Sopravvivere nel sottosuolo: Guido Carpi racconta Dostoevskij

Quest’anno si celebra il bicentenario della nascita di Fëdor Dostoevskij e non sono mancate, non mancano e non mancheranno dirette social di ogni tipo, nuovi libri, nuove edizioni delle sue opere, perché c’è una platea di persone in tutto il mondo che quando pensa alla letteratura russa pensa ai personaggi dostoevskiani e ai loro abissi. Per carità, questo articolo non nasce con l’intenzione di farvi cambiare idea. La verità è che – sempre per ragioni universitarie – mi sono imbattuto nella lettura de L’arte del romanzo di Milan Kundera, un autore che per diversi motivi dissocio dalle mie preferenze, e forse tra questi motivi c’è anche un suo intervento critico proprio contro Dostoevskij e il suo mondo di gesti eclatanti, di cupi abissi e di sentimentalismo aggressivo. A questo suo commento rispose seccatamente Brodskij, portando alta la bandiera del sentimento che anima ogni appassionato di Dostoevskij, vale a dire quel tipo di persona che, parafrasando una celebre citazione de Il maestro e Margherita di Bulgakov, risponderebbe sempre con un: «Protesto! Dostoevskij è immortale!»

Dostoevskij è immortale, può essere vero. Ma tornando a L’arte del romanzo, che spesso si rivela contraddittoria e vanagloriosa, al suo interno riserva una riflessione che invece colpisce molto, citando Nabokov e Faulkner come esempi di romanzieri ostili ad avere una biografia pubblica. Nabokov disse: «Odio mettere il naso nella preziosa vita dei grandi scrittori e mai biografo solleverà il velo della mia privata» mentre Faulkner espresse il desiderio di «essere annullato come uomo, eliminato dalla storia, non lasciare su di essa alcuna traccia, nient’altro che libri stampati». L’idea che porta avanti Kundera è quella di mettere in luce un lato completamente negativo della biografia di un romanziere, che a differenza di un poeta non dovrebbe mai essere confuso con le proprie opere. La riflessione si conclude così: «Nel momento in cui Kafka attira più attenzione di Josef K., il processo della morte postuma di Kafka è incominciato».

E se applicassimo questa idea al nostro rapporto con Dostoevskij? Viene da chiedersi: stiamo veramente sbagliando, noi appassionati? Perché c’è un problema che sorge: la biografia dello scrittore russo è di dominio pubblico, conosciamo praticamente tutti i dettagli della sua travagliata ma travolgente vita e non mancano le numerose pubblicazioni biografiche, sempre più aggiornate. Se questo accade, significa che c’è un forte interesse nel penetrare nei pensieri di uno dei più grandi scrittori della storia della letteratura, ma quanto può essere sana questa lente? Perché c’è spesso il rischio di confondere la grandezza delle sue opere con la grandezza di una vita i cui aspetti poco noti e meno appaganti da un punto di vista meramente commerciale finiscono nel dimenticatoio, spianando la strada ad una sorta di feticismo per Dostoevskij, imbevuto di citazioni come quelle del suo sognatore de Le notti bianche o della bellezza che salverà il mondo.

In occasione del bicentenario della sua nascita, il nostro obiettivo non è quello di celebrare a priori la vita e le grandi opere dello scrittore russo, ma andare oltre la patina che c’è in superficie e portare alla luce aspetti nascosti, pensieri poco noti al grande pubblico, critiche che nel corso degli anni Dostoevskij ha ricevuto e riceve ancora oggi. Con questa nuova prospettiva, l’intento finale sarà quello di un invito alla rilettura, scindendo il più possibile il vissuto con ciò che ci ha lasciato nei testi. Per farlo, abbiamo chiesto man forte al professor Guido Carpi, docente di Letteratura russa presso l’Università di Napoli L’Orientale e autore di libri come una biografia su Lenin e una Storia della letteratura russa in due volumi.

 

Una delle problematiche che si incontra nel leggere e nel commentare uno scrittore come Dostoevskij è quella di non riuscire a distinguere le sue vicissitudini biografiche con le caratteristiche dei personaggi delle sue opere; la travagliata vita dell’autore diventa a sua volta un romanzo accattivante, basato su una storia che comincia sempre con la scena dell’esecuzione mancata: a proposito di questa, quanto c’è di vero? La commutazione della pena da parte dello zar fu davvero un inaspettato miracolo? Quanto poi ha realmente inciso sulla vita e sulle opere di Dostoevskij?

L’esecuzione del 22 dicembre 1849 non fu un miracolo, ma una crudele messinscena, dato che la pena era già stata commutata. Una messinscena terribilmente reale, eseguita fino all’ultimo momento per volere dello zar Nicola I: ai condannati venne spezzata una spada sopra la testa e, malgrado spirasse un gelo di -20°, essi furono costretti a togliersi soprabito e giacca, e ad attendere la fucilazione in camicia. E tutto questo dopo otto mesi di cella d’isolamento, angherie, interrogatori… No, Dostoevskij non esagera nella rappresentazione che ne dà ne L’idiota, anzi, forse edulcora un poco quello che dev’essere stato davvero. Dalle testimonianze dei presenti, pare che Dostoevskij attendesse la morte in una sorta di sovreccitazione: «Saremo assieme al Cristo!», esclamò in francese a un compagno, che rispose beffardo nella stessa lingua: «Giusto un poco di cenere».

Questo evento è sì uno spartiacque essenziale nella sua vita intellettuale, ma non ne segna l’inizio: al momento del mancato supplizio, Dostoevskij era un giovane adulto con una carriera di scrittore già piuttosto affermata, un militante politico, un sovversivo (per quanto solo a parole). Certo: i lunghi anni di lavori forzati e di confino esercitano su di lui un’influenza profonda, gli permettono di conoscere strati della popolazione, mentalità, linguaggi che nessuno scrittore russo “colto” fino ad allora aveva sfiorato. Eppure io sono convinto che la vera frattura nella concezione del mondo di Dostoevskij avvenga più tardi: alla fine del 1859 egli torna in una Pietroburgo in fermento per i dibattiti sull’abolizione della servitù della gleba, pensa di essere alla vigilia di un complessivo, radicale rinnovamento della Russia in senso democratico. Così si butta a capofitto nell’attività pubblicistica assieme al fratello Michail e a un gruppo di intellettuali dediti al “ritorno allo humus”, ossia alle radici nazionali: i cosiddetti pòčvenniki, riuniti attorno alla rivista “Vremja” (“Il Tempo”), un gruppo molto interessante, molto composito.

È il biennio 1863-64 a imporre a Dostoevskij le prove decisive: la chiusura della rivista da parte del governo, la lacerante storia con Apollinarija Suslova, la morte del fratello e della moglie, e soprattutto il giro di vite repressivo che il regime impone al Paese. Di fronte all’ennesima delusione delle proprie speranze progressiste, Fëdor Michajlovič finisce per convincersi che la storia, come dialettica razionale di causa ed effetto che si svolge nel tempo, non possa portare a nulla, e che l’uomo, lasciato a se stesso, sia destinato a sprofondare nell’egoismo. Di qui la “conversione” a una nuova antropologia religiosa: all’uomo è necessaria una concreta esperienza del sacro che lo ponga di fronte a una scelta radicale fra autodistruzione e rigenerazione in Cristo. Come sempre, quando le possibilità di azione storica concreta paiono vanificarsi, entrano in gioco surrogati compensatori di tipo trascendente.

 

Tutti conoscono il suo vizio del gioco, brillantemente descritto ne Il giocatore, oltre alle note notizie tragiche dei suoi debiti, da cui alla fine riesce a cavarsela nonostante le mille difficoltà; è chiaro che non fosse uno stinco di santo, ma non è ben chiaro invece se le accuse di natura sessuale, tra sadomasochismo e pedofilia, fossero fondate oppure ancora una volta basate sulla scarsa capacità di separare l’autore dai personaggi delle sue opere. Gor’kij diceva di lui: «Dostoevskij è sicuramente un genio, ma un malvagio. Ha sentito, capito e ritratto con piacere due malattie dell’uomo russo nutrite dalla nostra brutta storia […] la violenza sadica di un nichilista che ha perso la fede in tutto e il masochismo di una creatura oppressa. C’è qualcosa di più delle bestie e dei ladri dentro di noi! Ma Dostoevskij ha visto solo loro».

Non ho alcun motivo specifico per difendere a prescindere Dostoevskij, che non mi è vicino né ideologicamente né caratterialmente, ma ho sempre trovato infondate e vilmente infamanti queste accuse. La loro unica fonte sono le esternazioni di tale Pavel Viskovatov, che andava in giro a insinuare come lo scrittore stesso gli avesse raccontato di aver violentato una bambina consegnatagli in sauna direttamente dalla governante (si suppone, dietro pagamento). E Dostoevskij – noto per essere riservato e musone con tutti – si sarebbe vantato di una simile mostruosità proprio con questo tizio, malgrado fossero conoscenti meno che superficiali!

L’accusa, riportata dal critico Nikolaj Strachov in una lettera a Tolstoj (che non le dette peso), divenne pubblica solo negli anni Dieci, quando tutte le persone coinvolte erano defunte. Strachov, che aveva una vecchia ruggine con Dostoevskij, naturalmente era ben consapevole che un giorno il carteggio di Tolstoj sarebbe stato pubblicato, e la sua ha tutta l’aria di una calunnia deliberata: una calunnia alla quale peraltro risposero in una lettera collettiva dal tono sdegnato numerosi personaggi della cultura che avevano conosciuto Dostoevskij.

Certo, a Dostoevskij piacevano le donne più giovani di lui: la Suslova, Anna Grigor’evna, Anna Vasil’evna Korvin-Kurovskaja (futura eroina della Comune di Parigi), ma sulla stessa base dovrei essere sospettato anch’io di perversione, dato che mia moglie è vent’anni più giovane di me… Siamo seri: la violenza sessuale su bambini o adolescenti è un meta-tema importantissimo nella narrativa dostoevskiana, che in generale è costruita proprio su leitmotiv trasversali e – già che ci siamo – sulla presenza di oggetti totemici ricorrenti. La violenza irrazionale, annientatrice e degradante su una vittima indifesa rappresenta il grado estremo di pulsione (auto)distruttiva in cui s’involve l’uomo che rifiuta l’empatia garantita dalla fede e decide di perseguire il proprio egoismo: è propria di personaggi di maggiore o minore caratura, come il principe Valkovskij, Svidrigajlov, Tockij, Stavrogin e altri, e impone alla vittima un doloroso percorso di recupero di sé, non sempre coronato dal successo (Sonja, Nastas’ja Filippovna, Grušen’ka, le numerose bambine martirizzate e/o suicide).

A proposito: se i casi che coinvolgono bambine o ragazzine sono numerosi e palesi, Dostoevskij descrive anche episodi di abusi omosessuali, assai meno evidenti data l’ovvia cautela imposta dagli standard censori dell’epoca. Dall’imberbe Sirotkin, “prostituto” del bagno penale siberiano in cui è ambientata la Casa dei morti, all’imbianchino Mikolka di Delitto e castigo, dal tandem Miusov-Kalganov nei Fratelli Karamazov allo stesso Smerdjakov: se dobbiamo credere alla testimonianza del metropolita Antonij Chrapovickij (un rigido asceta e pilastro spirituale delle Centurie nere, poi fondatore e guida della Chiesa Ortodossa Russa emigrata, non certo un amante del gossip),  nella versione iniziale dei Karamazov il movente del parricidio da lui commesso era la violenza sessuale che Fëdor Pavlovič gli aveva inflitto da bambino. Del resto (stando alle memorie della correttrice di bozze Varvara Timofeeva), sulla pedofilia omosessuale come fenomeno reale Dostoevskij si esprimeva nei termini di più recisa condanna: da bravo nazionalista, egli sosteneva che la prostituzione minorile maschile fosse diffusissima proprio in quell’Europa occidentale che tacciava la Russia di “barbarie”, ed egli stesso sarebbe stato oggetto di ripetute profferte mentre si trovava a Roma e a Napoli, nel 1864, assieme alla Suslova.

Al netto della retorica sciovinista di tali affermazioni, per tornare alla questione iniziale, non ho alcun motivo di pensare che Fëdor Michajlovič non aborrisse allo stesso modo la pedofilia eterosessuale. Anzi, vi sono testimonianze dirette in tal senso. A una serata mondana Dostoevskij, alla domanda su quale fosse secondo lui il peccato più grave, rispose: «violentare un bambino, perché togliere la vita è mostruoso, ma togliere la fede nella bellezza dell’amore è ancor più mostruoso»; e raccontò poi di una compagna di giochi d’infanzia nell’ospedale per indigenti dove lavorava il padre, morta in seguito a una violenza: un fatto che lo aveva sconvolto. Per quanti difetti di carattere potesse avere Dostoevskij, ripeto, accuse così turpi nei suoi confronti sono indicative solo del livello di chi le formula.

 

A proposito di detrattori, è impossibile non citare quello più famoso, Vladimir Nabokov. C’è una sua frase che colpisce molto: «I lettori non-russi non si rendono conto di due cose: che non tutti i russi amano Dostoevskij come gli americani e che la maggior parte dei russi a cui piace lo venera come un mistico e non come artista». Nabokov diceva questo nel 1969, ma oggi le cose sono cambiate o siamo veramente imbevuti di una visione “americanizzata”, senza renderci conto del peso del misticismo in Dostoevskij? Steiner, ad esempio, che critica molto le sue posizioni slavofile, disse che Dostoevskij è in grado di tradurre la bibbia in letteratura, ed anche Bunin sembrò non gradire il suo “seminare Gesù dappertutto”. Com’è percepito Dostoevskij in patria adesso?

Nabokov è uno scrittore eccezionale e un saggista brillante, ma – senza peraltro farne mistero – si attiene a un compiaciuto soggettivismo nei giudizi. A proposito, trovo sbagliato l’uso di instradare gli studenti alla letteratura russa facendo leggere loro per prima cosa i saggi di Nabokov: si tratta di una lettura affascinante, ma rischia di portare molto fuori strada su cosa significhi la disciplina storico-letteraria (faccio eccezione per il monumentale e splendido commento all’Onegin, anch’esso, peraltro, venato di soggettivismo). Io li “battezzo” con la lettura del vecchio Belinskij, che su cosa fosse, sia, debba e possa essere la letteratura russa ne sa più di chiunque altro…

Una delle fissazioni di Nabokov è il valore in sé dell’arte, il suo essere avulsa da qualsivoglia compito estrinseco: è il suo chiodo fisso anticomunista, che si allarga a coinvolgere ogni impegno ideale e “militante” in letteratura, e dunque anche Dostoevskij, coi suoi ostentati intenti predicatori, non poteva piacergli. Ma criticare Dostoevskij per lo slavofilismo o per la prospettiva coerentemente religiosa in cui egli colloca tanto la propria arte quanto la dimensione antropologica nel suo complesso, è come comprare Playboy e poi scandalizzarsi perché ci sono le donne nude… Non vi piace? Andatevi a leggere La Philosophie dans le boudoir e non ve la prendete col povero Fëdor Michajlovič, che quanto a fede era uno che c’era, non ci faceva!

Quanto alla domanda su quale sia la percezione che si ha di Dostoevskij oggi in patria, è facile rispondere: nessuna! Da metà anni Ottanta la Russia si arrabatta in una serie di continue crisi traumatiche che ne hanno messo a dura prova l’identità, da quella statale a quella politica, da quella socioeconomica a quella culturale. La centralità della letteratura nella costruzione dell’identità nazionale (o “letteraturocentrismo”) è finita da un pezzo, così come quel ruolo “messianico” dello scrittore durato più o meno da Gogol’ a Solženicyn: oggi si legge poco e – dal mio punto di vista – male, e il successo di uno scrittore è decretato dai premi che vince (o che gli fanno vincere) molto più che dalla qualità intrinseca delle sue opere: è un mercato letterario ready to eat ancora più sfacciato del nostro, dove fra i classici trova posto forse solo Il maestro e Margherita, naturalmente fruito nel modo più pedestre.

E Dostoevskij? La Russia odierna è un Paese la cui continuità culturale e spirituale è stata sottoposta un secolo fa a una cesura spietata, comunque la si pensi in merito (e io sono ben lontano dal considerare il rivolgimento d’Ottobre un fattore negativo). La società russa è profondamente scristianizzata, e a parte una minoranza di devoti, i russi o sono indifferenti alla religione o ne osservano il décor esteriore, non senza risultati di comica pacchianeria: i russi, per intenderci, non sono andati a catechismo da bambini, e le forme di religiosità prêt-à-porter che professano – quando le professano – sono tutte in un modo o nell’altro ricostruite e stilizzate. Cosa volete che se ne facciano di Dostoevskij?

Certo: a Dostoevskij è assegnata una nicchia d’onore nel pantheon identitario ufficiale. Quella che possiamo definire la politica culturale del putinismo è costruita attorno a un assunto fondamentale: la Russia e i russi erano, sono e sempre saranno, come emanazione di un sostrato ontologico immutabile per quanto possano cambiare le forme esteriori. È perciò una cultura profondamente eclettica, una zuppa dove galleggiano relitti delle epoche più diverse, perché al fine di costruire l’identità tutto fa brodo: i pacchianissimi ovetti di Fabergé e il Quadrato nero di Malevič; la beatificazione di Nicola II il Sanguinario e la rivalutazione di Stalin, ovviamente solo come condottiero vittorioso e restauratore dell’Impero; il clericalismo più gretto, il gergo della malavita più truce e l’americanismo più spinto.

Naturalmente, a nessuno importa più niente né delle profezie dostoevskiane né della sua antropologia religiosa, ma delle vecchie barbe non si butta via niente, soprattutto se sono spendibili in funzione ultrapatriottica. In questo senso, fra Dostoevskij e Tolstoj non c’è gara! Quanto agli studi accademici, il nostro è ormai stabilmente conteso fra i letterati devoti e quello dei bachtiniani di stretta osservanza: un po’ come le baruffe di Warriors of the night per il controllo del territorio. E forse Fëdor Michajlovič un po’ se lo merita.

Oltre alla sua vicinanza con le teorie slavofile, che non esclude posizioni nazionaliste, Dostoevskij non si tirava certo indietro a commentare la politica estera, un aspetto poco conosciuto della sua vita: è anche per questo che i democratici ed i liberali filo-occidentali non gradivano e non gradiscono le sue opere? Cosa diceva di così strano? Si è avverata qualcuna delle sue profezie politiche?

È vero: Dostoevskij ha sempre seguito con grande interesse la politica estera, direttamente o meno. Ad esempio, sulla già citata rivista “Vremja” di cui era redattore informale si dà gran risalto alla spedizione di Garibaldi “O Roma o morte” e alle vicende dell’Aspromonte (estate 1862): parlare di Garibaldi come eroe libertario consentiva di fare allusioni assai ardite alla necessità di innescare processi simili anche in Russia.

Poi, nella seconda metà degli anni Sessanta, Dostoevskij ha una decisa svolta nazionalista (legata alla crisi religiosa di cui parlavo prima) e comincia a guardare all’Europa occidentale come a un’entità sempre più estranea e nemica della Russia. L’immagine dell’Europa futura che inizia a formarsi nella pubblicistica di Dostoevskij è germanica sul piano dell’egemonia militare, francese sul piano dell’organizzazione statale e neocattolica sul piano ideologico: una sorta di idra a tre teste, dove all’accentramento imperialista promosso dalla Prussia corrisponderà una forma statale cesarista sul modello inaugurato da Napoleone III e un’ideologia dominante allo stesso tempo gerarchica, demagogica e pauperistica, quale lo scrittore si immagina sarebbe diventato il cattolicesimo una volta perso definitivamente ogni resto di potere temporale. A dire il vero, nessuna di queste previsioni si è poi realizzata, ma si tratta di idee che ci dicono molto sul contesto in cui maturano opere come Delitto e Castigo e L’idiota.

In seguito, Dostoevskij aderirà all’ideologia panslavista promossa da Nikolaj Danilevskij nel famigerato Russia ed Europa (1869), una sorta di vademecum storiosofico in salsa pseudo-evoluzionistica, secondo cui la storia procede per cicli dominati da “tipi storico-culturali” sempre diversi: al tipo “romano-germanico” che sta concludendo il proprio ciclo seguirà il “tipo slavo”. Ergo, la Russia deve assumere nel mondo slavo lo stesso ruolo unificatore svolto dalla Prussia in quello germanico, e la prossima lotta per l’egemonia avrà per teatro i Balcani. Per il Dostoevskij degli anni Settanta, specie durante e dopo la guerra balcanica, tutto ciò si traduce in quello che possiamo definire imperialismo isolazionista, collegato a un programma economico autarchico: già nell’aprile 1876 lo scrittore si lancia in una vera e propria apologia della guerra, atto catartico capace di espellere il “travaglio” dal corpo della nazione, ossia di trasformare le contraddizioni sociali interne in conflitto militare esterno. Di qui la valorizzazione di Il’ja Muromec, il pio campione o bogatyr’ delle leggende popolari, e il culto del podvig (atto eroico) e del martirio per la fede: tutti elementi che innervano sia la pubblicistica dell’ultimo Dostoevskij sia l’intera struttura del Fratelli Karamazov, che – al di là della dimensione antropologico-religiosa – è anche un’opera profondamente politica, dato che la pia armonia sociale annunciata dal pater seraphicus ha bisogno di bogatyri che combattano sulle sue frontiere perennemente sanguinanti.

Penso che – se non ci fosse stata la rivoluzione del 1917 – tale concezione avrebbe generato una sorta di ideologia globale definibile fascismo russo: un fascismo con venature mistiche e teocratiche. Non a caso, una delle imprese che hanno dato inizio alla corrente della “rivoluzione conservatrice” in Germania è stata la traduzione delle opere complete di Dostoevskij in tedesco a opera di Dmitrij Merežkovskij e Arthur Moeller van den Bruck; e l’unico movimento fascista con tratti originali nato in un paese ortodosso – la Guardia di Ferro romena di Corneliu Codreanu – ha tali caratteristiche.

Forse proprio Steiner è il colpevole di quella che definirei un’ossessione per il dualismo Tolstoj – Dostoevskij: ancora oggi i due autori sono protagonisti in un terreno dove i lettori-tifosi battagliano per determinare la supremazia di uno sull’altro (e solitamente le discussioni terminano con la citazione della scena di Tolstoj che sul letto di morte decide di rileggere i Fratelli Karamazov). Noi non vogliamo sapere da lei chi vince questa sfida, piuttosto: come è possibile che questo dualismo sia diventato – perdoni il termine – così pop nel mondo della letteratura, al punto da mettere in ombra personalità come Puškin e Gogol’? Anche alla luce del fatto che Tolstoj e Dostoevskij non si incontrarono mai di persona…

Sì, il parallelo (o la contrapposizione) fra i due è un vecchio luogo comune: già uno dei testi fondamentali che stanno alle origini del modernismo russo d’inizio Novecento è il classico saggio del già citato Merežkovskij Tolstoj e Dostoevskij (disponibile anche in italiano, per chi fosse interessato). In un caso del genere, ovviamente, cadere nelle banalità è facile, ma in generale sono convinto che i due vadano giudicati su scale temporali diverse: in un’ottica di lungo periodo, entrambi concorrono a quella generale reazione della cultura europea alla “complessità del mondo” aumentata a dismisura con la rivoluzione industriale, la rivoluzione francese e le loro conseguenze. Sia il trascendentalismo mistico di Dostoevskij che l’arcaismo nichilista di Tolstoj, la sua tecnica di descrizione straniata delle convenzioni sociali, il suo riduzionismo patriarcale, sono dei potenti “riduttori di complessità”, aiutano tanto a capire i meccanismi psicologici dell’uomo moderno quanto a compensare un generale disorientamento in una realtà che si presta sempre meno a categorie univoche di comprensione. E non è un dato casuale la comune origine di due figure del genere: la Russia era infatti un paese periferico, allo stesso tempo arretrato e sottoposto a pressioni modernizzatrici violente e squilibrate, dove le contraddizioni si percepivano in modo particolarmente traumatico.

In un’ottica di breve periodo, ossia nel loro “qui e ora”, invece, Tolstoj e Dostoevskij sono figure diversissime. Lev Nikolaevič è un rappresentante della nobiltà terriera fuori tempo massimo: si sente a disagio nell’ambiente culturale della seconda metà del secolo, non è interessato alle dispute ideologiche, tenta di ricreare in forma sublimata una figura di scrittore, un rapporto con la letteratura caratteristico della generazione di Rousseau e Sterne, e proprio perché rifiuta in toto la modernità finisce paradossalmente per assumere posizioni di estremo radicalismo democratico ed “anarco-evangelico”. Dostoevskij, al contrario, non ha alcun legame col ciclo socio-culturale svoltosi sotto il segno della nobiltà terriera: è un pubblicista, giornalista e scrittore pienamente inserito nel gioco del mercato letterario “borghese” e sarà sempre un intellettuale militante, anche quando finirà per abbracciare posizioni decisamente di destra.

In generale, i due ci capivano troppo di letteratura per non riconoscere tutto il valore l’uno dell’altro e per non individuare senza difficoltà i punti di divergenza. Per Dostoevskij, ad esempio, Guerra e pace è un’opera tanto monumentale quanto retrospettiva, finalizzata a cantare le antiche stirpi nobiliari prese nel momento in cui erano state – o avrebbero potuto essere – rappresentanti dell’intera comunità nazionale nel senso più alto: la riscossa antinapoleonica del 1812. Ma è un punto di vista che a Dostoevskij non interessa, in quanto tutto rivolto al passato. A lui preme piuttosto la lotta per l’egemonia ideologica sulle figure del futuro, e nel fascicolo del febbraio 1877 del Diario di uno scrittore conduce un’analisi eccezionalmente sottile dei personaggi di Anna Karenina: una disamina sociologica con accenti quasi marxisti… si vede che la vecchia barba era stata di buone letture da giovane!

E poi, Dostoevskij trova sterile il razionalismo tolstoiano, anch’esso, peraltro, desunto dalla cultura nobiliare, con le sue radici nelle Lumières del Settecento. Levin, ad esempio, giunge alla fede in Dio passo dopo passo, riflettendo sul significato delle proprie esperienze, ma una fede ottenuta così la si può perdere allo stesso modo: non è vera fede – osserva Dostoevskij già nel luglio-agosto dello stesso anno – perché, così come il “signorotto” se l’è impacchettata, se la può spacchettare in ogni momento.

Kitty camminava ed è inciampata: perché dunque è inciampata? Se è inciampata, vuol dire che non poteva non inciampare: è anche troppo evidente che è inciampata per questo e per quello. È chiaro che tutto qui dipendeva da leggi che possono essere determinate nel modo più rigido. Ma se è così, vuol dire che dappertutto c’è la scienza. Dov’è dunque la Provvidenza? Dov’è dunque la sua funzione? Dov’è la responsabilità umana? Ma se non c’è la Provvidenza, come posso io credere in Dio, ecc. ecc.?

È una delle pagine più brillanti del Dostoevskij polemista, capace di “fare il verso” al grande contemporaneo, imitandone lo stile e la logica. Guardatevi da Dostoevskij: il dono della polifonia possiede il proprio lato oscuro…

 

C’è un’intensa proliferazione delle opere dostoevskiane nel mercato editoriale: tra lettere, appunti, il diario della moglie ed opere incomplete, ormai ogni appassionato potrebbe vantare una ricca biblioteca su Dostoevskij: c’è un’opera che lei considera superflua o sopravvalutata e, per bilanciare, opere (conosciute e non) che dovrebbero essere lette e rilette per approfondire meglio il pensiero dell’autore?

Per chi legge il russo, ovviamente, è irrinunciabile la vecchia Raccolta completa delle opere in trenta volumi (in realtà trentatré): uscita dall’inizio degli anni Settanta all’inizio dei Novanta, essa è un modello superbo di edizione critica nazionale, con ogni singola riga vergata da Dostoevskij – fino ai conti della spesa! – glossata e commentata. Un esempio di cosa volesse dire un comparto editoriale centralizzato e statale, dedito a imprese di politica culturale che in regime di mercato sarebbero rovinose.

Per chi Dostoevskij lo legge in italiano, mi sentirei di mettere in guardia dallo sconclusionato e goffo racconto lungo La padrona, dal soporifero e piagnone Umiliati e offesi nonché – e qui mi lapideranno! – dalle Notti bianche: baggianate zuccherose da far venire il diabete! In compenso, inviterei alla lettura di gioielli poco noti: il sarcastico e amaro Una sconcia storiella, l’horror surreale di Bobok, le prime prove del dopo-esilio Il sogno dello zietto e Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti. Anche se il vero Dostoevskij inizia con gli Appunti dal sottosuolo, un’opera abbacinante, geniale, al livello dello Zarathustra di Nietzsche e del Manifesto di Marx ed Engels: sulle illuminazioni degli Appunti, Dostoevskij campò poi di rendita per tutto il “pentateuco” dei suoi romanzoni, da Delitto e castigo ai Karamazov.

Quanto al supporto interpretativo, consiglio senz’altro una recente monografia italiana di grande valore (benché l’autrice abbia un approccio molto diverso dal mio): Dostoevskij, di Maria Candida Ghidini.

Ultimo consiglio per gli acquisti: un vero cultore di Dostoevskij non può fare a meno di leggere la sua non-fiction, per fortuna tradotta in italiano. Parlo del Diario di uno scrittore, sorta di zibaldone pubblicistico-filosofico-cronachistico (con preziosi lacerti narrativi, come il già citato Bobok e l’eccezionale racconto lungo La mite, una sorta di Sottosuolo 2.0) da cui traggono origine innumerevoli trame poi variamente realizzate nei romanzi; e poi, senz’altro, la mole imponente delle Lettere, di recente tradotte da un agguerrito team di slaviste italiane. L’ho già detto: era chiuso e musone, Fëdor Michajlovič, e, senza dare una sbirciata nel suo carteggio, troppo, troppo resta a noi celato…

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