Mammalia: il cinema ibrido di Sebastian Mihailescu

Presentato alla Berlinale lo scorso febbraio, Mammalia, l’esordio nella finzione del regista rumeno Sebastian Mihailescu, può essere descritto solamente come un’opera sperimentale. In parte parodia del genere horror elevato, molti ci hanno voluto vedere tematiche legate alle questioni di genere e alla mascolinità fragile. Forse, comprendere interamente questo film è possibile solo ascoltando il regista stesso, che abbiamo intervistato direttamente a Berlino.

 

Vedendo Mammalia ci troviamo davanti a un film davvero difficile da interpretare. Come descriverebbe le sue intenzioni?

 

Il film è cambiato molto, ci ho messo 6-7 anni a trovare i finanziamenti. In quel lasso di tempo avevo già esordito con un docu-fiction. È difficile trovare finanziamenti per questi tipi di film, ma ci sono sempre persone a cui piace la sfida, che mi aiutano per passione, come il direttore della fotografia, Barbu Balasoiu, un mio amico che aveva filmato Sieranevada di Cristi Puiu, o il montatore, Catalin Cristuiu, che ha collaborato spesso con Radu Jude. All’inizio il film aveva a che fare con il mio fascino per l’Asia, doveva incentrarsi sulla fine di un rapporto a lungo termine e ad un viaggio in Asia da single, la possibilità di cambiare la propria vita. Successivamente è diventato un film più “locale”, essendo difficile trovare finanziamenti in Cina l’ho riambientato in Romania ma ho mantenuto la struttura a due parti. Cercavo di immortalare le mie ansie. Mi chiedevo se il mio lavoro fosse sicuro, precedentemente ero un software designer e ho abbandonato la carriera per diventare un artista, ho provato a diventare un pittore ma non avevo il coraggio di andare all’Accademia di Belle Arti all’epoca. Queste preoccupazioni personali, come cercare di provvedere alla famiglia… la mia compagna ed io abbiamo provato ad avere figli ma lei ha avuto alcuni aborti spontanei. Sentire il battito del cuore del feto prima che accadesse, questo era traumatizzante per me, ma soprattutto per lei. Ho quindi cercato di incorporare questi sentimenti, l’insicurezza. Non sono sicuro di me stesso ed essere un artista è molto soggettivo. Volevo essere sincero.

 

Nel film sembra avere un ruolo centrale una specie di culto new age. Com’è venuta l’idea?

 

Ho preso il cliché della donna vestita di bianco che vediamo in Midsommar o altri film, ma non volevo inventare un culto. Ritengo che la mente sia corrotta, quindi volevo trovare ispirazione nel mondo circostante. Ho trovato una fotografa giapponese di cui non ricordo il nome, un’artista contemporanea che ha fotografato un qualche culto esistente attorno ad un lago, è un riferimento che volevo fare. Importandolo nel film diventa qualcosa di diverso. C’è anche il folclore romeno, molto ricco, che si esprime nei falli lignei e nel ballo, simboli di fertilità.

 

È al folclore che si collega anche la nudità maschile ricorrente nel film?

 

Sì, si collega a questo, forse c’è anche qualcosa di freudiano dietro. Il film è una sfida: mette in discussione la definizione della mascolinità. Mammalia tratta di uomini e donne e di ciò che ci definisce, ma posso parlarne solo dal mio punto di vista. Per questo ho scelto di non parlare per I miei personaggi, ma di far parlare gli attori.

 

Eppure ci sono molti monologhi. Si è ricorso all’improvvisazione?

 

Quando abbiamo scelto un vecchio istituto di esperimenti scientifici dell’epoca di Ceaușescu, ho provato ad incorporarlo. Nel luogo c’erano libri con immagini di animali, da qui viene il titolo, Mammalia. Ad un certo punto ho iniziato a trasformare la sceneggiatura e rimuovere i dialoghi per farlo diventare un collage, un compendio di oggetti trovati. Il film stesso è un collage di oggetti, dialoghi, location, persone. Avevo costruito una narrazione molto basilare su un eroe che cerca sua moglie per creare uno spazio per condividere testimonianze reali. Ho scoperto le comparse mentre giravamo il film, li ho invitati a condividere le loro testimonianze. Per esempio la ragazza bionda che parla vicino al fuoco verso la seconda metà del film mi aveva confessato precedentemente che voleva diventare un’attrice ma è affetta da una malattia genetica per cui stava perdendo la vista, e non l’hanno ammessa alla scuola di cinema. Le ho dato questa chance, ho ignorato completamente il testo della sceneggiatura previsto per la scena e l’ho lasciata creare lo spazio, con l’altro attore che la ascoltava. In un’altra scena, quella accanto alla barriera, la ragazza che vediamo era qualcuno che conoscevo dal docu-fiction che avevo girato in precedenza, l’ho coinvolta in questo film perché era cresciuta nel sistema degli orfanotrofi della Moldavia. Quando ho ascoltato il suo racconto, mi sono dimenticato della scena. Sono diventato uno spettatore, la mia telecamera è diventata uno spettatore, anche il protagonista stesso, che in quella scena assiste al monologo nascosto dietro ad un albero.

 

Dov’è quindi il limite tra realtà e finzione nel cinema?

 

Non credo nella finzione, credo nel cinema ibrido. Questo forse viene dall’approccio del documentario, che non può essere mai oggettivo. Dopo il mio docu-fiction, quando sono riuscito a finalmente arrivare a fare il mio film di finzione, mi sono reso conto che volevo enfatizzare la differenza tra finzione e documentario. Questo è un film di finzione, ci sono tre attori e gli altri non sono professionisti. Oggigiorno il cinema è il più grande strumento di propaganda, anche se non è cominciato come tale, o in alternativa è Hollywood, dove l’eroe vince e i supereroi salvano sempre il mondo. Volevo tornare a quella sensibilità che mi aveva attratto. Ho girato il film in 16mm per ricostruire gli elementi base del cinema, la luce ed il suono, con forse qualche frammento di storia, per porre alcune domande e trasmettere la mia passione per la natura e la meditazione. Mi piacciono le poesie, gli haiku, sono attratto dalla cultura asiatica, dagli approcci meditativi, questo è il modo in cui mi avvicino al cinema. Non volevo dare risposte, volevo porre le domande giuste. Com’è possibile? Il film è su un uomo che è una sorta di spettatore silenzioso che racchiude tutti i maschi dentro di sé. Ho cercato di far esplodere la narrativa perché non ci credo più, di mettere alla prova i limiti della struttura narrativa. Ho usato forse il 40% del materiale, progetto di usare il resto per un’installazione artistica da visitare, dove le persone possano meditare, forse anche dormire.

 

Lei parla di un film meditativo, eppure io vedendolo confesso di averlo trovato inquietante. Per esempio in una delle scene iniziali, in cui vediamo l’ombra dell’attore protagonista muoversi in modo sovrannaturale, a me sembrava di vedere la testa allungarsi in modo innaturale.

 

È un film perturbante. Ritengo che l’arte debba avere più strati. Se un film è interamente rilassante, è solo intrattenimento. Se è perturbante, diventa anche più rilevante. Mi affascinano I mezzi minimi, volevo improvvisare il tutto e non fare alcune prove. Le prove uccidono la performance, secondo me. Per la scena dell’ombra, il protagonista István Téglás ha dovuto sfruttare le sue doti. È famoso perché in Malmkrog di Cristi Puiu interpretava una figura rigida, il capo dei maggiordomi, ma è anche un ballerino di danza contemporanea. Per fare quell’effetto che si vede nel film ha usato il suo corpo per creare un movimento che dava quell’impressione.

 

C’è anche la presenza di musica rock a rendere perturbante il film, qual è il significato di questo elemento?

 

Il chitarrista che fa il riff è una delle comparse che avevo trovato. Era un chitarrista rock-trash degli anni ‘90 che non aveva mai debuttato, così gli ho detto che questa era la sua chance. Il suo riff è un po’ la sua testimonianza, come gli altri monologhi. Sto facendo con lui un nuovo film, di cui è il protagonista.

 

Può raccontarci di più sul nuovo progetto?

 

È su un musicista rock di sessant’anni e una ragazza che cerca suo padre. Diventa un film di vampiri, con riferimenti a Vampyr, al western, a volte in bianco e nero, a volte a colori, ci sono alcune parti che riprendono il cinema muto. La mia provocazione originale era di fare un film ambientato interamente in due metri quadri con un unico attore, mi ero ispirato al bunraku, una forma teatrale giapponese nata nei castelli durante gli assedi per intrattenere i nobili. Sto costruendo la trama partendo dal materiale che filmiamo. Cerco sempre di trovare i mezzi più minimalisti per raccontare una storia.

 

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