Chiamatemi Esteban di Lejla Kalamujić: (ri)scrivere il trauma per superarlo

Poi le dita piccoline iniziavano a farmi male, dunque mettevamo la macchina da scrivere in una valigetta di plastica e la riponevamo nel silenzio profondo di quella morte prematura.

 

Tre righe prese dalla seconda pagina bastano a riassumere non solo l’essenza del libro Chiamatemi Esteban, ma anche l’approccio alla scrittura della sua autrice, Lejla Kalamujić, che approda in Italia nella traduzione di Elvira Mujčić per la casa editrice Nutrimenti.

 

Kalamujić è una delle esponenti delle nuove letterature jugosferiche, ed è stupefacente e di buon auspicio che l’editoria italiana abbia creduto in lei nonostante scriva racconti, genere snobbato dalla critica, e nonostante sia una donna, genere altrettanto snobbato dalla critica, per di più proveniente dalle periferie di mondo che sono la comunità LGBTQIA+ e i Balcani.

 

Nel libro troviamo lutti, mancanze, solitudine, guerra, confini e sconfinamenti dell’identità, omosessualità, salute mentale, tutto quello che potrebbe servire per attirare il pubblico contemporaneo come mosche sul miele. A intensificare il suo fascino da potenziale caso letterario contribuisce anche la copertina, la carta dell’Eremita disegnata dell’artista nonbinary Arianna Rogialli, che ritrae una figura androgina con i capelli turchini sollevati da una mano a mostrare i peli sotto l’ascella e una fiamma (un binder?) blu ad avvolgere il petto. L’inganno è perfetto: dell’autrice sappiamo che è nata a Sarajevo da padre bosniaco musulmano e madre serba e che è lesbica, il libro parlerà per forza di cosa significava appartenere a una famiglia mista durante la guerra degli anni Novanta e, allo stesso tempo, essere un’adolescente omosessuale in un contesto nazionalista (quindi machista), bellico e poi postbellico. Ci aspetteremmo pagine cariche di rabbia furente, dolore accecante e fame di rivalsa, pagine urlanti. Invece Kalamujić lavora per sottrazione: rispetta ogni premessa, (d)eludendo ogni aspettativa.

 

Innanzitutto, benché la continuità di trama tra i vari brani possa indurre chi legge a pensare di avere tra le mani un romanzo, l’autrice impone che questi siano racconti. Il motivo ce lo spiega proprio all’inizio del libro, tra quelle tre righe della seconda pagina da cui abbiamo cominciato. Lejla narra la genesi della sua passione per la scrittura facendola risalire alla necessità di mettere nero su bianco i frammenti della vita di quella madre di cui non serba nemmeno un ricordo: quando scrive da un po’, quando è un po’ che scava ed estrae e riordina le storie tramandatele dai nonni, le dita piccoline iniziano a farle male, non riesce più a sostenere lo sforzo dell’ispezione e dell’introspezione, così deve riporre la macchina da scrivere, la scrittura, nel silenzio profondo. La scelta stilistica di Kalamujić, quindi è dovuta da un lato al voler narrare così come le è sempre stata narrata la madre morta, cioè per episodi, dall’altro al doversi salvare in tempo da un raccontare che diventa a volte troppo doloroso e intimo, sospendendo e sottraendo, tacendo.

 

Il silenzio di Kalamujić, però, non è soltanto emulazione dell’assenza altrui e lenimento del dolore proprio, ma, forse, anche autopunizione. Quando la guerra scoppia, la piccola protagonista viene portata in un’altra città dai nonni materni (serbi), e questo per lei è il primo tradimento: abbandona gli altri nonni, si abitua agli spari, al nuovo inquilino che si chiama Guerra. Individua il secondo tradimento, invece, nel ritorno alla casa dei nonni paterni (bosniaci musulmani) durante una brevissima tregua. La convinzione di essere una traditrice emerge in lei quando non riesce (la prima volta in modo fisico, la seconda in modo psichico) a essere presente nel momento in cui nella sua famiglia si verificano dei nuovi lutti. Questa sua impossibilità di partecipare in modo attivo alla sofferenza si ripete esattamente come quando, a due anni, ha perso la mamma senza rendersene conto.

 

Il senso di colpa e il disgusto per il suo continuo tradire le persone che ama portano Lejla a odiarsi profondamente. L’autrice non dice mai esplicitamente cosa odia di se stessa, forse perché il sentimento di auto-ostilità le sembra talmente pervasivo e giusto da non avere un’origine precisa. Diverse volte lungo il testo fa riferimento al suo corpo (Io non ci potrò mai entrare dentro [ai vestiti di mia madre], non lo dico.), al suo rapporto con il cibo, alla confusione che le deriva dall’essere stata generata dall’intreccio del sangue di due fazioni che ora si stanno ammazzando a vicenda (“Va bene, ma chi sei? Buona, cattiva, una buona cattiva, una cattiva buona?“), all’amore per un’altra donna e alla sua salute mentale. I racconti di Kalamujić evocano argomenti ben precisi, sfiorano con la punta delle loro dita piccoline certi ricordi, certe emozioni e certe ferite ben noti a noi che li leggiamo e, proprio quando ci offriamo completamente affinché l’agognata esplicitazione letteraria squarci finalmente la nostra carne emotiva, si fermano, si sottraggono, tacciono.

 

Tuttavia, il risultato non è quello di un modo di narrare superficiale e lacunoso, piuttosto di una letteratura che richiama una sorta di non-finito michelangiolesco: la scrittrice potrebbe benissimo definire i dettagli, levigare il marmo delle frasi fino a rendere ogni piega evidente e riconoscibile, ma sceglie di abbozzare un figura che l’occhio esterno è in grado di intuire e che, proprio in virtù della sua non didascalicità, del suo silenzio, evoca molto più di ciò che, se fosse compiuta, si limiterebbe a rappresentare. I vuoti, gli spazi silenziosi, i metri di distanza tra il punto da cui l’autrice urla la sua poetica e la montagna del suo trauma sono proprio quelli che permettono ai versi solitari di rivivere nell’eco, di essere amplificati fino ad arrivare a noi in modo chiaro e suggestivo.

 

Mi infilo sotto le coperte. La bacio. Mi abbraccia, io mi stringo sempre più al suo corpo, alla sua immagine del mondo […] avendo un po’ più fede nel fatto che infine sono davvero sopravvissuta.

 

Chiamatemi Esteban segue il racconto di una bambina traumatizzata dall’assenza della madre e dall’intermittenza della presenza paterna, poi di una ragazza traumatizzata dalla perdita dei nonni e dalla guerra, poi di una donna che non riesce a credere di potersi meritare la pace e l’amore. La poetica del trauma di Kalamujić sembra allinearsi alla politica della memoria presente in alcune opere di Kiš, secondo la quale la voce narrante che ha subito lo shock non può che essere parziale, inaffidabile perché tende a tacere la verità per non rivivere l’evento. In realtà, per quanto molti dei racconti della raccolta si giochino sull’implicito e sull’immaginabile (persino sull’onirico), alla fine della lettura emerge chiaramente come il lavoro di Kalamujić consista nel sottrarsi, sì, ma proprio al silenzio. Questa figlia ormai adulta, sicuramente piena di altri problemi e di altre gioie, decide di dedicare un libro a mia mamma che nella mia memoria non è mai esistita, sobbarcandosi la doppia fatica di affrontare i traumi che ricorda, la guerra e i suoi morti, e di inventare da zero il trauma che non ricorda, la madre, per poi (ri)scriverlo e (ri)viverlo, unico modo per superarlo.

 

La grande potenza del genere del racconto è la sua possibilità di terminare proprio laddove noi vorremmo che corresse avanti. Kalamujić ne è consapevole, ma volge a suo vantaggio le possibili sospensioni e sottrazioni per dare voce ai silenzi che solo la letteratura può far risuonare.

 

Sei un libro aperto. Ma non scritto. Per questo ora ti estraggo dal buio delle mie pupille. […] La mia domanda è chiara: Se per caso tu fossi sopravvissuta all’anno ’82, se avessi visto il paese sgretolarsi, chi saresti stata tu, Snežana?

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