Magda Szabó è una delle punte di diamante della letteratura ungherese. Distribuita in più di quarantadue Paesi del mondo e tradotta in più di trenta lingue, Szabó è la scrittrice ungherese di maggior successo commerciale. La sua carriera è molto poliedrica: inizia come poetessa, sceneggiatrice, scrittrice di saggi e libri. Inoltre, è anche una rinomata traduttrice di Shakespeare. La sua scrittura continua una tradizione ungherese che vede l’atto di scrivere come un atto di risolutezza morale; tutto viene vissuto come uno scenario di azione e reazione, e tutto ciò che ne deriva viene trasformato in foga sulla carta stampata. Come reagiscono gli umani al dolore? Le ferite da esso provocate possono rimarginarsi? Se sì, lasceranno ugualmente tracce indelebili nella persona?
Questo meccanismo si può trovare già trovare nei suoi primi lavori, scritti durante il Regime di Rákosi (1945-1956), fra i quali possiamo annoverare Freskó (Affresco), ma pubblicato solo nel 1958 e Az őz (L’altra Eszter) nell’anno successivo. Ma nei suoi lavori successivi, come Az Ajtó (La porta) e A Pillanat (Il momento – Creusaide), probabilmente quelli più conosciuti, vengono aggiunti degli espedienti postmoderni di vivisezione della storia e della memoria dei personaggi. Riferendoci ad Az ajtó, questi ultimi sembrano intrappolati in sogni lucidi, delimitati da confini invalicabili che piegano spazio e tempo. Personaggi e oggetti, come la porta del titolo che all’inizio non si apre, sembrano emissioni di questa energia psichica prodotta all’interno di questi sogni, che permette a questi oggetti puramente narrativi di materializzarsi nel mondo reale. Questa metafisica, unita al meccanismo di azione e reazione menzionato prima, rendono i libri di Magda Szabó unici nel loro genere. A tal proposito, da non sottovalutare è anche l’ottima recensione che l’autrice ricevette dallo scrittore Hermann Hesse, che sparse la voce della sua bravura anche fuori dal territorio ungherese: “Con Frau Szabó”, scrive Hesse, “avete acchiappato una gallina dalle uova d’oro. Comprate tutti i suoi romanzi, quelli che sta scrivendo e quelli che scriverà”.
I personaggi di Magda Szabó potrebbero essere paragonati a delle tazze di porcellana: immaginiamo uno scaffale di tazze color bianco ottico, di questo materiale rinomato per la sua delicatezza e per la sua bellezza. Da lontano, queste tazze hanno appaiono una uguale all’altra. Per esempio, durante una lettura veloce si può avere l’impressione che Iza non sia altro che una Eszter trasportata in un altro contesto e tempo. Ma più ci avviciniamo al nostro scaffale, più notiamo che le tazze sono usurate, che il tempo non è stato buono con loro, che sono graffiate, rovinate – ma soprattutto, adoperando anche il senso del tatto, notiamo che nessuna tazza è uguale all’altra. La forza nella fragilità è uno dei tratti più distintivi della scrittura di Szabó.
Come già accennato, l’autrice ha avuto una carriera poliedrica, ma è bene sottolineare che tra i vari generi si è cimentata anche nella scrittura di fiabe. La scrittura di fiabe, infatti, aveva in Ungheria un significato ben più profondo della semplice arte di scrittura per ragazzi: rappresentava una vera e propria forma di evasione dalla realtà – realtà che che, nella maggior parte dei casi, risultava opprimente. Esistono diversi corpora di fiabe ungheresi, ma la loro filologia risulta ardua perché spesso contaminati dalle stesse popolazioni abitanti il bacino dei Carpazi. Ogni comunità era detentrice e custode delle proprie tradizioni folkloriche e fiabesche; pertanto, la vastità di un simile repertorio si può solo immaginare.
La fiaba era il faro che guidava la comunità popolare, ne esistevano di diversi tipi che si trovavano spesso mescolati tra loro. Le loro trame venivano tessute da terre lontane e trasportate fino a quella ungherese, raccontando sovente leggende legate ad aspetti dello sciamanesimo, una cultura che gli ungheresi si portano nel sangue nel loro passato millenario. Un esempio di questo tipo di fiabe sono le Magyar Népmesék e Fehérlófia. La struttura ricorrente della fiaba è la seguente: c’è un protagonista che ha il compito di riequilibrare le forze del bene e del male. C’è un racconto particolare che vale la pena menzionare, che è quello dedicato a Mátyás Hunyadi, re ungherese che non fa parte della dinastia principale magiara degli Árpád, ma che diventa re grazie alla sua bravura e intelletto. Costui lancerà l’Ungheria in un vero e proprio rinascimento culturale; per tale ragione, egli è l’unico personaggio storico a divenire protagonista di favole popolari. Questo può esserci d’aiuto per tracciare un’ipotetica era di fioritura della fiaba ungherese, corrispondente alle date del suo regno. Ma la tradizione non finisce qui: nell’Ottocento e Novecento abbiamo ulteriori sviluppi da parte di altri scrittori ungheresi. Nell’ Ottocento troviamo Mihály Vörösmarty con Csongor és Tünde (Csongor e la fata) e Sándor Petőfi con János Vitéz (Giovanni il Prode), che, pur essendo un poema popolare a tutti gli effetti, attinge molto alla tradizione favolistica ungherese. Nel Novecento, invece, è il nome di Ervin Lázár, scrittore dalla notevole produzione favolistica, a dominare la scena.
Come anticipato, durante il periodo sovietico la fiaba diventa un genere che potremmo definire di sfogo, al quale si approcciavano gli autori che non volevano conformarsi ai canoni di scrittura del regime. La fiaba e il canto popolare rimangono così le colonne portanti della letteratura ungherese; senza di esse, millenni di cultura sarebbero andati dimenticati. Per intendere, la Cantata Profana di Béla Bartók ha profonde radici nella cultura ungherese, sino a toccare anch’essa la cultura sciamanica. E, forse, senza l’input delle fiabe, Bartók non si sarebbe spinto a compiere quel viaggio filologico-musicale che lo portò a rivoluzionare la cultura mitteleuropea.
Questo percorso ci porta finalmente al libro di Szabó. Lolò, il Principe delle Fate (in ungherese Tündér Lala) fu scritto nel 1965, e uscirà in Italia il 26 ottobre di quest’anno grazie a Edizioni Anfora. A inquadrare questa fiaba di Magda Szabó in una più ampia e importante tradizione europea è prima di tutto il target a cui è destinata. Ci spieghiamo meglio: ogni fiaba viene fruita sia dai grandi che dai più piccoli, ma è a questa ultima categoria che vengono indirizzati i messaggi. Nel caso di Szabó, invece, la fiaba non contiene semplicemente strutture ideologiche indirizzate ai bambini, ma nasconde in sé insegnamenti che gli adulti devono recepire e metabolizzare insieme ai più piccoli. Similmente alle opere di Hans Christian Andersen, i livelli di lettura sono tanti e di difficile individuazione, poiché i vari piani sono finemente legati l’uno all’altro. È una lettura didattica, ma in questo caso non è l’adulto che forma il bambino attraverso la fiaba, è la fiaba stessa a essere un’esperienza formativa per tutte le età. Lolò, il principe delle fate è un vero e proprio oggetto fatato, una lente d’ambra attraverso la quale grandi e piccoli guardano l’uno oltre l’altro, annullando le distanze create dall’età. Non solo, questo racconto riesce a creare un ponte dentro noi stessi verso quei territori dell’io che non abbiamo mai avuto il coraggio di guardare e interrogare. Quanto c’è di vero in ciò che mi circonda? E quanto c’è di vero nel mio modo di pensare? Cosa è veramente frutto della mia esperienza e cosa è invece un preconcetto instillato in me dall’ambiente in cui vivo?
Con la sua scrittura evocativa e poetica, l’autrice ricama un mondo di echi ancestrali, tinto delle trame del folclore europeo e soprattutto ungherese. Il suo linguaggio denso e pregnante, che stordisce esattamente come polvere di fata, crea un mondo le cui dinamiche al suo interno sono in realtà scenari del mondo umano. Lolò, protagonista della fiaba e principino del regno delle fate, è un personaggio fuori dagli schemi classici, è un antieroe – nel senso positivo del termine – se non addirittura un outsider. Le regole del mondo in cui vive lo costringono a un’esistenza a metà, in cui non riesce a sviluppare appieno la sua personalità. Non percepisce il senso delle regole che gli vengono imposte e tenta di comprendere il mondo attraverso le proprie esperienze personali. Non vuole semplicemente imparare, vuole vedere, sperimentare, confrontarsi col diverso.
La storia di Lolò non è una storia di formazione, ma la storia di affermazione di un giovane che sta cercando il suo diritto a esistere così com’è, senza dover rinunciare a parti importanti del proprio sé. Dall’altra parte c’è sua madre Iris, la regina delle fate, il cui ruolo costituisce un ostacolo al rapporto fra lei e il figlio. Vuole capire il suo Lolò, vedere il mondo con i suoi occhi, ma i doveri verso il suo regno le impediscono di vivere appieno la sua maternità. Sa che suo figlio soffre per la sua assenza, ma non sa come attenuare l’insofferenza che cresce in lui ogni giorno di più. Anche nel rapporto con Lolò, la regina delle fate non riesce a liberarsi del suo titolo regale, comportandosi con il figlioletto come un’estranea. Iris sarà in grado di liberarsi dal suo ruolo solo quando la vita del piccolo Lolò sarà in pericolo, riuscendo così a riappropriarsi del suo lato materno. Lolò si sente solo contro un mondo che ancora non lo capisce, ma la sua capacità di vedere attraverso le apparenze, di scomporre la realtà e riconoscerne i meccanismi e le complessità, gli permette di non fermarsi al mondo “prefabbricato” in cui vive. Capisce che la realtà va necessariamente esplorata: solo allora si può averne un’idea scevra di preconcetti ed evitare quell’abbagliante illusione che infesta il pensiero critico.
La capacità di Lolò di osservare in profondità non è casuale: nelle vicende che si consumano all’interno della fiaba, il piano personale si interseca al piano sociale della storia. Concepito dall’albero di fichi e dato in dono alla regina Iris il giorno della sua incoronazione, Lolò sarà l’elemento dissonante che riporterà ordine e autenticità nel regno. Lolò è intraprendente, estremamente curioso e insofferente alle imposizioni sterili e prive di un autentico fondamento. Più volte nell’opera si fa menzione al suo “cuore umano” così irruente e per nulla in linea con il fare placido delle fate, che vivono la loro natura senza doverla necessariamente indagare. La sua intraprendenza lo porterà a spingersi nel regno degli umani, dove verrà per la prima volta in contatto con il dolore e la morte.
– La scorsa primavera l’aereo con i suoi genitori è precipitato – disse Lolò. – Ne stavano parlando prima del tuo arrivo, per questo piangevo. […]Omicron teneva lezione sulla questione della morte in maniera del tutto superficiale, perché del resto la caducità non li riguarda: a che scopo rattristare le fate con cose del genere? Anche Lolò aveva superato l’esame finale di umanologia e zoologia, come le altre fate, ma evidentemente non aveva mai riflettuto sulla vita limitata degli umani, se non pensando che chi è morto non esiste più, e quale fortuna era che le leggi da loro fossero altre, che tutta questa faccenda riguardasse solo animali e umani![…].
Lolò riesce a entrare in profonda empatia con gli umani, la cui la fragilità lo colpisce profondamente. È in questo passo apparentemente così semplice che l’autrice è in grado di trasmetterci immediatamente il senso di un concetto così inafferrabile e complesso da spiegare, ricostruito attraverso il senso di vuoto pungente provato dal giovane principe. Per Lolò è inconcepibile che qualcosa di così grande come la morte venga ignorato dagli abitanti del suo regno. Le sorti di ogni essere vivente devono riguardarci, per quanto queste sembrino a noi così estranee e inconcepibili. L’empatia è il collante che permette l’equilibrio della natura e dell’intera esistenza.
per la prima volta nella mia vita ho incontrato il vero dolore, il pensiero della caducità, e in me si è anche risvegliato un sentimento che ugualmente non sono solito provare a casa, perché non ne ho motivo e occasione: provo pietà, Amalfi, pietà per la bambina dai capelli rossi e panico, perché cosa succederebbe se morisse mia madre, o se morissi tu o noi tutti, ed ecco, nella mia tristezza ho fatto l’altezzoso, mi sono comportato male, ma per favore perdonami, perché lo sai quanto ti voglio bene.
È la forza della sua empatia che lo spingerà a chiedere asilo per la piccola famiglia umana al consiglio fatato del suo regno, chiedendo che possano vivere indisturbati alle porte del regno fatato, dove mai nessun umano aveva vissuto prima. Questo suo cuore puro e sincero, che batte al ritmo delle sorti di ogni creatura terrestre, sarà anche ciò che il mago Aterpater userà per ricattare la regina e salire il potere. Secondo una legge citata dal mago, infatti, una fata dal cuore umano non può essere accettata nel regno delle fate: se si scoprisse la sua vera natura finirebbe per vivere come un reietto rigettato dalla società – che è ciò che succede in molte società di stampo autoritario e non solo- . Pur di salvare il figlio, Iris arriva a rinunciare all’amore e a mandare in esilio un innocente, il povero unicorno d’oro, accusandolo di aver mentito sui suoi vaticini riguardo il futuro sposo della regina.
Venuto a conoscenza del segreto della madre, Lolò prende la decisione che ribalterà le sorti del suo mondo e obbligherà tutti a battersi per la salvezza della loro terra. La scelta del principino di diventare umano per poter permettere alla madre di non essere più ricattata da Aterpater porterà i personaggi a ripensare al loro ruolo all’interno del regno fatato.
Ma Lolò non vedeva i cespugli in fiore o la luna, il principino cercava di ascoltare se stesso, il proprio io, stava cercando di sentire cosa gli avrebbe detto quello strano qualcosa con il quale l’albero del fico magico lo aveva benedetto – o maledetto – la notte della sua nascita: cosa gli avrebbe detto la cosa che già fino ad ora lo aveva spinto verso innumerevoli strade particolari, che lo aveva incoraggiato a non accontentarsi delle parole magiche e a cercare di raggiungere o fare tutto da sé; che l’aveva reso curioso, di spirito intraprendente, gli aveva fatto conoscere Beata e Cormorano; per il quale il mago voleva condannare la sua povera madre all’infelicità eterna: cosa gli avrebbe detto il suo cuore umano.
Il personaggio che più di tutti verrà colpito dalla vicenda sarà il farmacista Brill, il vero mago della terra delle fate, che deciderà di prendere in mano la situazione e rivelare a tutti i piani di Aterpater. Smascherato Aterpater e ricostituito l’ordine del regno, Brill fa tornare Lolò una fata mentre la madre, consapevole ormai di desiderare soltanto la serenità della sua famiglia, abdica e sposa il suo vero amore, il capitano Amalfi, assicurando così a Lolò la stabilità affettiva a cui tanto anelava.
Il racconto, che fino a questo momento ha solo indossato gli abiti della fiaba per parlare di questioni fondamentali per l’uomo, diventa sul finale una fiaba vera e propria. Come già accennato nell’introduzione, il contesto in cui Lolò, il principe delle fate è stato scritto non può essere trascurato. Infatti, nell’Ungheria dell’epoca si stava attraversando un periodo di oppressione e assenza di libertà, che non era una mera condizione di privazione di diritti, ma di impossibilità di un pensiero indipendente, che veniva a mancare persino nell’intimità delle mura domestiche. La maschera fiabesca di cui il racconto si serve è necessaria sia per sfuggire a censure di qualsiasi tipo sia a creare una possibilità di evasione da una realtà soffocante e priva di prospettive future. L’unicità di Lolò, ci suggerisce l’autrice, sta nel non accettare la finzione creata per renderci dei prigionieri. Questo, del resto, è proprio il motivo per cui Aterpater teme così tanto il cuore umano di Lolò, al punto da volerlo sostituire col cuore ingenuo e manipolabile di una fata.
Esiste una corrente di voci che dalla poesia dei primordi fino alla letteratura dell’Ottocento ha attraversato la letteratura ungherese, per infrangersi poi alle porte del Novecento, fatta eccezione per la tradizione fiabesca. Si tratta del vento dello sciamanesimo, sistema di credenze che ha guidato la vita degli ungheresi per moltissimi secoli fino alla cristianizzazione. La presenza di elementi e simboli riconducibili allo sciamanesimo rendono le fiabe ungheresi una fonte inesauribile di stupore, in cui vediamo sfilare personaggi e situazioni introvabili nel resto delle fiabe europee. Lo stesso Endre Ady, uno dei più importanti poeti ungheresi ed europei, fu definito “sciamano” poiché nacque con un osso in più nella sua mano. In fondo, la differenza tra poeta e sciamano è molto sottile, dal momento che entrambi possono essere guide spirituali del proprio popolo, grazie al loro dono di evocare mondi tramite il potere della parola. Perché non credere allora che Ady fosse per davvero uno sciamano? Sciamano o meno, questa storia è una delle tante testimonianze di quanto tale cultura sia tuttora profondamente radicata nell’inconscio collettivo degli ungheresi.
Tornando alla fiaba moderna di Magda Szabó, nemmeno Lolò, il principe delle fate è esente dal soffio porporino dello sciamanesimo, anche se forse in misura minore rispetto a fiabe più antiche. L’universo di Lolò, così insolito e così vivo, vivo al punto da sentirlo respirare tra una riga e l’altra del racconto, rivela un animismo tipico delle credenze sciamaniche. Gli elementi che nella fiaba di Szabó accorrono in aiuto del principe non sono paragonabili a quelli delle fiabe di matrice europea, come per esempio aiutanti e oggetti magici. L’eroe, che in questo caso è il nostro Lolò, non fa affidamento a veri e propri aiuti esterni, ma come un vero sciamano è in grado di interagire con le forze della natura e manipolarle a suo piacimento. Persino gli oggetti più insospettabili prendono vita a contatto con il giovane principe delle fate:
La sedia sentì immediatamente di avere a che fare con una fata, iniziò a dimenarsi sulla sua schiena, gli sussurrò di posarla immediatamente a terra; non si era aspettata di venir toccata da una fata: poteva andare sulle proprie gambe, perché sapeva camminare se voleva, ma non glielo chiedevano mai: gli umani volevano sempre fare tutto da soli. […] L’incantesimo del sonno della regina si spaventò a morte, perché quando provò ad avvicinarsi a Lolò il bambino scostò di scatto la coperta e si rizzò a sedere. Era disteso a letto vestito di tutto punto e con le scarpe addosso. […] fece spallucce e tutto offeso volò fuori dalla finestra. Mai in vita sua gli era capitato che non avessero desiderato la sua compagnia.
Un altro aspetto della fiaba che richiama l’iniziazione sciamanica è il viaggio che Lolò compie in un mondo altro: in questo caso, però, non è nel mondo degli spiriti che avverrà l’iniziazione, ma in quello degli umani. Lolò si spinge in una realtà al contrario, in cui dovrà vivere direttamente una “morte rituale” esattamente come accade allo sciamano iniziato. Si immergerà nelle acque del lago ai piedi di una montagna di “cristallo”, in ungherese üvehegy – elemento che ricorre non solo in molte fiabe ungheresi, ma anche nei sogni di iniziazione degli sciamani siberiani: “è una tale montagna cosmica che il futuro sciamano scala in sogno durante la sua malattia iniziatica e che poi visita nei suoi viaggi estatici” (Eliade, 1974, pp.293). – diventando umano e quindi, mortale:
Le sue cellule furono percorse da un fremito, come se tutto il suo corpo fosse stato di metallo e qualcosa lo avesse percosso con uno strano martello. Tutte le sue viscere e i suoi nervi sussultarono, in quel momento si rese conto che non era più fata, ma umano e su di lui nessuna fata avrebbe più avuto potere.
L’iniziazione di Lolò sarà il motore che smuoverà le sorti del regno e porterà anche gli altri personaggi al cambiamento e all’azione, primo fra tutti il carismatico farmacista Brill – da notare che la figura del farmacista corrisponda in questa fiaba a quella del mago e medicine-man di altre fiabe e culture di stampo sciamanico – che svelerà l’inganno di Aterpater e a riprenderà il suo ruolo di mago di corte. Anche nella fiaba di Magda Szabó si ripete la funzione del rapimento di una principessa da parte di un’entità malvagia. In questo caso è la madre di Lolò a dover essere liberata dalle spire del mago Alterpater, e con lei il suo regno.
In ultimo, è interessante vedere come anche nella favola di Szabó i personaggi abbiano l’abilità di potersi trasformare in animali. In modo differente dagli animali parlanti delle fiabe, che intervengono solitamente per prestare aiuto al protagonista, la metamorfosi è una delle abilità tipica di maghi, tricksters, medicine-men e sciamani. Molto spesso l’animale in cui lo sciamano si tramuta simbolizza le caratteristiche e le abilità principali dello sciamano, o diviene spirito guida di quest’ultimo. Non a caso il principe Lolò non muta in un animale ma in un umano, dimostrando così che la sua caratteristica dominante proviene dal suo cuore umano. Sebbene questa abilità sembrerebbe appartenere solo a fate e sciamani, vorrei chiudere questa parentesi con l’affermazione di uno dei personaggi della fiaba che ci rivela che “anche gli uomini sono fate”. Forse l’autrice ha voluto suggerirci che c’è qualcosa di divino in noi da troppo tempo dimenticato, che dobbiamo e possiamo recuperare per vivere nuovamente in sintonia con il creato.
Non possiamo non dedicare qualche riga al comparto grafico dell’opera. Le illustrazioni che accompagnano il lettore capitolo per capitolo sembrano essere state concepite assieme alla fiaba stessa, donandole fisicità visiva. La delicatezza delle linee che tessono le immagini ha la stessa consistenza delle parole leggere sussurrate da Szabó, liberando la storia da quella pesantezza severa e dura che spesso accompagna le illustrazioni dei libri per bambini. Non c’è spazio per scenari brutali o intrisi di oscurità, la tensione viene creata dalle immagini in modo differente, persino realistico. Il lavoro compiuto da Ivett Lénárt e Réka Imre rende quest’opera un volume inestimabile a cui non si può rinunciare. Alcune delle illustrazioni sono contenute all’interno di questo articolo, speriamo che questo piccolo assaggio vi convinca in modo definitivo all’acquisto di questa opera.
Lolò, il principe delle fate, per quanto apparentemente semplice e scorrevole, potrebbe non essere una lettura per tutti. È una fiaba che richiede tempi lenti, pause, riflessione: è, insomma, un’opera formativa. In questo approfondimento ci sono molti piani su cui avremmo potuto dilungarci, ma preferiamo lasciare a voi la possibilità di scoprirli e, soprattutto, di farvi la vostra personale idea. È una lettura che può benissimo essere fruita da un adulto, ma vi consigliamo vivamente di condividerla con i piccoli di casa, di prendervi il tempo di vivere assieme questo racconto e di parlarne, poiché è una lettura che pianta semi importanti in un’anima in cammino, sia questa di un bambino o di un adulto.