagnazione, perestrojka e capitalismo senza una chiara direzione, che l’accettazione e la celebrazione del paradosso sostituiscono il bisogno di un’identità stabile. Ed è esattamente in circostanze così precarie, in queste terre di nessuno in bilico tra soviet e post-soviet, che figure folli e fuori da ogni convenzione possono rimescolare le carte in tavola. In cosa differiscono questi trickster sovietici dalla loro variante canonica, quindi, e perché fioriscono proprio nella nuova Russia senza Dio e senza morale?
Il critico culturale Mark Lipoveckij sostiene che i trickster sovietici incarnano l’abisso e le contraddizioni irreparabili tra, da una parte, i linguaggi simbolici di cui si è servita la società sovietica per modellare la propria struttura e darsi un’identità, e dall’altra le pratiche sociali sviluppatesi in una relativa indipendenza da questi linguaggi. In sostanza, la voragine che separa la cultura ufficiale, responsabile della neolingua propagandistica di orwelliana memoria, e una grande cultura sotterranea votata a smascherarla, fatta di dissidenza, samizdat e fermento intellettuale.
Ma la neolingua e il neopensiero sovietici, nelle parole di Lipoveckij, sono solo due esempi della pratica dei significanti vuoti -parole il cui valore simbolico è nullo-. I trickster, invece, permettono di identificare la coesistenza di due dimensioni parallele e reciprocamente contraddittorie della società e della cultura sovietiche – il simbolico e il pratico. Senza scomodare i numerosi esempi addotti dallo studioso, che spaziano dall’arte underground a personalità come Khulio, Buratino e Stierlitz o a cult letterari come l’antieroe Ostap Bender o il Venja di Mosca-Petuškì (di cui vi avevamo parlato), ci concentreremo su una figura in particolare: Vladislav Mamyšev-Monroe, artista e performer che per primo portò il drag nel circuito mainstream russo, diventando una vera e propria popstar contro ogni previsione di omofobi, reazionari e benpensanti.
Camaleontico, irriverente e dissacratore verso tutte le norme classicamente russe, nelle parole di Olesya Turkina e Victor Mazin la peculiarità di Monroe sta nell’essere diventato un artista nel momento in cui la precedente ideologia totalitaria sovietica si stava smantellando, e la nuova ideologia capitalista stava prendendo piede; senza mai dimenticare, però, la sua infanzia e le sue radici.
Incontrai per la prima volta il nome di Vlad Monroe in Niente è vero, tutto è possibile di Peter Pomerantsev (sic), un testo che raccoglie le vicende surreali dell’autore nel corso del suo impiego decennale nella televisione russa, descritta con ironia e un occhio di riguardo per gli intrighi politici, la corruzione e i personaggi più che grotteschi. Nel capitolo dedicato all’ascesa di Vladislav Surkov, stratega politico e burattino del Cremlino dalle curiose velleità artistiche, viene descritta la scena bohémienne moscovita, in cui i performance artist stavano iniziando a cogliere il senso di quel perenne e confuso mutamento.
Scrive Pomerantsev:
Nessuna festa poteva dirsi riuscita senza […] Vladik Mamyshev (sic)-Monroe. Ipereffeminato e sempre pronto a sfruttare il suo ampio repertorio di personificazioni, Vladik era un Warhol della Russia post-sovietica mescolato con RuPaul. Primo artista drag del paese, iniziò impersonando Marilyn Monroe e Hitler («i due maggiori simboli del XX secolo»), e poi popstar russe, Rasputin, Gorbačëv truccato come una donna indiana; si presentava alle feste travestito da Eltsin (sic), Tutankhamon, Karl Lagerfeld. «Quando mi esibisco, per qualche secondo divento il personaggio che sto mettendo in scena», diceva Vladik. Le sue personificazioni erano curate in modo maniacale, e spingevano il suo soggetto ai limiti, fino al punto in cui l’immagine iniziava a rivelare e nello stesso tempo a mettere in discussione se stessa.
Com’è possibile, quindi, che un artista drag sia riuscito a salire all’acclamazione universale e mainstream in un paese notoriamente omofobo? Ricostruire la storia del fenomeno in Russia, per inquadrarlo sotto l’ottica giusta, è più che necessario. Una spiegazione che poggia sulla storia del drag come la conosciamo sarebbe incompleta e parziale, dal momento che soltanto negli ultimi anni si è iniziato a parlare di storia queer nel Nuovo Est, e se il primo utilizzo del termine drag nella cultura occidentale proviene probabilmente dalle prime rappresentazioni shakespeariane, la prima menzione di Shakespeare in terra russa si avrà appena a metà Settecento negli scritti di Sumarokov.
Per una contestualizzazione più accurata è sufficiente tornare indietro al 1918, periodo in cui l’abolizione della legislazione di matrice zarista depenalizzò gli atti di “sodomia”. Pur comunque osteggiate da un’opinione pubblica ancora restia alle identità LGBT, nelle grandi città come Mosca e Pietroburgo/Leningrado iniziarono a formarsi le prime comunità omosessuali, che diedero vita a una scena non dissimile da quella berlinese, in cui feste ed eventi sfarzosi a cui partecipavano uomini vestiti da donne erano una pratica comune. Questo idillio durò ben poco, perché le politiche di Stalin criminalizzarono gay e lesbiche: ma se l’amore saffico venne “soltanto” catalogato come disturbo di personalità, gli omosessuali rischiavano l’arresto, i lavori forzati o la reclusione nei reparti psichiatrici.
Con il passare degli anni e con la morsa dell’influenza sovietica sempre più allentata in favore di una liberalizzazione sociale e dei costumi, in molti paesi del blocco orientale fu possibile portare una comunità fino ad allora oppressa sotto i riflettori: se prima si parlava di sottocultura e di luoghi d’incontro non ufficiali, si iniziò ben presto a organizzare riviste, spazi e discorsi culturali aperti, che rimasero però privi di connotazione politica e di necessità di rivendicazione. Fu soltanto dai primi anni Duemila che la comunità LGBT iniziò a scendere in piazza.
Vladislav Mamyšev-Monroe, però, apparteneva alla Russia. E sebbene il drag, in russo травести (travesti), esistesse da ben prima della Perestrojka e del crollo dell’Unione, il recente conservatorismo dei valori dell’era di Putin non ha certo aiutato la comunità. A rendere Monroe così rivoluzionario fu proprio la sua capacità di distruggere le convenzioni sotto gli occhi dell’opinione pubblica, dissacrando riti e miti della Russia, dei media e della culto della celebrità tra gli applausi dello stesso establishment che Mamyšev-Monroe mirava a demistificare.
Lipovetsky parlò dei trickster russi come del legame vivente tra società sovietica e post-sovietica, e nessuno più di Monroe impersonò questo carnevale di contraddizioni in maniera altrettanto convincente. La sua arte del travestimento non fu mai interpretata come esplicitamente politica, o mirata a criticare -se non addirittura sovvertire- i torbidi rapporti di potere e corruzione necessari alla sopravvivenza dello status quo, nonostante fosse sovversiva per definizione. Tutta la sua opera fu letta sotto la lente della parodia, dell’intertestualità nazional-popolare e del gioco della riappropriazione nel contesto della cultura pop, del panorama dei mass media, della storia, del cinema e del folclore inscritti nel vissuto collettivo.
Artista unico nel suo genere, specialmente sul suolo russo, Mamyšev-Monroe giocava sul confine tra la pittura, la recitazione, la performance e l’arte multimediale. Diceva di sé: “Mi vedo come un mezzo e penso che la performance con reincarnazione sia un ottimo strumento contro la noia della cosiddetta arte contemporanea. E poi il drag, l’equivoco, la parodia, sono archetipi della creatività. Proprio ora alla mostra “Russia!” al Guggenheim di New York è in mostra la storia dell’arte russa. Io ho fatto una scultura mostruosamente volgare, intitolata Marilyn divora Monroe, esposta proprio di fronte a La nona onda di Ajvazovskij, ci sta benissimo, è un contrasto molto divertente.” Lo stesso contrasto tra il classico e il kitsch, tra la creazione e la dissacrazione, tra il maschile e il femminile, tra Russia e Occidente, è quello che rende l’opera di Monroe, nel bene e nel male, il simbolo artistico della Perestrojka: un simbolo che, di fronte al collasso di una società che sembrava indistruttibile, vede nella provocazione e nella beffa l’unico modo per restituire ad un pubblico disorientato un pantheon necessario di riferimenti, di icone culturali.
Monroe, al secolo Vladislav Jurijevič Mamyšev-Monroe, nacque nell’ottobre del 1969 a Leningrado. Dal 1986 iniziò a prendere parte alle mostre del collettivo d’avanguardia “Nuovi artisti” (Новые художники) ed entrò nel collettivo musicale “Pop-Mechanika” (Поп-Механика). Dal 1987 al 1989 servì nell’Armata Sovietica a Baikonur, in Kazakistan, come artista e direttore di un club teatrale per bambini. Lì si trasformò per la prima volta in Marilyn Monroe, ripetendo la performance durante le esibizioni successive di Pop-Mechanika. Tuttavia, in seguito alla diffusione di alcune foto dell’artista nei panni della diva nel periodo del servizio militare, venne allontanato da Baikonur ed espulso dall’esercito.
“La prima volta che mi vestii da Monroe fu nell’esercito. Avevo un club, lì – avevo espresso il desiderio di fondare un club per i bambini dell’unità, e mi lasciarono un edificio da undici stanze fuori dalla nostra zona militare. Io ero lì, come tutti gli altri soldati, ma stavo morendo di noia. In quell’epoca i miei amici stavano recitando nel film Assa, e io volevo così tanto fare meglio di loro, così mi venne un’idea assolutamente sovversiva – dar vita alla mia dea. Staccai le teste delle bambole, creando una parrucca coi loro capelli, mi truccai con le tempere, mi fabbricai degli orecchini con dei giocattoli e chiamai Jura del club di fotografia, che mi immortalò. E poi l’ufficiale dell’unità vide le foto. Me lo ricordo bene, era indignato, Mamyšev, mi disse, che cosa cazzo hai portato ai bambini? – E io gli risposi Colonnello, questa non è una puttana, sono io.”
“Fu uno scandalo”, ricordò Monroe in un’intervista. “Mi mandarono al reparto psichiatrico per dei controlli, venni mandato a casa sei mesi prima e fui coinvolto attivamente nell’ambiente artistico grazie a quest’immagine che mi ero fatto. Allora Sergej Kurechin, Timur Novikov e alcuni storici dell’arte del Museo Russo erano felici che fosse apparsa una persona così disperata, perché era proprio quello che cercavano. Andò tutto a meraviglia”.
L’amore di Vlad per Marilyn Monroe germogliò negli anni dell’infanzia. Figlio di un’ufficiale del partito, venne cresciuto dalla madre con una stretta morsa ideologica impartitagli dall’alto, apprendendo tramite la ferrea educazione di partito tutto ciò che la sua arte avrebbe poi decostruito. La visione di una fotografia dell’attrice durante una lezione di geografia cambiò per sempre la vita del piccolo Vlad, che dopo la visione di A qualcuno piace caldo (unico film della diva disponibile nell’allora Unione Sovietica) riconobbe nella star tanto idealizzata una versione più scintillante, più fascinosa della figura materna che viveva ogni giorno. Mamma era una lavoratrice del partito, disse, e Monroe era già una creatura assolutamente divina.
Tra le sue icone giovanili annovera anche la popstar Alla Pugačëva, grazie alla quale, afferma, iniziò ad approcciarsi all’arte del trucco. “Da quando ho iniziato la scuola d’arte”, dice Monroe, “ho sempre percepito la mia faccia come un foglio bianco. La vedevo come una tela, non come una faccia. Iniziai i miei esperimenti con Hitler, poi Marilyn Monroe, poi Pugačëva. Ma non ci sono limiti. La settimana scorsa, per esempio, ero Michael Jackson.”
“Monroe appartiene più alla categoria dei personaggi religiosi che a quella dei sex symbol, nella quale ricade di solito. La sua è un’immagine d’amore, un essere completamente buono, l’esatto contrario di, mettiamo, Adolf Hitler. La sua è un’immagine ideale, di assoluta abnegazione di sé per portare gioia agli altri. Ogni volta che posa, non importa per chi, dà tutta se stessa, completamente. È una dedizione così strana, quasi una mania. Il desiderio di essere assolutamente perfetta, perfetta.”
La controparte di Marilyn, in una dicotomia quasi allegorica che ricorre in tutta l’opera di Vlad Monroe, è infatti Adolf Hitler. Due incarnazioni perfette dei due poli opposti dell’animo umano e della cultura pop, la loro dialettica è l’essenza ultima della monrologia, una fusione degli opposti: il femminile e il maschile, il bene e il male, Monroe e Hitler.
“La natura ha voluto che dentro di me si fondessero tre soggettività, quelle di Adolf Hitler, Marilyn Monroe e la mia, Vladislav Mamyšev (che è una soggettività aggiuntiva, o quella unificante). O, a essere precisi, la soggettività di Vladislav Mamyšev consiste di due parti uguali: la soggettività di Hitler e la soggettività di Monroe. In questo modo, l’una completa l’altra, la intensifica e la neutralizza. E tutto ciò accade dentro di me, ho finalmente imparato a riconoscerlo, analizzarlo e utilizzarlo nella mia opera.”
Fu nel 1989 che Vlad Monroe diede vita al primo dei suoi progetti osannati dai circuiti dell’arte contemporanea, oggi parte della collezione del Centro Pompidou di Parigi: “Televisione Pirata”, in russo Пиратское Телевидение, una rivista video prodotta da e girata da Timur Novikov e Juris Lesnik con uno stile quasi amatoriale, simile alla scuola Dogma 95, nella quale Vlad appare nuovamente sia nelle vesti di Marilyn che in tantissimi altri ruoli. La fama quasi virale di Piratskoe Televidenie gli valse il nome d’arte di Monroe, nonché la consacrazione a drag queen numero uno dell’epoca sovietica. I video affrontavano varie tematiche in voga nella scena underground della vita artistica e culturale di Leningrado, e Monroe, in qualità di conduttore e inviato, non poteva mancare a vernissage di mostre, feste private o esclusive, persino conferenze.
Sempre nel 1989, Monroe si ritrovò nell’occhio del ciclone di una controversia non indifferente: a dispetto della percezione generale dell’artista come appartenente più al mondo della parodia della cultura pop che a quello della dissidenza esplicita, la forza del messaggio politico non poté più essere ignorata. Nell’ambito della mostra “La donna nell’arte” (Женщина в искусстве), Vlad, nei panni di Marilyn e accompagnato dal coro femminile Kolibri, lesse un testo sull’aborto tratto da un manuale medico di epoca sovietica. La rilevanza mediatica della performance ebbe da un lato conseguenze positive, ma dall’altro innescò una serie di incidenti spiacevoli.
Venne infatti ripreso da un notiziario molto popolare di Leningrado, 600 секунд (600 secondi), a cui seguì una vera e propria caccia all’uomo. Il commento espresso dal programma televisivo, “un artista ermafrodita si è esibito all’interno de La donna nell’arte, ma nella nostra società non c’è posto per esseri del genere”, scatenò una serie di pedinamenti e inseguimenti ai danni di Monroe, con tanto di urla in cui si esortava a “uccidere l’ermafrodita”. Fortunatamente, però, la sete di linciaggio ebbe vita breve e Monroe continuò la propria carriera guadagnandosi una meritatissima fama.
Nel 1991 Piratskoe Televidenie girò un servizio intitolato Гидру ГКЧП, Idra GKČP (dove GKČP sta per Comitato statale per lo stato di emergenza, gruppo di alti ufficiali del governo sovietico e del KGB che ordirono un colpo di stato contro Gorbačëv), in cui Monroe, nel pieno dello stato d’emergenza appena proclamato che proibiva l’uso di equipaggiamento audiovisivo, interpreta il ruolo dell’Idra controrivoluzionaria che soccombe ai pugni delle forze democratiche rappresentate dal già citato Novikov e dall’artista Gurjanov, a pochi passi dalla Piazza del Palazzo dove più di trecentomila cittadini stavano protestando. Se anche il travestimento non venne direttamente interpretato come un atto politico, sarebbe però scorretto sorvolare sull’importanza politica di Monroe, così come dell’atto sovversivo rappresentato dalla stessa esistenza del travestimento e del drag. Nessuno più di lui poteva decostruire la scintillante artificiosità di quella Russia con altrettanta forza.
La prima mostra personale di Vlad Monroe si tenne alla galleria Jakut di Mosca nel 1995, era intitolata “Vita delle notevoli Monroe” e consisteva in una serie di ritratti fotografici parodici e fortemente camp, scattati davanti al Cremlino, in cui l’artista vestiva i panni di dodici icone: Buddha, Dracula, Caterina la Grande, Giovanna d’Arco, Pietro il Grande, Sherlock Holmes, Adolf Hitler, Faust, Napoleone, Lenin, Gesù Cristo e, ça va sans dire, Marilyn Monroe. Alcuni di questi erano in mostra all’interno della galleria, altri invece, tra cui quello raffigurante Monroe come Hitler, furono esposti sugli edifici lungo via Bol’šaja Jakimanka. Il ritratto à la Hitler campeggiò sulle facciate dei palazzi per soli tre giorni, il tempo per il sindaco Lužkov di scandalizzarsi e rimuoverlo. Ciò nondimeno, Vita delle notevoli Monroe si impresse a fuoco nella memoria collettiva come l’opera più iconica dell’artista.
Negli anni successivi, Mamyšev-Monroe continuò la sua attività di trasformista in collaborazione con le gallerie più importanti di Mosca e Pietroburgo. Restituendo all’epica collettiva russa la sua dimensione carnevalesca, i lavori più importanti del periodo lo vedevano impersonare Ljubov’ Orlova, diva del cinema e pietra miliare del periodo sovietico che ritornerà nella carriera di Monroe.
Fu infatti con un’opera del 2006, remake del film sovietico Volga, Volga che consacrò la fama di Orlova, che Monroe riuscì ad aggiudicarsi il prestigioso Premio Kandinskij come miglior progetto multimediale dell’anno. Definito “neo-dadaista” dalla stampa europea, il film sostituisce la figura di Dunja Petrovna, contadina dalle velleità artistiche e dal grande talento, nell’originale interpretata da Orlova, con quella di Monroe, che ne impersona addirittura la voce sostituendosi a lei nelle fattezze, nelle battute e nel canto. Il messaggio della parabola di Dunja, che grazie alla canzone scritta da lei riesce a travalicare le disuguaglianze sociali con la sola forza dell’arte, assume nuove connotazioni e significati con la sola presenza del volto di Monroe. Lo stesso Vlad definì il film una tragicommedia postmoderna nata da una commedia molto popolare.
Il successo del suo Volga, Volga si ripeté in patria, anche in città meno avvezze a un tipo di arte più provocatoria e sperimentale. Ad Astrachan’, questa tragicommedia dell’assurdo fu salutata tra applausi e risate, nonostante per lungo tempo si temette una reazione negativa, se non apertamente scandalizzata.
Dal 2010, l’impegno politico di Vlad Monroe si fece più forte, schierandosi apertamente in difesa dei diritti degli omosessuali. Proprio nel 2010, anno in cui presentò una serie di ritratti raffiguranti i membri del GKČP con trucco drag, Monroe fu vittima di un pestaggio di matrice omofoba. L’artista denunciò in una serie di post su Facebook la dilagante cultura dell’omofobia in Russia -sempre più crescente e istituzionalizzata, dopo l’emendamento sulla propaganda gay, interessandosi sempre più al ruolo mediatico e culturale della personalità di Putin per riappropriarsene nell’arte. Disse Monroe: “Quando ho iniziato a travestirmi da Putin, mi sentivo come se fossi diventato un’enorme verme che sarebbe esploso a forza di mangiare merda.”
Nel maggio dello stesso anno, l’artista firmò un appello dell’opposizione contro il despotismo di Putin, aggiungendo: “Nonostante il mio autoritratto in veste di Putin sia apparso sulla copertina della rivista Artchronika, vorrei davvero poter amare tutti… Ma è proprio per amore di milioni di persone che è tempo di salvarle dall’ignoranza di questo simulacro del potere, che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”. E, nel 2012, l’autoritratto di Monroe come Putin diventò il simbolo delle manifestazioni contro i brogli elettorali delle ultime elezioni legislative.
Con il passare del tempo, Vlad Monroe, ormai trasferitosi stabilmente sull’isola di Bali, nutrì una sempre crescente disillusione nei confronti della Russia, fino ad affermare a malincuore di non identificarsi più con il suo paese, di essere disgustato da ciò che stava succedendo in patria. Nel disincanto non smise di creare, e nell’opera del 2007 Russia Perduta ripercorre gli eventi del paese in una processione di figure evanescenti, espressive e tormentate.
In merito alle esperienze che maturarono in lui la decisione di dar vita a Russia Perduta e al destino di artisti politici come le Pussy Riot, per cui dimostrò appoggio e ammirazione, dichiarò: “Sono stanco, e mi sembra di essermi guadagnato il diritto a un’arte disimpegnata, assolutamente ironica. Ero già in fuga, avevo già fatto arte rivoluzionaria, avevo già combattuto dal 1984 al 1991. Poi, proprio con Afrika, la polizia ci arrestò più e più volte. Ero uno dei simboli della Perestrojka. Ma ora vorrei solo scappare da quest’etichetta, scusami.
Sto facendo il mio lavoro [qui a Bali], e ho capito che non ci voglio nemmeno pensare. Non mi identifico con la Russia. Quello che sta succedendo per me è disgustoso. Ma sono felice che ci sia una nuova generazione, così bella, che per principio non sarà soddisfatta di nessuna realtà che non sia quella per cui stanno combattendo. E spero ci riescano.”
Nel dicembre 2012, sempre diviso tra Bali e la Russia, Monroe prese parte alla pièce dal taglio shakespeariano Polonio (Полоний) nel ruolo dell’eroe eponimo e, simultaneamente, del becchino. Concepita come una riscrittura contemporanea dell’Amleto, la peculiarità della messa in scena sta nel gioco di parole che si crea tra il nome Polonio e l’elemento chimico del polonio, che in scena sostituisce il veleno, la sostanza che si suppone essere utilizzata nelle misteriose morti degli avversari politici di Putin. Scenografie e costumi dello spettacolo furono particolarmente curati grazie al lavoro della designer Katja Filippova, che creò abiti e accessori in perfetto stile seicentesco.
Nelle parole dei creatori della pièce, l’Amleto shakespeariano, nella quale il principe di Danimarca è un uomo altro appartenente non al mondo di corte né a quello teatrale, ha una struttura particolarmente complessa. Questa peculiarità li portò a concludere che Amleto dovesse essere interpretato da un non-attore, e che la contraddizione andasse risolta trasferendo i monologhi al personaggio di Polonio, più che sottovalutato da troppi registi. La scelta di Monroe nel ruolo di Polonio fu atta proprio ad evidenziare la dimensione iper-teatrale del testo, differenziando un personaggio istrionico e familiare nella sensibilità pop dal distaccato, estraneo Amleto della pièce interpretato da una donna, Elena Kamaeva. Se quindi Amleto è una presenza effimera, Polonio diviene medium tra pubblico e azione, inscenata in tutta la sua dimensione farsesca da un Monroe che rompe la quarta parete rovesciando la sospensione dell’incredulità nel suo opposto: un carnevale dell’eccesso e dell’inganno, non diverso da quello dei media russi.
Nel 2013, sulla scia del successo della mostra fotografica sullo spettacolo, si sarebbero dovute tenere nuove repliche, ma ciò non avvenne: il 16 marzo del 2013 Vladislav Mamyšev-Monroe fu trovato morto in una piscina d’albergo nel villaggio di Seminyak, a Bali. La notizia scioccò la Russia e scatenò reazioni contrastanti. Ne sono esempio il commento del gallerista Marat Gelman, che sulle prime pensò si trattasse di uno scherzo, in linea con le provocazioni a cui Monroe era avvezzo; e le dichiarazioni dell’artista e confidente di Putin Sergej Bugaev, noto con lo pseudonimo Afrika, che nutriva ben altri sospetti: “La versione ufficiale dice che è affogato. Era sempre stato un po’ un teppista, è vero, ma affogare in un metro d’acqua non rientrava nei suoi talenti. La sua morte ha tutta l’aria di essere un omicidio, ma dubito scopriremo mai cosa sia successo…”.
La stessa morte di Vlad Mamyšev-Monroe acquisisce un’ironia tragica e dolceamara, se riletta nell’ottica del suo pensiero su Marilyn. Alla domanda sulla morte della diva, in cui l’intervistatore chiede se la sua morte abbia contribuito alla creazione del mito, Vlad risponde che sì, se non fosse morta giovane le cose sarebbero andate diversamente. È precisamente l’ideale per cui il suo punto più alto è la morte. È un fiore che raggiunge la massima bellezza prima di morire.
E, con buone probabilità, si può dire che il destino di Vlad Monroe, scomparso all’apice del suo fascino e della sua sfrontatezza, sia stato lo stesso.
Dopo la sua dipartita, che rimane tuttora avvolta nel mistero, furono organizzate due retrospettive: una a San Pietroburgo nel 2014 e l’altra, la più importante, al Museo di Arte Moderna di Mosca nel 2015, dal titolo Archivio M. Vennero pubblicate due monografie sull’artista e venne istituito un fondo a suo nome.
A prescindere dal singolo caso, esistono innumerevoli definizioni del drag, del suo ruolo politico e del suo significato intimo dentro e fuori la comunità LGBT+, ma il nome di Vlad Monroe è probabilmente l’unico ad essere conosciuto sia nella sensibilità mainstream, grazie alla fama mediatica, che nei circoli intellettuali più d’élite, quelli legati al circuito nazionale e internazionale dell’arte contemporanea. Va aggiunto inoltre che, a differenza delle drag queen più popolari del mondo occidentale come RuPaul o Divine, Monroe possedeva una sensibilità mistica tutta russa, che dava forma alla sua personale concezione del travestimento, dell’incarnazione e della performance alla luce del significato strettamente culturale e personale dell’atto. La differenza tra la percezione occidentale e quella russa lo stupì non poco. Alla domanda “come si rapportano al tuo lavoro le star in cui ti trasformi?”, Monroe replica: “I russi- con paura e pregiudizio. Nel mondo occidentale è diverso. Al mio arrivo in America nelle vesti di Marilyn Monroe ho ricevuto centinaia di lettere di ringraziamento dai suoi fan. Un amico di Monroe, il noto fotografo Yves Arnold, mi ha regalato il suo libro con la dedica: “Solo tu sei riuscito a risuscitare l’immagine della tua amata Marilyn.””
Furono anche molti altri, tra i vecchi amici di Monroe, parrucchieri, truccatori e fotografi, a vedere in lui la migliore reincarnazione dell’attrice.
In quest’intervista a proposito del suo progetto per la biennale fotografica di Baden-Baden del 2004, per il quale l’artista diventò nientemeno che Dostoevskij, Monroe racconta croce e delizia dell’assoluta dedizione alla sua arte: “Questa barba incollata, questo trucco così complicato, mi ci volevano più di due ore. Ci metto un’ora per Marilyn Monroe e due per Dostoevskij! Un tempo terribilmente lungo! Ma è il mio compito -metterci tutto l’universo, come se stesse incorporando le immagini più appariscenti, più egocentriche dell’umanità. […] È solo che amo le persone alla follia. E apprezzo l’onesta, la sincerità più di tutto. Non serve nient’altro! Ci dev’essere un’assoluta sincerità. […] Marilyn Monroe, che adoro e adoro, anche lei dava tutta se stessa alle persone che le stavano intorno, senza preoccuparsene. E anch’io vivo solo quando do tutto me stesso alle persone che mi circondano. In questi momenti sono vivo! Può essere una specie di masochismo, ma può anche non esserlo.”
In un’altra intervista, sempre del 2004, parla delle sue influenze e del suo lavoro in televisione: “Ti ricordi Benny Hill? Mi potrei paragonare a lui, con un po’ di sfacciataggine. Era un genio. Vero, è morto in maniera terribile: è rimasto a decomporsi per una settimana nel suo castello magnifico nei pressi di Londra. Benny Hill era così geniale che non riusciva più a comunicare con gli altri. È fuggito da una società marcia, ha litigato con tutti, persino con il suo servo. Io ho preso del whisky, mi sono rotolato dalle scale, schiantato, steso per una settimana in mezzo a questo splendore e mi sono decomposto. Il tempo, ovviamente, era un reazionario, erano gli anni Settanta, quindi non riuscì a imporsi nella pittura o nella poesia. Ma all’alba del nuovo millennio, io ho queste possibilità. Hill è Plechanov, e io sono Lenin!”
Nell’arte di Monroe, l’identità fluida è l’affermazione di un mondo dove, tornando al principio, niente è vero e tutto è possibile. La particolarità di Vlad Monroe come performer sta nel non essersi mai completamente identificato con un genere o con l’altro nel corso delle sue trasformazioni; la questione di identità viene accantonata per dimostrare la dimensione farsesca della binarietà maschile/femminile. Esternare la propria dissidenza nella completa derisione delle strutture sociali, senza attenersi alle regole non scritte della performatività di genere, anticipò di molto gli studi di Judith Butler. Mamyšev-Monroe li inscenò però con coraggio, cinismo e ironia, schierandosi in prima linea sul campo di battaglia ideologico della cultura dei media e di quella mascolinità egemonica tipicamente post-sovietica, figlia del nuovo capitalismo e dell’idolatria dei gangster.
Perché non esiste in Russia una performance artistica più grande, complessa e farsesca della politica. Tutto è un gigantesco reality show, meticolosamente sceneggiato nei minimi dettagli, una continua propaganda di immagini patinate e irreali sul palco di un teatro mediatico. La Russia aveva assistito all’avvicendarsi in rapida successione di tanti mondi diversi – comunismo, perestrojka, terapia economica d’urto, miseria, oligarchia, Stato della mafia, dominio dei super ricchi – da far credere ai suoi nuovi eroi che la vita non fosse altro che uno scintillante ballo in maschera in cui ogni ruolo, posizione o convinzione era intercambiabile, scriveva Pomerantsev. La prima volta che sono atterrato a Mosca ho pensato che queste infinite trasformazioni fossero l’espressione di un paese da poco liberato che provava i diversi travestimenti in una smania di libertà, che spingeva i limiti della propria personalità fino all’estremo, fino a quello che il visir del Presidente avrebbe definito «le vette della creazione».
Non stupisce che l’unico a scorgere la verità dall’alto di quelle vette sia stato Monroe, che si percepiva come un’antenna dell’inconscio collettivo, né che il suo trasformismo ricalcasse la disperata ricerca identitaria della stessa nazione di cui l’artista, tra il riso e il rimpianto, indossava le vesti. Tra i pochi rivoluzionari che conservano ancora il coraggio della blasfemia nel lacerare l’illusione di una Russia che si sovrappone perfettamente alla sua immagine, la dimensione grottesca e quasi raffazzonata di Monroe è l’unica, in una società dove la realness della performance si è sostituita alla vita, a scardinare definitivamente l’illusione; perché soltanto esacerbando i meccanismi dell’emulazione ci si può porre delle domande scomode sul concetto di “vero”.
Monroe riuscì a essere tutto, tutti, attingendo alla coscienza delle masse per tracciare una mappa dei riferimenti culturali del Novecento. Quando gli chiesero quale fosse il tema chiave della sua arte, rispose candidamente che “siamo tutti un’unica cosa, un unico organismo. Non la stessa cosa – è solo che ognuno di noi è unico. Ma è proprio l’unicità di ciascuno a garantire che siamo tutti una grande unità. Lo capii quando interpretai simultaneamente Marilyn Monroe e Adolf Hitler. Il bene e il male nel ventesimo secolo, manifestati al massimo della loro potenza nella personalità umana, e quando una persona riesce a rappresentarle allo stesso modo diventa chiaro che l’intero spettro è racchiuso tra di loro. E per il resto del tempo tutto quello che faccio è nutrire me stesso con le sembianze dei miei eroi, sentirmi saturo delle loro qualità, le loro caratteristiche, il loro significato nella cultura, in qualche modo arricchisco me stesso e tutti gli altri.”
Ridurre il drag o l’opera di Mamyšev-Monroe, entrambe complesse e radicate nella cultura, alla sola dimensione politica o artistica significa ignorare l’importanza del drag come una forma a sé, capace di abbracciare a metà strada e al tempo stesso distruggere tutti i costrutti sociali. Nel caleidoscopio prospettico che riflette quest’incredibile ricchezza di soggettività, l’arte di Monroe ci ricorda che parlare di una dicotomia binaria declinata in coppie di opposti, Monroe-Hitler, donna-uomo, bene-male, arte-politica non è soltanto impreciso o ridicolo: è pura performance, la farsa più grande di tutte.