Io, Olga Hepnarová. Psicologia di un’emarginazione (in)volontaria

La primavera di Praga, i “sessantottini” e la cruda realtà socialista. Questo è il background storico-culturale che accompagna la vicenda di Olga Hepnarová, giovane protagonista dell’analisi di oggi, ma allo stesso tempo è uno sfondo di cui la stessa protagonista si cura ben poco, a cui è estranea. Nell’allora Cecoslovacchia (ci troviamo nel bel mezzo degli anni Settanta), un evento scosse l’opinione pubblica locale, riportando conseguentemente una grande eco: il 10 luglio 1973 nella stessa Praga una ventiduenne a bordo di un’autocisterna investe volontariamente venti persone ad una fermata pubblica, uccidendone otto. Non fugge, non si oppone all’arresto, anzi, quasi vi si consegna. Il motivo? Un’incontrollabile brama di vendetta nei confronti della società.

La sua storia è stata raccontata nel libro Olga Hepnarová: zabíjela, protože neuměla žít (lett. dal ceco “Olga Hepnarová: uccideva perché non sapeva vivere”, Praga 2010) di Roman Cílek, il quale titolo perde di carattere polemico nelle versioni estere diventando semplicemente Já, Olga Hepnarová (“Io, Olga Hepnarová”), come anche nell’omonimo film del 2016 di produzione mista (collaborazione ceca, polacca, francese e slovacca) diretto da Tomáš Weinreb e Petr Kazda. Quest’ultimo titolo è un riferimento diretto alla lettera che la Hepnarová scrisse due giorni prima di compiere la strage (che vi riportiamo in esclusiva integralmente qui sotto, poiché il libro non è mai stato tradotto in italiano), in cui spiega i motivi del gesto che avrebbe compiuto di lì a poco.

Il film, ispirato al libro, riporta fedelmente gli avvenimenti riguardanti la sua vita, ottenendo un grande successo in Repubblica Ceca e all’estero (2 Leoni Cechi e numerose nomine tra cui una al Festival internazionale del cinema di Berlino).

 

Michalina Olszańska nei panni di Olga nel film “Já, Olga Hepnarová” (2016).

 

Per quanto riguarda il libro, Cílek si serve in maniera molto dettagliata di tutte le testimonianze a disposizione sull’intera storia: si parte dagli interrogatori dopo l’arresto sino a finire alle interviste rilasciate dalle persone vicine al caso. Nonostante il titolo originale possa risultare, come già detto, un po’ aggressivo (rivelando in un certo senso l’opinione dell’autore) si cerca di ricostruire in maniera oggettiva, passo dopo passo, la vita della ragazza e, soprattutto, di stilare praticamente un profilo psicologico di questa complicata figura. Ovviamente nel processo di ricostruzione l’autore ci mette del suo, un po’ come accade nella maggior parte delle biografie: tra dati di fatto e supposizioni lo scrittore fa sfumare quel confine che separa ciò che è successo da ciò che si presume sia successo, soprattutto riguardo i sentimenti che hanno spinto Olga a compiere questo gesto. C’è da aggiungere anche che la narrazione non è molto scorrevole, un po’ per lo stile adottato e forse un po’ per la pesantezza in sé dei fatti. Cílek scava a fondo nel passato della giovane: divide la sua vita in “prima” e “dopo”, stabilendo come punto di riferimento centrale la strage dell’estate del ’73. Il suo intento appare chiaro, poiché vuole dare – per quanto possibile – un senso “logico” a tutto ciò, proponendo al lettore un punto di vista molto vicino alla protagonista seppur tendente all’imparzialità. Proprio grazie a questo, il suo libro risulta essere una fonte vitale per gli appassionati del genere.

La pellicola, a differenza del libro, più che ricercare le ragioni dell’atto mira piuttosto a raccontare il fatto in sé, sfruttando giustamente al meglio le risorse a propria disposizione, ovvero quelle cinematografiche. Infatti, la pellicola restituisce una forte, a tratti fortissima immagine di Olga Hepnarová, probabilmente rinforzata dal malinconico bianco e nero presente in tutto il film. Gli avvenimenti, i comportamenti e le circostanze sono per lo spettatore un boccone amaro, veramente difficile da mandare giù, creando in lui un pesante senso di disagio, a tratti però necessario per comprendere appieno l’entità dell’accaduto.

 

Il prima

Seguendo lo stesso criterio utilizzato nel libro, onde evitare inutili ridondanze, lasciamo la parola ad Olga Hepnarová in persona, la quale racconta la propria vita e i motivi della sua scelta nella famosa lettera-confessione scritta due giorni prima della strage:

 

Olga Hepnarová a Praga negli anni ’70.

Gentili signori,

vi prego di trattare questa lettera come fosse una testimonianza. Essa è stata scritta in difesa del mio gesto davanti ad eventuali offese o ridicolizzazioni e, allo stesso tempo, per dimostrare che sono una persona che opera ai limiti della sanità mentale (se solo fossi stata mandata lì dove i poteri alti si sbarazzano dei prigionieri politici [ospedale psichiatrico, ndr], cosa ovviamente non accaduta per negligenza).

Mi chiamo Olga HEPNAROVÁ. Sono nata il 30.06.1951 a Praga. Vengo da una famiglia della borghesia intellettuale: mio padre è impiegato in banca, mia madre è dentista. Ho una sorella, Eva, nata nel 1949 a Praga. Ho fatto 9 anni di scuole elementari, poi ho frequentato una scuola professionale di artigianato con specializzazione in legatoria. Sono un’autista di terzo livello, ho due anni e mezzo di esperienza sul campo, tra cui 10 mesi passati sulle SC [probabilmente si tratta di veicoli pesanti da trasporto, ndr]. Lavoro per la compagnia di trasporti pubblici di Praga, Praga 7, Bubenská, edificio 02. Da quando lavoro qui non ho mai avuto incidenti stradali. In aggiunta lascio anche il mio indirizzo: Praga 10, Plaňanská 524, residenza per lavoratori, stanza numero 502/II.

Dopo aver esposto le mie generalità vado al punto. Oggi 8.07 ruberò un autobus e investirò a tutta velocità una folla di gente. Molto probabilmente accadrà nel distretto di Praga 7, nei pressi del Parco della Cultura e del Riposo intitolato a Julius Fučík. Rettifica: sarà un’autocisterna di servizio 706 R, posto indifferente, data pure. Sarò colpevole della morte di x persone. Verrò giudicata e condannata. Questa è la mia confessione (non credo né ai preti, né ai dottori, ma credo esista ancora almeno un giornalista onesto).

Per 13 anni cresco tra le grinfie di una cosiddetta famiglia per bene. Vengo picchiata e maltrattata, sono vittima degli adulti e un giocattolo tra le mani dei bambini (un’eterna emarginata già tra i miei coetanei). Ho dei soprannomi: MASCHIACCIO, MUMMIA, TARZAN, ANGELO CADUTO, FIORELLINO DI PIETRA, BAMBOLA DORMIENTE e così via. I miei persecutori sono senza pietà. Sono quella strana nel gruppo e la pecora nera in famiglia. Sin da quando ne ho memoria, sono sola. Non ho amici e non ne avrò mai. Cado nella disperazione, ne conseguono le fughe. Fughe da scuola, da casa, dalla vita. Poi nuovamente (a 13 anni) vengo stretta nella morsa di un’insopportabile vita piena di umiliazioni, scherni e torti. All’Ospedale Psichiatrico per Bambini di Opařany mi rendo conto dell’ignoranza e dell’inutilità della psichiatria (per me). Finisco le scuole elementari. Al professionale c’è leggermente meno razzismo ma dopo sono di nuovo costretta a lottare mentre lavoro come autista (pregiudizi e così via). Durante l’autunno del 1971 mi trasferisco in una casa estiva che compro con i miei soldi. La casa è l’emblema della mia solitudine. Un anno e mezzo dopo, allo stremo delle mie forze, mi trasferisco alla residenza per lavoratori della compagnia, una pensione che si rivela un’atroce Babilonia dove si può sopravvivere solamente con una grande forza di volontà. Questi sono appunti relativi ad anni diversi. Faccio schifo come il peggiore dei drogati. Sì. Penso solamente: dove sono le mie pasticche? Dove? Dov’è l’unica cosa che mi tiene in vita (fatto di oggi)? Tutti i miei sentimenti sono sull’orlo dell’esaurimento, di speranza ce n’è tanta quante sono le medicine. Ma l’angelo caduto non è ancora caduto del tutto. Perché lo faccio? Lo faccio per farvi capire che esiste un limite all’impotenza di un individuo. Sono in una situazione peggiore di quella di un Nero in America. Perché? Perché sono sola. Sono stata linciata migliaia di volte.

Qui riporto gli esempi:
– da mio padre, Antonín Hepnar;
– sono stata trascinata sotto la doccia e sono stata picchiata a sangue (Opařany, 1965);
– un gruppo di conoscenti e sconosciuti mi ha insultato, dopodiché ho ricevuto un calcio tra le gambe (avevo 11 anni, è successo nell’atrio del nostro palazzo);
– una ragazza della mia età mi ha picchiato per strada (10-11 anni in piazza Betlemme);
– x volte tramite delle parole poco raffinate mi sono sentita un rifiuto che non ha niente a che fare con un gruppo di persone perbene (faccio notare che ero tutto il tempo sana mentalmente e fisicamente!!!);
– x volte la gente per strada, evitandomi, sputava a volte a terra, a volte addosso a me (alla luce del giorno, lungo le strade dell’URSS);
– in tutte le compagnie lavorative hanno parlato male di me, sono stata denigrata, derisa, umiliata, tralasciando forse la compagnia di trasporti pubblici di Praga, dove vengo trattata ufficialmente in una maniera adeguata.

Sintesi personale: sono un’incapace in campo sessuale. Non sono in grado di crearmi un rapporto normale. Sono una persona distrutta. Una persona distrutta dalle persone. Quindi devo scegliere: o mi ammazzo o ammazzo gli altri. Di conseguenza scelgo DI FARLA PAGARE AI MIEI NEMICI. La passereste troppo liscia se me ne andassi come un qualsiasi suicida.

Visto che la società è talmente autonoma da non essere in grado di giudicarsi da sola, può capitare che venga giudicata privatamente da qualcun altro, venendo condannata alcune volte, rimanendo nel panico in altre. Questo è il mio verdetto: io, Olga HEPNAROVÁ, vittima della vostra bestialità, vi condanno a morte per investimento e dichiaro che quelle x vittime saranno comunque troppo poco per la mia vita.

Acta non verba. Ho infine una patetica richiesta. Gentili giornalisti, vi prego di rendere pubblico il contenuto di questa lettera oppure di passarlo almeno allo scrittore Branald quando lavorerà al prossimo libro sui criminali dei nostri giorni.

Grazie.

Praga, … luglio 1973

 

Olga Hepnarová 

(trad. Alessio Mangiapelo)

 

Da una testimonianza così cruda quanto reale, sorgono spontanee alcune domande, le quali portano il destinatario di entrambe le manifestazioni artistiche a riflettere sul caso. Ci si può soffermare un po’ nella stessa misura di Cílek, visto che la vicenda presenta dei temi estremamente attuali di cui non si può far a meno di discutere. Smembrando la lettera, si possono individuare degli aspetti che quasi prepotentemente caratterizzano Olga e la sua storia, quindi riscontrabili sia nel film che nel libro. Proprio questi aspetti ed episodi permettono poi un collegamento diretto alla fine della vicenda.

 

Michalina Olszańska (Olga) e Klára Melíškova (Anna Hepnarová, madre) nel film “Já, Olga Hepnarová” (2016).

 

La famiglia e la società in senso stretto

 

Il sentimento generale di odio e di vendetta nasce in famiglia, in particolare ha origine nel rapporto col padre che la picchiava e maltrattava più di chiunque altro. Lo stesso padre ammette di sapere poco della figlia e di averle messo le mani addosso in diverse occasioni. Eva era indifferente al loro rapporto, o meglio, riconosceva le differenze tra lei e la sorella, ma non la odiava, il che è comunque triste come affermazione. La madre si sforzava di fare da collante, cercando di sostenerla nonostante tutto e tutti, almeno a detta sua. Quello sviluppatosi in Olga è appunto un odio generale per tutti, nessuno escluso. La ragazza rivela che ha anche pensato di uccidere i membri della sua famiglia, ma ciò avrebbe riguardato solo la loro nicchia e non tutta la società. L’odio poi si è allargato alle altre persone che ha incontrato nella vita, soprattutto dopo gli eventi accaduti nell’ospedale psichiatrico; di conseguenza, un sentimento di pregiudizio ha iniziato ad accompagnarla durante la vita, in particolare nei rapporti con qualsiasi nuova conoscenza. Nonostante ciò, si possono riscontrare dei barlumi iniziali di speranza in occasioni come il ricovero ospedaliero ad Opařany, avvenuto all’età di circa 14 anni. Su consiglio di un dottore, rafforza il suo rapporto con la lettura, passione che si porterà dietro per tutta il resto della sua breve vita: si interessava agli approcci filosofici di Sartre, Camus, Freud. Altri episodi significativi sono stati la conoscenza di persone che, almeno in parte, Olga accettò nella sua cerchia, come Alžběta e Miroslav, con cui ebbe delle controverse relazioni di natura sentimentale – se così si possono definire – e sessuale. Da questo momento la ragazza inizia a crearsi, o perlomeno ci prova, dei diversivi, i quali la porteranno a riflettere ancora di più sulla questione esistenziale e quindi su se stessa.

 

Michalina Olszańska (Olga) e Marika Šoposká (Jitka) nel film “Já, Olga Hepnarová” (2016).

 

La questione di genere: omosessualità e ruolo femminile

 

Olga riconosce di aver avuto la prima “cotta” all’età di 12 anni per un’infermiera di circa 20. La colpì la gentilezza di quella persona (cosa per lei inusuale). Poi, durante il soggiorno a Opařany, la convivenza con sole ragazze la spinse ad adeguarsi a quel che, secondo i suoi racconti, accadeva spesso in quegli ambienti: le ragazze sarebbero state solite intrattenersi mutualmente a livello sessuale, esternando spesso anche una vicinanza che andava oltre la fisicità. Rivela che in ciò per lei non v’erano sentimenti, ma solamente un soddisfare determinati bisogni fisici. Oltretutto, afferma di non aver mai provato alcun tipo di attrazione nei confronti del sesso maschile. Racconta di non sentirsi né “pienamente omosessuale”, né “pienamente eterosessuale”, ma forse semplicemente “pocosessuale”. Le prime esperienze sessuali con gli uomini la segnarono profondamente in maniera negativa, ma rivela che anche il semplice sesso con la compagine femminile non le portò grandi piaceri, seppur maggiori rispetto a quelli con il sesso maschile. Al contrario di tutto ciò, l’autoerotismo la appaga maggiormente. Curioso notare come nelle sue fantasie sessuali legate alla masturbazione, Olga Hepnarová si immedesimi spesso nei panni maschili oppure in entrambi i ruoli, aprendo un nuovo dibattito contestualizzato alla questione di genere e quindi di identità sessuale.

Passando all’ambito lavorativo, le impressioni che diede sfociarono in tantissime opinioni negative da parte dei suoi “datori di lavoro” e quindi da parte dei suoi colleghi. Olga venne molto criticata per i suoi comportamenti e, in alcuni casi, venne addirittura emarginata e derisa nei suoi impieghi perché semplicemente donna. L’inusualità della presenza femminile in determinati contesti della società, dai più bassi ai più alti, era oggetto di beffa e di sottovalutazione. Seconda la testimonianza di una delle sue colleghe, Alžběta, Olga si innamorò di lei, ma dimostrò un evidente problema di instaurazione di un qualsivoglia tipo di rapporto, a partire dall’approccio, passando per il mantenimento della conoscenza per finire all’atto sessuale; nonostante tutto, Olga manifestò imperterrita, seppur in maniera indiretta, il suo interesse per lei, “girandole” attorno e lasciandole il comando della situazione. Da qui nasce una complicata relazione tra le due, durata circa due anni. Alžběta ai tempi aveva già una partner, la quale odiava Olga per i suoi comportamenti, ma, nonostante ciò, continuarono a frequentarsi. Alžběta riuscì a capire in qualche modo la ragazza, anche perché in alcune occasioni Olga si aprì con lei come con nessun altro prima, cosa che fece solamente dopo con Miroslav. Oltretutto, riuscì a capire che qualcosa non andava: da una parte infatti si schiera in sua difesa, dall’altra però a lungo andare iniziò a non sopportare più i suoi cambiamenti. Una notte, dopo una piacevole serata in cui Olga, stando a quanto riportato “parlò come non mai”, le si pose davanti con un coltello in mano, minacciando il suicidio. Da quel momento il rapporto si concluse: qui si evince la ripetitività delle azioni della Hepnarová, nonostante il vivere una situazione di relativo benessere; probabilmente il suo errore più grande dal punto di vista caratteriale, fu quello di manifestare un rifiuto indiretto nei confronti di chi le tese una mano.

Il secondo rapporto di vitale importanza è con Miroslav, conosciuto sul posto di lavoro, con cui ebbe un rapporto molto più “confidenziale” rispetto agli altri, tanto da continuare dopo la strage e fino praticamente alla sua morte. La riprova ne è la corrispondenza che i due ebbero nell’ultimo periodo, impeccabilmente riportata da Cílek. Da notare come entrambe le persone, le quali si può dire che furono le più vicine in assoluto ad Olga, nonostante l’accaduto la ricordino ancora in maniera affettuosa. Da queste vicende appena narrate comunque, si evince una forte incapacità di relazionarsi che la porterà ad un sempre più graduale estraniamento.

 

Michalina Olszańska (Olga) nel film “Já, Olga Hepnarová” (2016).

 

Il senso di estraneità e l’isolamento

 

Il senso di estraneità diventa un problema quando lo si riconosce come proprio. Infatti, sia la tendenza all’isolamento dalla società, sia le minacce di suicidio espongono un chiaro disagio inerente a questa condizione e quindi un’implicita richiesta d’aiuto. Si potrebbe affermare che il suo estraniarsi, ricollegandoci proprio al concetto dell’implicita richiesta d’aiuto, rappresenti tramite sillogismo un mezzo per esprimere la propria volontà di vita. Oltre questa supposizione, in rari episodi la ragazza si è trovata a rivolgersi ad una seconda persona, poiché riteneva che questa la capisse maggiormente rispetto al resto della gente, come nel caso del dottore di Opařany. Pertanto, l’estraniamento di Olga è stato un estraniamento voluto o indotto? A questo non c’è risposta, si potrebbero contemplare entrambe le ipotesi. L’isolamento, prima mentale e poi concreto, sfocia in tentativi di suicidio: prima con le pasticche durante il primo ricovero, poi nella minaccia di suicidio in presenza di Alžběta e più in generale, con i pensieri di suicidio. La sua è una maturazione graduale ma frammentata che passa dal fare del male a sé stessi al fare del male a qualcun altro, nel tentativo di ottenere vendetta, a partire dall’incendio volontariamente appiccato in una casa estiva di proprietà della famiglia. Nonostante nel 1973 in qualche modo le cose a livello lavorativo migliorarono, Olga sentì che la situazione era in realtà ancora più pesante, al punto da autocondursi a un bivio: suicidarsi o uccidere gli altri. Opta irreversibilmente per la seconda, poiché con il suicidio avrebbe liquidato solamente i suoi di problemi e, considerando la presenza di altri “martiri” come lei in questa società, doveva dare dimostrazione di un qualcosa di più grande. Nel tempo organizza il suo piano di vendetta: pensò di deragliare un treno, le piaceva il pensiero di uccidere qualcuno con un’arma da fuoco, ma la cosa che la affascinò di più fu l’idea di gettarsi in uno strapiombo con un autobus carico di persone. In ogni caso, Olga riconosce la premeditazione del delitto e individua in lei stessa la nascita del concetto di strage nel momento in cui ha identificato come colpevoli per le sue disgrazie gli altri.

 

Foto segnaletica di Olga Hepnarová al momento dell’arresto il 10 luglio 1973.

 

La misantropia e la società in generale

 

L’insieme di questi elementi ha portato il sentimento di estraneità a trasformarsi in un sentimento di misantropia. Quindi, la domanda è lecita: quella della Hepnarová che tipo di misantropia è? È forse una misantropia “tipica”, già conosciuta alla storia, in cui si può vedere una matrice nota o „atipica”, quindi dovuta a nuovi elementi e/o a particolarità strettamente collegate alla sua persona e al nuovo periodo storico? In realtà non è per niente semplice categorizzare la sua prospettiva, vista la molteplicità di sfaccettature da cui si può analizzare il caso, come accade per la questione della volontarietà o meno dell’estraniamento. Al contempo, si potrebbe anche dire che il motivo è da ricercare in un problema di natura caratteriale, inerente alla sua sola persona, come anche vederla da un punto di vista più ampio e affermare che la vera causa si può individuare nel fallimentare progetto di società moderna, quindi passare nello specifico all’accusa dell’intero apparato socialista. Oppure si potrebbero giustamente considerare entrambe le compagini, visto che una non esclude l’altra. Olga sottolinea la natura incomprensibile dell’odio nei suoi confronti: “Non c’è mai stato alcun motivo sensato. Sono fisicamente sana, non sono diversa dagli altri, sono come voi, parlo ceco e sono bianca. Il vostro odio nei miei confronti è stato irrazionale. […] In risposta al vostro odio irrazionale è nato, gradualmente, il mio di odio, un odio giustificato.” Con questa e altre affermazioni di simil tono ribadisce l’ordinarietà, sempre secondo il suo punto di vista, del suo agire e quindi ne riconosce in toto la paternità. Fatto sta che la misantropia, provenendo da quel senso di estraneità, per analogia, seppur in maniera diversa, è una ancor più velata richiesta d’aiuto. Una richiesta d’aiuto che, alcune volte, ha ricevuto in un certo senso una risposta positiva e quindi proposta, la quale paradossalmente è stata rifiutata.

 

Il dopo

 

Successivamente al tragico evento, Olga Hepnarová viene arrestata e portata in commissariato. Qui inizieranno gli infiniti interrogatori di cui oggi ci serviamo. A differenza di tutto ciò che è accaduto prima, per forza di cose la ragazza ora è costretta ad aprirsi e a parlare con le autorità competenti, anche perché finalmente ha un pubblico a cui rivolgersi e ha la possibilità di spiegare la genesi di questo atto. Ottiene, in fin dei conti, quel che aveva desiderato: la vicenda diventa di pubblico interesse. Viene internata in attesa della sentenza. Intanto, oltre agli interrogatori, vengono condotti su di lei molti test, di varia natura. Durante il periodo 1973-74, i dottori stileranno un rapporto di ben 78 pagine contenente indagini che spaziano dal punto di vista strettamente fisico a quello comportamentale, passando per quello mentale. Si attende un verdetto che possa determinare la possibilità o meno di recupero di Olga Hepnarová come membro attivo della società. I medici tendono ad escludere questa possibilità, poiché secondo loro la ragazza è in piena coscienza delle sue azioni e non clinicamente disturbata. Lei chiede apertamente la pena di morte, affinché la sua storia abbia un’eco maggiore; conferma che infine arriva nei primi giorni d’aprile 1974, al concludersi del processo, dove finalmente Olga espone davanti a tutti i presenti la sua vicenda, definendosi un prügelknabe per le ingiustizie subite in vita (dal ted. contestualizzandolo un “capro espiatorio” dei mali degli altri). Viene proposta quindi la condanna a morte per impiccagione.

 

Foto scattata subito dopo la strage, allora via Obránců míru (“Difensori della pace”), Praga.

 

Durante l’ultimo periodo, nell’attesa del fatidico giorno, qualcosa in Olga cambia. Inizia a consolidarsi in lei l’idea di una nuova identità, la quale non è del tutto estranea al suo passato: Miroslav, il suo ultimo “compagno”, racconta infatti che di tanto in tanto Olga fosse convinta di essere una certa Sandy Winiferová e che quindi non avesse nulla a che fare con il “presunto” padre Antonin Hepnár. Per un certo periodo, le due personalità avrebbero convissuto in lei. A base di ciò, ci sarebbe una scoperta riguardo il proprio stato familiare che turbò molto la ragazza, di cui purtroppo Miroslav non venne mai concretamente a conoscenza. Nel 1974 ci sono stati due ricorsi per la sentenza: uno a maggio presentato dalla madre, poiché non venne interrogata sulle questioni più intime (anche di natura sessuale) della figlia, a cui si unisce la stessa Olga e uno nei mesi di agosto-settembre presentato dal suo avvocato. In quest’ultimo caso, la difesa si basava sul peggioramento della condizione psichica dell’imputata riguardo la questione “Winifer”. Pertanto, l’avvocato chiede o la riapertura del caso o una riduzione della pena. Il tutto si risolve in nulla di concreto; viene addirittura respinta la richiesta della madre per visitare la figlia. La convinzione del padre “Winifer” si era ormai impossessata di lei. Parlava con lui ed era allo stesso modo convinta che Oto Winifer l’avrebbe liberata da tutto ciò, se solo si fosse comportata bene. Afferma di non avere ormai più niente a che fare con Olga Hepnarová, ma che purtroppo dovrà scontare ugualmente la pena, per il fatto che il gesto è stato compiuto col suo corpo. È un po’ come se per tutta la vita lo spirito di Olga avesse avuto la meglio su di lei e l’avesse spinta a compiere quell’atrocità. Cambia quindi completamente l’atteggiamento verso la situazione, non essendo secondo lei responsabile di quelle azioni: ella stessa si oppone alla sentenza. Il 30 ottobre gli psichiatri mettono un grosso punto alla questione, definendola letteralmente una mitomane. Il 3 marzo 1975 il Ministero della Giustizia della Repubblica Socialista Cecoslovacca rifiuta definitivamente ogni richiesta di riduzione della pena. Il 12 marzo 1975 Olga Hepnarová muore mediante impiccagione a Praga. Sarà l’ultima donna giustiziata in Cecoslovacchia.

 

Corpi in via Obránců míru (“Difensori della pace”), Praga.

 

Con certezza si può affermare, mettendo da parte le varie dissertazioni che il caso ha suscitato e susciterà ancora, che l’esistenza del problema che oggettivamente ha portato alla morte di più persone, della ragazza e delle vittime del gesto, mostra un’evidente falla in questo enorme meccanismo di cui facciamo parte. Serve specificare “di cui facciamo parte” e guardare ai fatti con più coscienza, per il semplice fatto che Olga Hepnarová ha ucciso otto persone poco meno di 50 anni fa, in un contesto che, per certi versi, non differisce dal nostro, e che, ancora una volta, ribadisce e grida l’importanza di ogni individuo.

 

In appendice, vi riportiamo il pensiero di Eva Švankmajerová sulla storia di Olga Hepnarová, nonché la genesi dell’opera ispirata ad essa. Eva Švankmajerová (1940-2005) è stata un’artista, scenografa e poetessa ceca, moglie del regista Jan Švankmajer.

 

Událost (“Avvenimento”), 1977, E. Švankmajerová.

 

Non saprei dire precisamente perché i fatti su Olga Hepnarová mi abbiano colpito così tanto. Sicuramente mi hanno colpito come donna e come artista. Forse è per il fatto che in quei tempi ben poco ottimisti pensavo ai rapporti interpersonali, ai rapporti familiari, all’impotenza del bene in questo mondo spietato, come scritto nel catalogo di una delle mie mostre. La maggior parte del male deriva dall’incapacità di capirsi. Prendersi cura della comunicazione e lavorare su di essa sono entrambi un nostro obbligo morale. Mi riferisco qui alla comunicazione con i bambini, con la società, con gli animali, con la natura, con l’architettura. Non solo ne abbiamo il diritto, anzi, abbiamo l’obbligo di difendere noi stessi e i nostri cari dal rifiuto. Sono stata cresciuta nello spirito che si può sempre contare sui cari. Se qualcuno fa della propria famiglia un porcile dove vigono delle regole a mo’ di Gestapo – indipendentemente se si tratta di patriarcato o matriarcato – un porcile, un bordello, una prigione dalla quale i bambini vogliono scappare al più presto è una sconfitta morale per il suo stesso creatore. Due anni dopo l’incidente della ragazza e del camion ho dipinto, scossa dalla tragedia, l’opera Avvenimento, alla quale ho aggiunto un breve commento. Nel dipinto c’è una figura, forse non è nemmeno una figura, forse sotto i vestiti non ha corpo, forse quei vestiti sono solo degli stracci buttati lì. Il paesaggio forse non è nemmeno un paesaggio. La mano forse non è una mano, ma una pozza. La corda, con la quale la figura spettrale tira qualcosa, al contempo la soffoca. Nonostante tutte le mostruosità che ha compiuto, di cui sono venuta a conoscenza da varie fonti, dopotutto, in verità ho provato dispiacere per lei. Conosco bene la fase in cui i giovani non hanno abbastanza istinto di conservazione e vogliono togliersi la vita. Ero furiosa con lo psichiatra che non le dedicò del tempo. Il fatto che sia stata condannata e giustiziata mi è sembrato a dirla tutta immorale, avrebbero dovuto piuttosto impiccare quel dottore.

trad. Alessio Mangiapelo

 

[Le traduzioni in italiano dei due frammenti sono state realizzate grazie alla versione polacca del libro Já, Olga Hepnarová di Roman Cílek]

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