Zinaida Gippius: “Kak čelovek, a ne tol’ko kak ženščina”

La simbolista Zinaida Gippius – che fu anche Anton Krainij, Nikita Večer e Tovarišč German o, semplicemente Z.G. – potrebbe essere definita il paradigma dell’intellettuale russo a cavallo dei due secoli. Tuttavia si sa, il tempo è spesso crudele, e ad oggi risulta essere tra le figure letterarie meno conosciute anche tra i russisti. In realtà, approfondendo la conoscenza con colei che veniva definita la “regina dei salotti” russi e, successivamente, parigini, stupisce la straordinaria capacità di questa figura dimenticata, che per tutta la sua vita ha passeggiato in equilibrio sul filo dell’identità di genere, di proiettarsi fino ai giorni nostri senza perdere la sua cifra innovativa.

Per introdurvi alla figura di Zinaida Nikolaevna Gippius e alla sua tensione verso l’identificazione con l’ideale androgino simbolista, credo sia utile fare un piccolo passo indietro. Il movimento simbolista russo vide in Vladimir Sergeevič Solov’ëv l’esponente di spicco in ambito filosofico; con l’introduzione della sua “teosofia”, che sintetizzava platonismo, misticismo cristiano, hegelismo e positivismo, poneva la figura della Sophia, principio primo della creazione ed «eterno femminino», accanto a quella di Cristo in qualità di uomo e divinità capace di superare la morte, mirando ad una unità completa a cui bisognava aspirare.  Nel suo Смысл любви (1894, tradotto in italiano come “Il significato dell’amore”), Solov’ëv identificò nella figura dell’androgino l’unità totalizzante, perfetta e completa che, trascendendo l’opposizione tra maschile e femminile, poteva raggiungere una condizione “divina” ed immutabile. Ciò gettò le basi per quello che sarebbe poi diventata la corrente letteraria e poetica. Le teorie solov’ëviane ebbero un impatto diretto sulla vita dei poeti che aderirono al movimento simbolista, per via della loro natura esperienziale piuttosto che astratta e che ne tradussero i principi religiosi ed estetici in una vera e propria condotta. Un esempio diretto dell’aderenza ai principi introdotti da Solov’ëv è senz’altro riscontrabile nella vita di Zinaida Gippius e di suo marito Dmitrij Merežkovskij che, sia individualmente sia nell’ambito della loro sfera matrimoniale, furono devoti all’idea che vivere dovesse essere un’«opera d’arte» o, come l’avrebbero definita loro, la realizzazione della жизнотворчество.

Gippius in particolare abbracciò totalmente l’utopia simbolista, incarnando la figura dell’androgino e trasformando la propria esistenza in una esperienza estetica, oltre che puramente letteraria. Molti contemporanei commentarono sia la sua scelta di impiegare il sostantivo maschile per dare voce al proprio “io” lirico, sia l’immagine pubblica che la poeta dava di sé in società, che consisteva nell’espressione di una identità di genere che al giorno d’oggi definiremmo fluida. Nel corso della sua vita non era infatti insolito che Gippius suscitasse scandalo per la sua capacità di incarnare alla perfezione sia l’immagine della donna eterea, sfoggiando abiti marcatamente femminili, candidi o estremamente audaci, spesso abbinati ad accessori altrettanto originali, sia abiti tradizionalmente maschili, da dandy inglese, come venne ritratta dal costumista e pittore Léon Bakst nel 1906. Così facendo, Gippius metteva in scena rappresentazioni antitetiche di sé tali da renderla un testo di difficile lettura. In virtù di ciò Vladimir Zlobin, il suo segretario personale, affermò che “in genere amava mistificare […] Non per niente ci si riferiva scherzosamente a lei come ad una donna inglese chiamata Miss Tification”. Gippius riuscì così a creare ciò che Presto definisce “un teatro simbolista del corpo, in cui il corpo o i corpi che mostrava risultavano essere il prodotto di una illusione teatrale”. Questa sua “illusione teatrale” non si limitava esclusivamente a degli elementi estetici, puramente esteriori, ma si innestavano in una vera propria pratica discorsiva che includeva anche la sua produzione artistica.

Come già accennato in precedenza, Gippius amava giocare sul piano dell’ambiguità anche nelle vesti di artista, letterata e critica. In riferimento all’ambito critico, l’autrice era solita firmarsi con diversi pseudonimi maschili, pratica in realtà piuttosto diffusa tra le letterate dell’ambiente culturale russo di fine Ottocento, a causa della scarsa considerazione che veniva loro prestata per il solo fatto di essere donne; la stessa Gippius, in riferimento a ciò, scrisse nel saggio Зверебог (1908) che “[le] è sempre sembrato più pratico esprimere i pensieri più cari sotto uno pseudonimo mutevole, sotto il nome di qualcun altro. […] Dopotutto, semi-consapevolmente, buttiamo quasi tutto ciò che è firmato con un nome femminile”. Era perciò facile ritrovare nelle riviste più affermate critiche e sagaci osservazioni scritte da tali Anton Krainij, Nikita Večer o Tovarišč German, dietro i cui nomi in realtà si celava sempre Gippius. Questo gioco di ombre e sfumature mosso sui confini della mistificazione dell’identità proseguiva, con altrettanta se non maggiore forza, nella produzione poetica dell’autrice, in cui l’ambiguità era affidata all’impiego alternato di marcatori di genere maschili e femminili.

Uno degli esempi più lampanti di questa costante ricerca all’interno dei confini dello spettro di genere è riscontrabile in Она (“Lei”, 1905) in cui, dicendolo con Hetherington, “l’esplorazione del genere poteva alle volte assumere la forma di una apparente avversione per il femminile”. Possiamo leggere ai vv. 5-8:

Она шершавая, она колючая,
Она холодная, она змея.

Меня изранила противно-жгучая
Ее коленчатая чешуя.

Da principio risulta incerto chi sia il soggetto del componimento marcato grammaticalmente come femminile, finché Gippius non rivela nell’ultima quartina che si riferisce alla propria anima paragonandola ad un serpente (змея) da cui si sente stritolata (“Своими кольцами она, упорная, / Ко мне ласкается, меня душа.”, vv.13-14). Secondo l’interpretazione di Hetherington, sebbene questo componimento sia spesso citato per mettere in luce un apparente spirito anti-femminile di Gippius, sarebbe in realtà “[non] l’avversione verso la donna o per un sé femminile, quanto un rigetto di tutte le differenziazioni di genere; la sua anima la soffoca non in quanto femminile, ma perché iscritta in un genere”.

Appare dunque evidente che, nel suo carattere sovversivo e nella sua propensione alla trasgressione delle norme binarie, Gippius sembrava già mettere in atto ciò che Butler avrebbe teorizzato quasi un secolo dopo quando, in Gender Trouble (1990), la filosofa statunitense scriveva che il genere è un atto performativo “aperto a scissioni, all’auto-parodia, all’autocritica e alle esibizioni iperboliche del «naturale», che nella loro esagerazione rivelano il suo statuto fondamentalmente fantasmatico”. Perseguendo sia il principio alla base del concetto di жизнотворчество, quindi della concezione della vita come testo, sia nella volontà di incarnare l’ideale androgino così come teorizzato da Solov’ëv, si potrebbe dire che l’autrice performasse il proprio genere in maniera internamente ed esteriormente discontinua, rompendo tale illusione. In Contes d’amour, diario che tenne tra il 1883 e il 1904, Gippius ci regala una riflessione circa la sua continua oscillazione tra maschile e femminile scrivendo che “nei miei pensieri, nei miei desideri, nello spirito sono maggiormente un uomo; nel corpo sono più una donna. Essi sono tuttavia talmente fusi insieme, che non so riconoscerli”. Kak čelovek, a ne tol’ko kak ženščina

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